IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno III, 1961, Numero 6, Pagina 261

 

 

Una discussione sui concetti di democrazia e di competenza
 
Alcune osservazioni
sulla scienza politica e la democrazia
 
MARIO STOPPINO
 
 
L’interessante articolo di Georges Goriely tocca problemi veramente importanti oggi sia dal punto di vista della conoscenza teorica dei fatti e del campo della politica, sia dal punto di vista della prospettiva pratica. Argomenti come quello del conflitto tra il principio democratico e la concezione dell’élite, della possibilità o meno di una scienza politica, dei rapporti tra conoscere ed agire, sono infatti centrali per qualsiasi considerazione del campo politico, sebbene il primo di essi possa dirsi ormai avviato ad una concettualizzazione teorica largamente accettata. Sull’idea che forma il tema principale e la conclusione del saggio di Goriely — la necessaria e imprescindibile connessione tra l’azione e la conoscenza politica — non posso che manifestare il mio completo accordo. La posizione vichiana riflessa nella frase citata da Goriely, e soprattutto l’approfondimento di tale visuale nello specifico campo socio-politico mediante la fondamentale concezione dell’ideologia (di Marx, sia pure in modo unilaterale, e di Mannheim) mi sembrano mettere in luce uno dei più importanti fondamenti del conoscere e del pensiero politico, se non più in generale dell’intera conoscenza umana.
Si conosce e si comprende ciò che si fa e che costituisce il nostro campo di esperienza attiva; o, come bene si esprime Goriely, «l’uomo non può immaginare soluzioni valevoli che per problemi coi quali ha effettivamente occasione di essere confrontato». Dove il mio accordo diventa invece meno completo o viene a mancare è sugli altri punti prima accennati ed in generale sul susseguirsi delle argomentazioni adottate da Goriely per giungere a quella conclusione. Ho perciò sentito il bisogno di annotare con qualche breve osservazione i pensieri svolti dal collaboratore della nostra rivista.
Anzitutto, mi pare vi sia una contraddizione latente nel modo in cui Goriely respinge sia l’idea di una gerarchia sociale globale basata sul criterio di una scienza unitaria del governo, sia quella dell’assegnazione del potere politico a competenti «tecnici» di ogni campo specifico, con il medesimo argomento della inesistenza di una scienza del governare. Mentre il primo atteggiamento critico implica infatti chiaramente il rigettare una tale scienza, il secondo atteggiamento implica l’affermare (di contro alle scienze, o conoscenze, tecniche) l’esistenza di essa (o per lo meno di una conoscenza politica) che le inglobi e le superi. Se la guerra è una faccenda troppo seria per affidarla a dei militari, o la politica estera troppo seria per affidarla a dei diplomatici, bisognerà affidarle a dei politici, cioè ad individui che abbiano una competenza ed un tipo di conoscenza non militare o diplomatica ma politica. Ma allora si deve ammettere l’esistenza, se non di una scienza del governare, per lo meno di un qualche tipo di conoscenza politica specifica e quindi di qualche competenza politica. Tuttavia questa contraddizione, come accennavo, è soltanto latente nel modo di procedere del nostro; poiché ciò che egli intende soprattutto mettere in luce è l’inesistenza «di una scienza di governo nel pieno senso della parola», sia che essa sia considerata come una scienza unitaria sia che sia concepita come un insieme di scienze particolari. Ma, anche così, una volta che si sia scartata — d’accordo con Clémenceau — l’idea dell’attribuzione del potere politico ai competenti nei singoli settori particolari, rimane sempre il problema se si possa tranquillamente scartare anche l’altra idea di una scienza politica specifica. In ogni modo, dunque, s’impone il problema dell’esistenza (o della possibilità) o meno di una scienza del governo (o, diremo meglio, di una scienza politica).
Anzitutto, che cosa s’intende per «scienza di governo nel pieno senso della parola»? Certo, se con questa espressione si intende un insieme integrato di schemi rigorosi che permetta di prevedere con certezza assoluta gli eventi politici e quindi di mettere in atto gli strumenti sicuramente idonei al raggiungimento dei fini che volta a volta ci si propone, una tale scienza di governo (che cioè indichi in ogni caso ed in modo univoco il da farsi all’uomo politico) non esiste. Ma, in un tal senso, non può parlarsi di alcuna scienza che studi i comportamenti umani. Anche quella che viene considerata la scienza umana più sviluppata e più matura, l’economica, non offre in alcun modo gli strumenti concettuali per una conoscenza certa e per la risoluzione univoca di ogni problema. l suoi schemi e le sue «leggi» isolano una componente dell’agire umano da tutte le altre, e — poiché tale componente è molto rilevante in un certo contesto di azioni e di situazioni — mettono in luce una specifica conoscenza che orienta in modo decisivo i comportamenti degli uomini in quel contesto. Il comportamento concreto, storico, dell’operatore economico è sempre un comportamento, per così dire, «totale», in cui cioè confluiscono innumerevoli conoscenze e fini ed impulsi d’azione; ma rimane sempre il fatto che gli schemi che lo orientano in modo rilevante così come quelli che ne danno l’interpretazione più coerente e valida, in relazione con gli altri comportamenti nel mercato, fanno parte di una specifica conoscenza, o di una scienza, economica. Se ne conclude che, come non vi è in quel «pieno senso della parola» una scienza del governare, così non vi è una scienza dell’operare economico. Ciò non toglie che, come vi è una scienza economica, nel senso di pensiero che spiega in modo rilevante i comportamenti umani nel contesto economico e orienta in modo decisivo tali comportamenti, così vi è una scienza politica (sia pure non ancora integrata e portata a chiare formalizzazioni come la prima) che spiega in modo rilevante i comportamenti umani nel contesto politico e orienta in modo decisivo tali comportamenti.
Infatti mi pare che il nucleo centrale della politica pratica e della scienza politica — la lotta per il potere — metta in luce tutta una serie di schemi e di concettualizzazioni che, astraendo la componente politica dell’agire umano da tutte le altre componenti, interpreta la politica e orienta l’azione. In primo luogo, il concetto di lotta per il potere spiega il comportamento umano volto a prendere e a conservare il potere istituzionalizzato, secondo la formidabile intuizione di Machiavelli. Ciò implica una distinzione dei comportamenti politici, per lo meno tra comportamento politico attivo (di chi dedica la propria vita alla politica e fa parte della «classe politica») e comportamento politico passivo (della maggioranza che non si occupa in modo rilevante della politica e rappresenta il consenso), bipartizione che era già vigorosamente implicata in Machiavelli e che è stata poi portata a regola sociologica da Mosca — o anche una tripartizione, che è stata tentata da Weber e anche dalla nostra rivista. Implica inoltre una diversa prospettiva di esperienza e di conoscenza per ciascuno di tali comportamenti politici; ed una certa relazione definita, sebbene a mio parere finora non ancora in modo conclusivo, tra i citati comportamenti politici. Implica infine, in rapporto con tutto ciò, una certa concettualizzazione degli strumenti atti a prendere e mantenere il potere istituzionalizzato. In secondo luogo, il concetto di lotta per il potere spiega il comportamento umano volto a modificare o abbattere le istituzioni esistenti (che incanalano gli insiemi di comportamenti di comando e di obbedienza e che sostengono un equilibrio di potere), o ad edificarne di nuove per mettere in atto un nuovo equilibrio di potere. Ciò implica una tipologia delle istituzioni politiche, o strumenti di governo, problema che è stato costantemente al centro del pensiero politico e costituzionalista nella tradizione culturale occidentale (con le partizioni delle forme di Stato e di governo). Implica poi una correlazione definita tra istituzioni politiche e fini relativamente permanenti in cui si incanalano i comportamenti sociali nel loro ambito; ed implica infine una schematizzazione dei modi di abbattere e di edificare tali istituzioni politiche (rivoluzioni, colpi di Stato, costituenti ecc.). Credo che questi rapidissimi cenni siano sufficienti per concludere che in politica vi è un insieme rilevante di schemi mentali (corrispondenti ad uniformità empiriche) che, se si presentano ancora come dispersi e non immessi in una intelaiatura di correlazioni sufficientemente generale ed elaborata, costituiscono però senza dubbio alcuno una conoscenza (se non ancora una scienza) veramente specifica ed imprescindibile per l’azione politica. Ciò tanto più mi premeva di mettere in luce, in quanto la nostra rivista si propone di contribuire — incidentalmente ed insieme alla revisione delle vecchie ideologie politiche europee — alla fondazione ormai matura della scienza politica.
Ma, se ciò è vero, — e se, in particolare, è vera l’esistenza di una classe politica, che è sempre una minoranza, che rappresenta l’attività e l’iniziativa nella vita politica, e che possiede una conoscenza specifica che ne orienta l’azione— non si può più accettare come «una banalissima professione di fede democratica l’ammettere che ogni essere umano adulto e in grado di ragionare è ugualmente atto a pronunciarsi sulle cose della Città», si deve almeno riconoscere che tale professione di fede è irrimediabilmente in contrasto con la realtà effettiva del comportamento umano in politica, se non altro perché la maggior parte degli uomini non ha nessuna voglia di occuparsi in modo impegnativo e continuativo delle «cose della Città».
Come ha scritto molto bene Schumpeter, il cittadino medio «spende nello sforzo disciplinato di tentare di capire e risolvere un problema politico meno energia che nel giocare a bridge».[1] Con ciò non voglio dire che si deve rigettare tutt’intera la dottrina democratica; si deve rigettarne la parte ideologica e mistificatrice: l’idea cioè che il popolo governi, o che prenda le decisioni politiche, o anche che scelga un capo o un gruppo di capi (non occorre neanche ricordare le critiche, che mi sembrano definitive, di Mosca e, appunto, di Schumpeter). L’unico concetto accettabile e utile che rimane della democrazia — in quanto realtà politica — è, a mio parere e come ha insegnato ancora Schumpeter, quello della accettazione da parte dei cittadini di una leadership anziché di un’altra mediante la procedura delle elezioni istituzionalizzata e dotata di alcuni requisiti e garanzie (effettiva pluralità delle leaderships candidate, ricorrenza periodica del voto, libertà di voto, ecc.).[2]
Del resto, anche Goriely deve contraddire, o per lo meno attenuare di molto, la sua «banalissima professione di fede democratica» quando scrive: «C’è capacità politica quando esiste una effettiva apertura dello spirito ai problemi politici, cioè in primo luogo una vera possibilità di influenzare l’andamento degli eventi, "mise dans le bain"». Sembra quindi che vi sia qualcuno che è maggiormente«atto a pronunciarsi sulle cose della Città». Goriely fa quell’affermazione per mettere in luce, come dicevo all’inizio, l’indissolubile legame tra fare e conoscere. L’affermazione è profondamente vera. Ed è bene appropriata per render conto del contesto politico di azione e conoscenza, così come lo ha sommariamente e provvisoriamente delineato discutendo del problema della scienza politica. Essa è bene appropriata, in primo luogo, per rendere conto della situazione e del tipo di conoscenza dei membri della classe politica in quanto tali: coloro infatti che fanno della politica il fine principale della loro vita si dedicano alla lotta per il potere e, ciò facendo, si rendono padroni, della specifica conoscenza del contesto politico del comportamento umano ed in sostanza degli schemi mentali sviluppati in tutta la tradizione di quella che si può (almeno grosso modo) chiamare scienza politica.[3] Ed è bene appropriata, in secondo luogo, per rendere conto della situazione e del tipo di conoscenza dei membri della classe politica di fronte al problema di abbattere o di edificare le istituzioni di governo: quando, per esempio, le istituzioni di governo non consentono un governo reale (nel senso generale di influenza effettiva sulla situazione di potere, rilevante per l’andamento delle faccende umane), esse possono limitare e fuorviare la conoscenza ed incatenare e rendere impotente l’azione della classe politica che lotta per conquistare il potere localizzato nelle istituzioni stesse e che non si rende conto della loro inefficienza; la stessa situazione istituzionale pone coloro che si accorgono della inefficienza delle istituzioni di governo esistenti in un contesto di azione e di conoscenza imperniato principalmente sui modi di abbattere i vecchi strumenti di governo e di costruirne di nuovi. E’ ben vero, dunque, che vi è un legame indissolubile tra fare e conoscere in politica; ma ciò non elimina, anzi contribuisce a spiegare, l’esistenza di una specifica conoscenza politica, messa in relazione con l’esistenza di distinti e definiti comportamenti politici. E, ancora, tali comportamenti sono inevitabilmente in contrasto con gli aspetti più ingenui o mistificatori dell’ideologia democratica.
E, per concludere, non è forse contenuta in nuce la maggior parte delle mie osservazioni a proposito della scienza politica e della democrazia nella frase conclusiva del collaboratore della nostra rivista? Goriely scrive: «Così dunque, educare politicamente il popolo non significa dargli come prima cosa delle conoscenze nuove, ma delle nuove possibilità d’azione». Questa proposizione, infatti, sembra implicare una distinzione tra «popolo» e suoi «educatori» (cioè tra comportamento politico passivo e comportamento politico attivo); e sembra implicare, inoltre, una particolare conoscenza da parte degli «educatori» che li metta in grado di pensare ed eventualmente di realizzare una istituzione politica (o strumento di governo) che apra al «popolo nuove possibilità d’azione».


[1] Joseph A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, Edizioni di Comunità, Milano, 1955 (la prima edizione americana è del 1941), p. 245.
[2] Non voglio, con ciò, affermare che la procedura del voto sia il solo modo di canalizzare un minimo di influenza del «popolo» sulla politica. Ve ne sono altre che possono contribuire a mettere in moto una tale influenza, ma l’istituzione delle elezioni — così chiaramente enunciata da Schumpeter — è di gran lunga quella più importante.
[3] Analogamente, la conoscenza relativa al comportamento politico passivo (od ai due altri comportamenti politici, se si accetta la tripartizione) si presenta come mitica ed ideologica, in corrispondenza alla mancanza di esperienza ed azione effettiva nella vita politica.

 

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