IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXXVIII, 1996, Numero 1, Pagina 45

 

 

DIRITTO ALLA GIUSTIZIA E DIRITTO ALLA PACE
 
 
Le atrocità commesse nelle guerre civili dell’ex-Jugoslavia e del Ruanda avevano indotto il Consiglio di sicurezza dell’ONU, prima nel 1993 e successivamente nel 1994, a promuovere la costituzione di due tribunali internazionali ad hoc incaricati di perseguire i crimini commessi in queste due aree «in violazione della legge umanitaria internazionale e quei crimini che offendono la coscienza del genere umano».[1] Ma il moltiplicarsi nel mondo degli episodi che andavano contro ogni rispetto dei diritti umani ha fatto sì che crescesse la domanda di giustizia da parte dell’opinione pubblica mondiale.
Così nel dicembre del 1995 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha incaricato un Comitato preparatorio di redigere una bozza di Statuto per un Tribunale criminale internazionale permanente, al fine di convocare entro il 1997 una Conferenza intergovernativa mondiale.
Queste decisioni sono state salutate con favore da tutti gli Stati (l’Italia si è già offerta di ospitare la Conferenza del 1997) e dalla maggior parte delle organizzazioni non governative che, coordinate dal World Federalist Movement,[2] si sono battute in prima linea nel rivendicare l’istituzione di questo Tribunale. Questa battaglia è un significativo esempio delle opportunità che si stanno aprendo per i federalisti a livello mondiale per porsi alla guida di iniziative capaci di coalizzare le maggiori organizzazioni non governative internazionali. Ma, come in molte battaglie cruciali in cui è in gioco il trasferimento di una parte della sovranità degli Stati — in questo caso in campo giudiziario — uno dei pericoli da scongiurare da parte dei federalisti è rappresentato proprio dalla tentazione di distogliere l’attenzione dagli obiettivi istituzionali strategici.
Gli avvenimenti degli ultimi anni hanno mostrato come la battaglia per la tutela dei diritti umani non possa essere vinta agendo solo a livello nazionale. Ciò che agli albori della battaglia per i diritti umani poteva essere solo teorizzato, oggi incomincia a diventare realtà. Un paladino illustre dei Rights of Man come Thomas Paine, feroce critico dei sistemi di governo della sua epoca, perché quasi tutti nemici dei diritti umani fondamentali, aveva indicato nel governo federale americano il primo esempio di governo compatibile con il rispetto dei diritti dell’uomo. Paine sottolineò anche come un governo basato sui diritti umani non può prescindere da un «sistema di pace universale». Questo punto di vista stenta ancora a diffondersi nella maggior parte dei Movimenti per i diritti umani, ma la prospettiva federalista di queste battaglie ha ormai la possibilità di entrare nel dibattito politico.
A questo proposito è utile cercare di rispondere ad alcune semplici domande. In che senso la creazione di un Tribunale criminale internazionale può aprire nuove opportunità d’azione per i federalisti? La creazione di un simile Tribunale va considerata un obiettivo strategico in sé? Oppure questa battaglia ha un valore strumentale solo nella misura in cui può far emergere con più chiarezza l’incompatibilità del mantenimento delle sovranità nazionali con il rispetto del valore della giustizia?
 
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Due considerazioni possono forse aiutarci a chiarire i termini del problema. La prima considerazione riguarda l’ambiguità di voler istituire un Tribunale che punisca gli individui, ma che in realtà, nella situazione attuale, sarebbe costretto a giudicare sulla base di una distinzione a priori, non di natura giuridica ma di natura politica, fra Stati buoni e Stati cattivi. Il precedente del Tribunale di Norimberga è emblematico. Esso venne istituito sulla base di una scelta politica: i vincitori dovevano giudicare i vinti. E infatti, durante il processo, ogniqualvolta gli avvocati difensori degli imputati fecero riferimento a possibili crimini commessi dai vincitori, il Presidente del Tribunale stralciò le loro richieste poiché non era compito di quella Corte indagare sulle attività delle potenze alleate. Più recentemente altri episodi hanno messo in luce questa ambiguità. Le difficoltà emerse dopo l’arresto e il deferimento al Tribunale internazionale dell’Aja di due ufficiali serbi da parte delle autorità del governo bosniaco, sulla base degli accordi di pace di Dayton, hanno per esempio messo in luce i pericoli insiti nell’esercizio di una giustizia parziale e casuale, che non si occupa davvero di individuare e perseguire i responsabili degli innumerevoli crimini che hanno accompagnato la tragedia jugoslava. Infatti, oltre a Mladic, Karadzic e ai rispettivi collaboratori — già universalmente considerati criminali — non dovrebbero essere almeno indagati personaggi come il croato Tudjmann, il serbo Milosevic e lo stesso musulmano Hizetbegovic, che non sono affatto estranei a quanto è accaduto nell’ex-Jugoslavia negli ultimi anni? Ma questi capi di Stato, non hanno forse agito esercitando il potere che derivava dalla sovranità riconosciuta loro dagli altri Stati nazionali?
In un contesto ben più pacifico, l’incidente diplomatico sorto tra Spagna e Belgio sul problema dell’estradizione di due sospetti terroristi dell’ETA dal Belgio alla Spagna — due paesi dell’Unione europea e dell’area giudiziaria comune sancita dagli accordi di Schengen, cioè dell’area più integrata del mondo sotto tutti i profili — conferma la difficoltà di esercitare un’azione penale contro degli individui senza disporre delle istituzioni adeguate che regolino la giustizia fra gli Stati.[3]
Queste constatazioni ci portano ad una seconda considerazione. Esiste un’insanabile contraddizione fra il valore della giustizia e l’esercizio della ragion di Stato da parte degli Stati nazionali. Questi ultimi, nel tentativo di difendere ad ogni costo la propria sovranità, pretendono di amministrare la giustizia a livello internazionale nello stesso modo in cui i monarchi assoluti l’amministravano nei loro regni. Bacon aveva efficacemente stigmatizzato questo modus regnandi: «Lasciate che i giudici siano leoni, ma leoni che non osino sfidare la sovranità od opporsi ad essa». Questi sono i giudici che gli Stati sovrani vorrebbero avere a livello internazionale. E’ appena il caso di osservare che ciò non avviene in conseguenza di una cattiva volontà degli Stati, ma perché è l’esistenza stessa della sovranità nazionale che nega la giustizia internazionale, dal momento che essa rappresenta la negazione del principio di uguaglianza e di libertà dei cittadini di Stati diversi. Questo rapporto fra uguaglianza e giustizia è ben noto sin dai tempi di Aristotele, il quale aveva ben messo in evidenza come «coloro che non sono né liberi né uguali non hanno nei loro rapporti reciproci la giustizia politica, ma una specie di giustizia chiamata così per analogia». La giustizia, concludeva Aristotele, esiste solo per coloro i cui rapporti sono regolati da una legge. E’ la legge che garantisce al tempo stesso la giustizia e l’uguaglianza. A livello internazionale il problema è dunque in ultima istanza costituito proprio dal fatto che i rapporti fra gli Stati non sono ancora regolati da alcuna legge. Questo problema, lungi dall’essere risolto con la creazione del Tribunale criminale internazionale, è anzi destinato a riproporsi con sempre maggiore evidenza.
In un passaggio dell’intervento già citato all’inizio pronunciato di fronte all’Assemblea dell’ONU, si precisava che «l’Unione europea considera che un’importante caratteristica del Tribunale dovrebbe essere la sua complementarietà con i sistemi nazionali di giustizia penale». Anche nel preambolo della bozza di Statuto per un Tribunale criminale internazionale elaborata nel 1994 si specificava che la «complementarietà va intesa come la possibilità di intraprendere un’azione giudiziaria quando l’azione nazionale si rivela impraticabile o inefficace». Questa idea della complementarietà presupporrebbe la possibilità di giudicare con il diritto le scelte politiche degli Stati sovrani. L’identificazione dei colpevoli e di quali crimini perseguire continuerebbe infatti a dipendere più dagli equilibri di potere dentro e fra gli Stati, piuttosto che dal giudizio del Tribunale.
Le aspettative che il voto dell’Assemblea generale ha innescato non tengono ancora sufficientemente conto di queste ambiguità e contraddizioni.[4] Esse riguardano soprattutto l’attribuzione di un potere di iniziativa autonomo ai futuri giudici del Tribunale, la capacità di portare in giudizio i sospettati, la definizione dei principali crimini sui quali il Tribunale potrebbe esercitare la propria giurisdizione e delle garanzie per gli imputati. Ma possono queste aspettative essere soddisfatte senza l’accettazione da parte degli Stati di una legge comune che li governi e dell’ingerenza di una polizia internazionale entro i loro confini? E’ possibile vincere la battaglia per la creazione di un Tribunale criminale internazionale senza affrontare il problema della creazione di una efficace Corte di giustizia internazionale al di sopra degli Stati?
Una risposta a queste domande è già stata data dallo storico Seeley oltre un secolo fa: «Non solo le Corti sono sempre storicamente esistite nell’ambito degli Stati, ma hanno tratto da questi le loro caratteristiche e la loro efficienza… I giudici, perciò, o i tribunali, non possono esistere isolati, ma sono necessariamente collegati ad altri poteri: un potere di nomina, un potere di disciplina, e un potere di attuazione. Ma là dove si incontrano tutti questi poteri, un potere di nominare i funzionari, un potere di regolazione o legislativo, un potere giudiziario, e un potere di eseguire le sentenze, si ha l’organizzazione completa dello Stato; ciò dimostra che la Corte implica lo Stato e, come conseguenza necessaria, che una Corte internazionale implica uno Stato internazionale o federale».[5] Questa affermazione di Seeley è solo in apparenza contraddetta dall’esistenza in Europa di una Corte di giustizia che, pur in assenza di una Unione federale, ha contribuito ad affermare la prevalenza del diritto comunitario su quello nazionale. Infatti la Corte di giustizia europea ha agito e continua ad agire in un quadro in cui, dopo il 1945, gli Stati europei hanno rinunciato — o più precisamente, sono stati costretti a rinunciare — alla guerra, ed hanno deciso di avviare un processo di unificazione politica sovranazionale che non solo è gradualmente avanzato, ma che è ormai giunto ad un punto cruciale.
La costituzione e l’efficacia di un Tribunale criminale internazionale sono quindi legate alla creazione di uno Stato federale e ripropongono il nodo irrisolto del rapporto fra giustizia e sovranità nazionale, fra diritto alla giustizia e diritto alla pace.
Oltre due secoli fa, con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, l’Assemblea nazionale francese affermò per la prima volta il principio secondo il quale il fine ultimo di ogni organizzazione politica deve essere la salvaguardia dei diritti naturali ed imprescindibili dell’uomo. Questi diritti vennero identificati nel diritto alla libertà, nel diritto alla proprietà, nel diritto alla sicurezza e alla resistenza all’oppressione. Ma gli articoli fondamentali della Dichiarazione non si limitarono a porre le basi per la difesa della libertà degli individui. Essi introdussero anche il principio della salvaguardia della libertà delle nazioni, e indicarono nella nazione l’unica vera fonte della sovranità. A questo proposito, già nel corso del dibattito all’Assemblea nazionale francese emerse il dubbio che questa duplice rivendicazione di libertà — per gli individui e per i gruppi nazionali di individui — contenesse i germi di una pericolosa contraddizione. Alcuni membri dell’Assemblea notarono infatti che la Dichiarazione dei diritti avrebbe dovuto essere accompagnata da una Dichiarazione dei doveri. L’obiezione non venne presa seriamente in considerazione, in quanto si osservò che ogni diritto individuale implica sempre un corrispondente dovere di garantire lo stesso diritto a tutti gli individui. Non venne così affrontato il problema di come sarebbe stato possibile garantire gli stessi diritti ai cittadini di più nazioni sovrane libere ed indipendenti, sottolineando come «le sole cause delle pubbliche disgrazie e della corruzione dei governi» vanno ricercate «nell’ignoranza, nella trascuratezza e nel disprezzo dei diritti umani». La Dichiarazione dei diritti dell’uomo, affermando il diritto degli individui all’uguaglianza ed alla libertà, ma non alla pace, pose dunque le premesse per rivendicare la giustizia a livello nazionale, ma non a livello internazionale.
Finché il nazionalismo continuò ad incarnare il mito della liberazione dei popoli e degli individui, questo limite non venne percepito come una intollerabile contraddizione. Solo di recente, con il progredire dell’integrazione economica, sociale, culturale e politica su scala internazionale, lo Stato nazionale è apparso sempre più come un anacronistico e pericoloso ostacolo sulla strada dello sviluppo e dell’emancipazione dell’umanità dai pericoli globali che incombono su di essa. Si è così aperta una nuova era per la rivendicazione dei diritti dell’uomo. Un’era in cui diventa possibile portare a termine la rivoluzionaria battaglia inaugurata dalla Dichiarazione dell’Assemblea francese; un’era nella quale diventa forse possibile tradurre in un’azione politica l’intuizione di Kant in base alla quale «il problema di instaurare una costituzione civile perfetta dipende dal problema di creare un rapporto esterno tra gli Stati regolato da leggi, e non si può risolvere il primo senza risolvere il secondo».[6] Partendo da questo punto di vista kantiano, è possibile leggere in una luce nuova la storia del Movimento per la pace e dei Movimenti per i diritti umani, per mettere finalmente in luce come la battaglia per abolire la guerra e quella per affermare i diritti umani sono due facce della stessa medaglia.
 
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I campi in cui si sviluppò inizialmente nel secolo scorso un’azione internazionale a favore della protezione dei diritti degli individui riguardavano due situazioni in cui gli uomini infrangevano con più evidenza ogni rispetto per i diritti umani: la schiavitù[7] e la guerra. La battaglia per l’abolizione della schiavitù, anche sulla spinta dell’evoluzione del modo di produrre che ha progressivamente marginalizzato le economie schiaviste, ha sostanzialmente raggiunto i suoi scopi. La battaglia per umanizzare la guerra si è invece rivelata impossibile da vincere. Fu a seguito della guerra di Crimea che la Convenzione di Ginevra del 1864 stabilì i primi obblighi nei confronti dei combattenti feriti in guerra. Il preambolo di questa Convenzione esprimeva così la preoccupazione della comunità internazionale sulla sorte dei combattenti: «Gli abitanti ed i belligeranti rimangono sotto la protezione e il governo dei principi della legge delle nazioni, derivata dall’uso stabilito tra i popoli civili, dalle leggi dell’umanità, e dagli imperativi della coscienza pubblica». Evidentemente la Convenzione di Ginevra confondeva il fatto che lo Stato era riuscito ad imporre al suo interno la legge per abolire la violenza fra gli individui, con la semplice aspirazione alla giustizia nei rapporti fra gli Stati. E’ incredibile constatare come la voce della maggior parte delle leghe per la pace e delle peace societies dell’Ottocento si sia sostanzialmente accordata con le aspirazioni della Convenzione di Ginevra, come del resto lamentava lo stesso Seeley nell’articolo già citato. L’affermazione della battaglia a favore della tutela di quei diritti umani che vengono negati nel momento stesso in cui si ammette la guerra come mezzo per dirimere i conflitti fra Stati, è significativamente coincisa con il progressivo appiattimento del Movimento pacifista sull’ideologia nazionale.[8]
Due fattori contribuirono al consolidarsi di questo atteggiamento rinunciatario. Da un lato l’assenza di grandi guerre in Europa per circa quarant’anni (dalla guerra franco-prussiana alla prima guerra mondiale) fu erroneamente scambiata con l’impossibilità di nuove grandi guerre in Europa. D’altro lato l’ascesa del nazionalismo fu salutata come una momentanea ed innocua rivendicazione dei diritti dei popoli. Nel secolo scorso il Movimento per la pace, sulla base di un’errata analisi dei fatti, rinunciò dunque a battersi davvero per il valore che propugnava, una rinuncia che lo portò all’inazione allo scoppio della prima guerra mondiale e ad un’esistenza ambigua dopo la seconda.
Le ragioni e la natura di questa rinuncia andrebbero analizzate più a fondo di quanto non sia possibile fare in questa nota. Basti qui solo accennare a come i problemi della pace e dell’imposizione di una legge al di sopra degli Stati si siano intrecciati nel corso del pluridecennale dibattito all’interno del Movimento per la pace.
Nel I Congresso internazionale delle leghe per la pace e delle peace societies a Londra (1843) si fronteggiarono per la prima volta due posizioni: quella dei delegati americani che proponevano il modello federale e quella dei delegati europei che proponevano l’istituzione di una Corte per le nazioni. Anche al Congresso di Francoforte (1850) si formarono due correnti, quella anglo-americana, federalista, e quella europea continentale democratica, che vedeva la pace come ultimo stadio delle guerre di liberazione nazionale. In occasione del Congresso del 1867, che vide la partecipazione di circa 6000 delegati (le grandi Assise della democrazia europea), il Movimento pacifista approvò il seguente programma: «1) La creazione degli Stati Uniti d’Europa; 2) la realizzazione di tutti i diritti ed i principi rivoluzionari — l’autodeterminazione, la libertà di coscienza, l’abolizione degli eserciti permanenti, l’abolizione dei pregiudizi razziali, la libertà di parola e di associazione, il diritto al lavoro, l’educazione pubblica di massa, e l’armonia degli interessi economici nella libertà; 3) la creazione di un’organizzazione internazionale capace di battersi per l’attuazione del presente programma al di là delle frontiere».[9] Ben presto però si tornò alla contrapposizione fra la posizione americana e quella europea. La delegazione americana nella Conferenza interparlamentare (oggi Unione interparlamentare), che condivise inizialmente per alcuni anni il proprio segretariato internazionale con quello del Movimento pacifista, propose la creazione di un Parlamento europeo, ma senza successo. Così, dopo la guerra franco-prussiana l’attenzione delle diplomazie e delle sezioni nazionali del Movimento pacifista si rivolse decisamente verso la creazione di un Tribunale internazionale. Ma non appena il Tribunale internazionale permanente dell’Aja venne istituito (1899), grazie anche agli sforzi della Conferenza interparlamentare e della Lega per la pace, apparve subito chiaramente la sua fragilità. Allo scoppio della guerra boera il governo britannico rifiutò l’arbitrato e il governo di Salisbury si dichiarò non vincolato dalla Convenzione dell’Aja in quanto i Boeri non erano tra i firmatari della Convenzione. Stati Uniti e Gran Bretagna non ratificarono mai il Trattato di arbitrato bilaterale. Più tardi, nel 1911, durante la guerra fra Italia e Turchia per il controllo della Libia, i vertici italiani del Movimento pacifista, anziché appellarsi al Tribunale, si schierarono con il governo italiano a sostegno dell’invasione.[10]
Il risultato fu che alla vigilia della prima guerra mondiale il Movimento pacifista non era più nemmeno in grado di emettere un comunicato congiunto dal suo quartier generale di Berna perché il Consiglio si era diviso fra sostenitori della causa francese e di quella tedesca. Un Movimento di circa duecento sezioni, diverse migliaia di attivisti, una ventina di giornali in oltre dieci lingue si dissolse proprio nel momento in cui avrebbe dovuto far sentire la propria voce.
 
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Se il breve e parziale richiamo di questa esperienza ha un senso in relazione alle scelte che debbono oggi compiere i federalisti, questo sta probabilmente nella conferma che l’ammonimento di Hamilton a «non andare contro l’esperienza accumulata dal tempo», che campeggia sulla copertina di questa rivista, deve valere anche peri movimenti politici. Nel secolo scorso, come pure nella prima parte di questo secolo, la situazione storico-sociale non era ancora matura per consentire lo sviluppo di una battaglia per la federazione simile a quella che si sarebbe sviluppata nel secondo dopoguerra. Le forze politiche e le opinioni pubbliche si mobilitavano sulla questione nazionale e su quella sociale e non sui temi della democrazia e della giustizia internazionale. Ma, almeno sul piano dell’elaborazione teorica, la corrente federalista del Movimento per la pace perse l’occasione di denunciare apertamente il pacifismo utopistico, di indicare le cause profonde della guerra ed i nessi fra pace e giustizia.
Oggi, come un secolo fa, il Movimento per la pace, insieme ormai a quello ecologista ed a quello per i diritti umani, si trova a dover scegliere se imboccare la via del federalismo oppure cedere alle tentazioni di cavalcare gli effimeri successi delle chimere internazionaliste. Tuttavia, a differenza di un secolo fa, il terreno è più fertile per orientare verso il federalismo un numero crescente di energie disilluse dalla prospettiva di continuare sulla strada della semplice cooperazione internazionale. Nessuno può ormai realisticamente credere che i diritti umani dell’individuo possano essere tutelati con giustizia senza superare la linea di divisione fra un’associazione di Stati sovrani ed un governo federale. Per il Movimento federalista si apre dunque una occasione storica per svolgere un ruolo d’avanguardia in questa fase del processo di unificazione del genere umano.
 
Franco Spoltore


[1] Intervento del rappresentante permanente spagnolo presso le Nazioni Unite (30 ottobre 1995).
[2] Si veda in proposito anche l’intervento di Fergus Watt, «Governo globale e cittadinanza globale», in Il Federalista, XXXVII (1995), pp. 204-11.
[3] Nel corso della vicenda il governo belga ha accusato la Francia, la Spagna ed il Regno Unito di aver reso impossibile un accordo europeo sul significato da attribuire al termine di criminale politico per atti di terrorismo. Da parte sua il governo spagnolo ha auspicato che venisse raggiunto un accordo in un quadro bilaterale o multilaterale.
[4] Una descrizione sufficientemente dettagliata di queste aspettative si trova per esempio nell’articolo «Challenges ahead for the United Nations Preparatory Committee Drafting a Statute for a Permanent International Court», di Christopher Keith Hall, in Amnesty International UK Lawyers’ Network Newsletter, n. 21, Supplement 1996.
[5] John Robert Seeley, «Gli Stati Uniti d’Europa» (1871), in Il Federalista, XXXI (1989), pp. 164-95.
[6] Immanuel Kant, «Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico», in La pace, la ragione e la storia, Bologna, Il Mulino, 1985.
[7] Durante il diciottesimo secolo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, soprattutto per iniziativa di movimenti quaccheri, si sviluppò una campagna per sensibilizzare i governi sul problema della schiavitù. Nel 1787 fu fondata una Società contro la schiavitù in Gran Bretagna e l’anno seguente in Francia nacque la Società degli Amici dei Neri. La Società britannica riuscì a portare le proprie istanze in Parlamento: nel 1807 il commercio di schiavi fu proibito in tutti i territori britannici. Solo nel 1841, con il Trattato di Londra, gli altri governi europei riconobbero il diritto di ogni Stato firmatario di bloccare qualsiasi nave coinvolta nel traffico di schiavi. Nel 1890, quando la maggior parte dei paesi, ivi compresi gli USA, avevano abolito la schiavitù, il Trattato di Bruxelles stabilì l’obbligo di abolire il commercio di schiavi tra i paesi firmatari, creando un sistema di supervisione internazionale per far sì che questo obbligo venisse rispettato.
[8] Si veda in proposito Sandi E. Cooper, Patriotic Pacifism, Waging War on War, 1815-1914, New York, Oxford University Press, 1991.
[9] Le Assise si svolsero sotto la presidenza di Giuseppe Garibaldi, e Victor Hugo sostenne con vigore la necessità degli Stati Uniti d’Europa. Nel successivo congresso Hugo abbandonò questa parola d’ordine a favore della rivoluzione sociale.
[10] Il leader del movimento italiano era a quell’epoca Teodoro Moneta, una figura emblematica delle contraddizioni in cui si dibatteva il Movimento per la pace. Egli fu un sostenitore dell’indipendenza nazionale nell’insurrezione di Milano contro gli Austriaci nel 1848. Si schierò poi contro i Francesi nel 1867. Leader dell’Unione lombarda per la pace, la sezione italiana più importante, insieme a quella di Torino, del Movimento pacifista italiano, fu insignito del premio Nobel nel 1907. Quando l’Italia incominciò ad esprimere una sua politica di potenza, nello sconcerto dei pacifisti europei Moneta non esitò a scendere in campo attivamente a favore dell’invasione italiana della Libia contro la Turchia e del diritto dell’Italia a conquistarsi un impero in Nord Africa.

 

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