IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXXVIII, 1996, Numero 2, Pagina 86

 

 

Fine della politica?
 
 
Molti pensano oggi che lo Stato, inteso come organizzazione di un popolo su di un territorio in vista del perseguimento del bene comune, sia entrato irreversibilmente in crisi. Il processo di mondializzazione starebbe deterritorializzando i rapporti tra gli uomini, sottraendo allo Stato un crescente numero di funzioni, e trasferendole a raggruppamenti regionali debolmente strutturati dal punto di vista istituzionale e ad organizzazioni internazionali di natura funzionale. Contemporaneamente, allo Stato si starebbe sostituendo un insieme di reti di dimensioni mondiali attraverso le quali verrebbero promossi, mediante la circolazione di informazioni, la realizzazione di transazioni e lo scambio di servizi, interessi di natura esclusivamente settoriale, e che non avrebbero più nella politica, e in particolare nelle istituzioni democratiche, un momento di mediazione. Con lo Stato si oblitererebbe l’idea stessa di legittimità, sostituita da una congerie di regole di diversa origine e dal contenuto contraddittorio, che segnerebbero per l’umanità, a incominciare dalla sua parte più avanzata, l’inizio di una sorta di secondo Medioevo. Le istituzioni, come responsabili del perseguimento dell’interesse generale, e le frontiere, come delimitazioni territoriali dell’esercizio della sovranità, verrebbero sostituite da una situazione indefinita di diffusione del potere, nella quale scomparirebbe tendenzialmente ogni univoco punto di riferimento del consenso e ogni confine tra ambiti territoriali nei quali i rapporti tra i cittadini si possano organizzare secondo regole precise.
A questa tendenza se ne accompagnerebbe una apparentemente opposta, che compenserebbe l’indifferenza della prima ai valori collettivi e lo sradicamento sociale e culturale che essa provocherebbe: quella all’accentuazione esasperata di vere o presunte identità «comunitarie», di natura etnica, religiosa o culturale, il cui scopo sarebbe quello di restituire agli individui il senso di appartenenza ad un gruppo unito da legami profondi, capaci di dare a ciascuno dei suoi componenti la consapevolezza di fondersi con gli altri in un «noi» che liberi ciascuno dall’angoscia della solitudine e dalla vertigine della responsabilità. Sarebbe questo il denominatore comune che apparenterebbe tra di loro i fondamentalismi religiosi che si manifestano in alcuni paesi del Terzo mondo, le chiusure comunitarie che stanno minando l’unità della società americana, il micronazionalismo dei movimenti separatisti dell’Europa orientale e occidentale, le sette che prosperano per ogni dove. Ma questi movimenti di reazione alla mondializzazione di fatto presenterebbero le stesse caratteristiche della tendenza alla quale credono di opporsi: e infatti essi sono sganciati da un preciso riferimento ad un territorio (e ciò vale anche per i movimenti micronazionalisti che, per la natura evanescente e contraddittoria delle pretese «etnie» alle quali si riferiscono, funzionano esclusivamente come fattori di disgregazione delle compagini statali esistenti e non come agenti della formazione di compagini statali nuove); non si pongono nemmeno il problema di elaborare una propria idea di bene comune, ma si limitano a fomentare l’esercizio della violenza sollecitando istinti di natura tribale; e sono quindi a loro volta indicatori di una profonda crisi della politica e delle istituzioni democratiche.
Da un lato dunque la società globale dell’informazione, superando di fatto lo Stato come quadro naturale del dibattito politico in vista della promozione dell’interesse generale, soffocherebbe qualsiasi dialogo che non fosse limitato allo scambio di dati in vista della promozione di interessi particolari; mentre, dall’altro, lo sviluppo del fenomeno «comunitario», nei suoi diversi aspetti, negherebbe la legittimità stessa dell’idea di interesse generale, subordinandola alla affermazione violenta di «identità» indefinite nella loro natura e incapaci di dialogo a loro volta.
Ne nascerebbe una ambigua situazione «né di pace né di guerra» (perché soltanto lo Stato sovrano e fondato su un territorio può garantire la pace e fare la guerra), ma nella quale la scomparsa delle idee stesse di sovranità e di bene comune sarebbe la premessa dello sviluppo di una violenza diffusa e generalizzata, altrettanto — o più — distruttiva della guerra tra Stati, che coesisterebbe con la realtà asettica e impersonale delle reti informatiche mondiali. Ci si avvierebbe così verso la fine della politica.
 
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In realtà, sotto l’apparente obiettività della previsione, queste teorie nascondono un vero e proprio rifiuto della politica e dello Stato, la rassegnazione alla progressiva trasformazione dell’uomo in strumento dei propri strumenti, la dimissione di ogni parvenza di volontà di sottoporre la storia al controllo della ragione, l’opzione consapevole per il caos contro ogni forma di ordine pacifico e democratico.
E’ significativo che queste tendenze insidiose si facciano strada, anche se in formulazioni prudenti e attenuate, anche in ambienti europeistici, o comunque vicini all’europeismo. Molti tendono ad adagiarsi sull’idea che la costruzione dell’Europa non sia un problema politico, ma tecnico, che non renderà necessaria la mobilitazione democratica dei cittadini e non sarà all’origine di opposizioni laceranti tra diverse concezioni del bene comune. E la cartina di tornasole di questo atteggiamento è la forte resistenza a riconoscere che la costruzione dell’Europa comporterà la fondazione di un nuovo Stato. E’ questa resistenza che spiega la definizione, data da un eminente europeo come Jacques Delors, dell’Unione europea di cui egli auspica la nascita come «un oggetto politico non identificato». Ed è questa stessa resistenza che è alla base della teoria, accettata da molti, secondo la quale, nel caso dell’Europa, la tradizionale contrapposizione tra confederazione e federazione ormai non avrebbe più ragion d’essere, talché l’Unione europea, nella sua forma definitiva, rappresenterà una formazione politica del tutto nuova, che non sarà né l’una né l’altra cosa. In questo modo il problema della sovranità viene fatto scomparire come con un gioco di prestigio, perché essa non viene attribuita né agli Stati nazionali (come accadrebbe se l’Unione fosse destinata ad essere una confederazione) né all’Europa (come accadrebbe se essa fosse destinata ad essere una federazione). E con la sovranità vengono fatti scomparire il punto di riferimento ultimo del consenso, il legame costituito dalla consapevolezza di appartenere ad un’unica comunità di destino, e quindi l’idea stessa di cittadinanza. Il logico punto di approdo di questo orientamento è l’eclissi della politica come perseguimento del bene comune e la fine della democrazia.
 
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Su questo punto federalisti devono essere rigorosi. L’Europa per la quale ci battiamo è uno Stato federale. La sua creazione comporterà quindi un trasferimento di sovranità e un cambiamento radicale negli equilibri di potere interni ed esterni degli Stati che vi saranno coinvolti. La loro realizzazione passerà attraverso radicali contrapposizioni e comporterà una lotta dura e difficile, alle cui conseguenze sarebbe inutile e irresponsabile tentare di sottrarsi con artifici puramente verbali.
Questa definizione del nostro obiettivo presuppone la convinzione che la fase attuale del processo di mondializzazione, che ha reso pensabili scenari come quello che si è ricordato, segna certo un momento di crisi della politica. Ma che questa crisi non è la crisi dello Stato tout court, ma quella di una forma storica di Stato: lo Stato nazionale. La crisi della politica non è quindi definitiva e non è sottratta all’intervento riparatore della volontà umana consapevole. Del resto gli Stati Uniti d’America hanno dimostrato che l’organizzazione federale della democrazia su spazi continentali era possibile sin dalla fine del XVIII secolo. Non si vede perché la stessa cosa non dovrebbe essere possibile oggi, dapprima in Europa, e poi in altre regioni del mondo, fino a giungere alla creazione della Federazione mondiale. Così come non si vede perché l’umanità, anziché abbandonarsi alla bestialità del tribalismo, non debba essere in grado, seppure attraverso un percorso lungo e difficile, di organizzare pacificamente la propria convivenza in una scala di comunità territoriali di diversa ampiezza, nelle quali ciascuno possa ricuperare un profondo senso di appartenenza fondato sull’impegno civile di tutti per la soluzione dei problemi comuni secondo le regole della democrazia.
Certo lo Stato, oltre al viso della pace, ha anche quello della guerra. Laddove c’è Stato, c’è ragion di Stato, con i conflitti che essa comporta. E il cammino verso la Federazione mondiale è ancora lungo. Non dobbiamo quindi dimenticare che la creazione della Federazione europea sarà l’inizio, e non la fine, di un processo, e che essa dovrà confrontarsi con altre grandi formazioni continentali, che assumeranno verosimilmente anch’esse col tempo una autentica natura federale, e ognuna delle quali avrà i propri interessi da difendere in un contesto nel quale sarà assente qualunque meccanismo di soluzione giuridica delle controversie. Vero è che il federalismo si potrà realizzare soltanto a livello mondiale, e che la sua irruzione nella storia tenderà a rendere precaria qualsiasi formazione statale intermedia, mantenendo viva la fiamma del mondialismo e temperando gli eccessi della ragion di Stato. Così come è prevedibile che l’equilibrio che la Federazione europea aiuterà ad instaurare, anche grazie al continuo aumento dell’interdipendenza e al generalizzarsi della consapevolezza del carattere collettivo della sicurezza, sarà più pacifico e stabile dell’attuale, e che la divisione del mondo in pochi grandi blocchi di natura federale renderà meno precario quell’embrione di governo del mondo che è costituito dalle Nazioni Unite. Ma è anche vero che la coscienza si fa strada lentamente nella storia, che i legami di interdipendenza che hanno sempre unito gli Stati tra di loro — anche se in diversi ambiti e con diversa intensità nelle diverse situazioni storiche — non hanno mai impedito la guerra, e che quindi qualsiasi prospettiva di miglioramento dell’equilibrio mondiale dopo la creazione della Federazione europea non ci autorizza ad allontanarci dall’insegnamento kantiano secondo il quale la pace è lo Stato, e l’instaurazione della pace perpetua presuppone la creazione di uno Stato federale mondiale.
 
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