IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno II, 1960, Numero 6, Pagina 337

 

 

LA CRISI DEL LABURISMO
 
 
Quando nel 1945, dopo la fine della seconda guerra mondiale, i laburisti conquistarono il potere, essi attuarono e svilupparono una larga ed efficace politica sociale. Edificarono il cosiddetto welfare state, basato sulla sicurezza sociale (furono approvate quattro leggi concernenti gli assegni familiari, le assicurazioni, gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali), sul Servizio Nazionale di Sanità (che provvede senza pagamento tutte le cure a tutti) e sui servizi sociali soprattutto per i bambini. Adottarono una politica economica di pieno impiego e riformarono il sistema fiscale perseguendo fini di redistribuzione. Nazionalizzarono le industrie del carbone, del gas ed elettriche, i trasporti, le industrie del ferro e dell’acciaio. Nelle elezioni generali del 1951 i laburisti furono battuti di stretta misura. Ma i conservatori, tornati al potere, si limitarono a smantellare la nazionalizzazione dell’industria dell’acciaio e, per il resto, mantennero nelle grandi linee le riforme laburiste. I laburisti avevano compiuto le riforme, i conservatori le conservarono. Quelle riforme diventarono così un patrimonio comune e consolidato della società inglese. Dopo il 1951 la storia del partito laburista è una storia di continue e sempre più decise sconfitte: le elezioni del 1954 hanno dato ragione ai conservatori maggiormente di quanto avessero fatto quelle del 1951; in quelle del 1959, nonostante che i conservatori avessero sulle spalle il fallimento di Suez e nonostante che l’economia del paese procedesse ad un ritmo molto lento, i laburisti perdettero ancora terreno; nelle successive elezioni per il rinnovo delle amministrazioni locali, i laburisti hanno continuato e continuano ad essere battuti clamorosamente; proprio in questi giorni, infine, in sei elezioni supplettive alla Camera dei Comuni i laburisti sono stati relegati al terzo posto in ben quattro collegi su sei essendo stati superati anche dai liberali.
La ragione di queste sconfitte a ripetizione è molto chiara. Negli anni 1945-1951 i laburisti esaurirono, portandola a compimento, quella parte del loro programma che poteva essere realizzata in Gran Bretagna; e, quando i conservatori mantennero le loro riforme, essi non seppero trovare una nuova alternativa alla politica del governo. Essendo state ormai generalmente accettate le più positive delle riforme laburiste, la politica sociale è diventata in Gran Bretagna una questione di ordinaria amministrazione e spesso i fini sociali avanzati dai laburisti vengono realizzati dal governo conservatore,[1] che previene in tal modo gli avversari. La crisi del partito laburista è una crisi di esaurimento: raggiunti i suoi fini principali, esso è rimasto senza una piattaforma. E’ una crisi che deriva dal fatto che non esiste oggi in Gran Bretagna in politica interna la possibilità di una chiara e decisa linea di demarcazione tra politica di progresso e politica di conservazione. Perciò i tentativi compiuti dai laburisti in questo campo per trovare una nuova posizione di alternativa, le tendenze del «più» e del «meno socialismo», sono vicoli ciechi. Il «più socialismo» della sinistra conduce ad un programma politico incapace di fornire obiettivi concreti ad una società che ha già risolto i problemi sociali a carattere strutturale, e perciò ad una posizione ideologica priva di attrazione per l’opinione pubblica e l’elettorato inglesi. Il «meno socialismo» di Gaitskell, benché certamente più conforme alla situazione, non risolve la questione di dare una nuova fisionomia al partito laburista, poiché conduce ad una posizione sostanzialmente non differenziata rispetto a quella dei conservatori, con l’aggravante che deriva dal non essere al governo e dal non poter quindi vantare l’ordinaria amministrazione della politica sociale.
In Gran Bretagna la grande linea di demarcazione tra politica di progresso e politica di conservazione non si trova nel campo degli affari interni: si trova in politica estera. Qui è la vera scelta, benché i laburisti non abbiano finora mostrato di essersene accorti. Da una parte vi è la politica conservatrice condotta dal governo. Sul piano europeo, sotto l’impulso della paura di una rinascita militare tedesca, essa tende a mantenere un equilibrio tra gli Stati nazionali il meno pericoloso possibile per la situazione mondiale di potere. Ma il problema della difesa nazionale spingerà i più potenti tra gli Stati nazionali europei, anzi li sta fortemente spingendo, ad uno sforzo estenuante di potenza militare ed al completo ritorno al nazionalismo: l’Europa diventerà in tal modo una area caotica e pericolosissima per l’equilibrio mondiale. Sul piano mondiale, la politica estera conservatrice tende ad un’alleanza stretta con l’amico forte americano, ma ha nello stesso tempo l’ambizione di fare da mediatrice tra le due massime potenze mondiali sulla via della distensione. Non è chi non veda come vi sia contraddizione tra questi due fini: la Gran Bretagna non ha la possibilità di fare un’efficace politica di mediazione, poiché la diplomazia conta ben poco quando non è applicata ad una forza politica effettiva ed autonoma. Ma, quel che è peggio, la Gran Bretagna, mentre diminuisce sempre più la sua funzione nei riguardi dei paesi del Commonwealth, non può nemmeno dare un solido aiuto agli Stati Uniti nella lotta tra esperienza democratica ed esperienza comunista. La politica estera conservatrice della Gran Bretagna, perciò, conserva un equilibrio europeo destinato a deteriorarsi ed a diventare sempre più pericoloso, coltiva l’ambizione sbagliata di far bella mostra della sua diplomazia e contribuisce a deporre sulle spalle degli americani tutto il peso di tremende responsabilità che essi difficilmente potranno sostenere da soli. Dall’altra parte vi è una possibile politica estera di progresso. E’ la politica estera che si proponga come fine l’integrazione della Gran Bretagna e della cosiddetta Europa dei sei mediante l’edificazione della Federazione degli Stati europei. Essa, se avesse effetto, porrebbe fine per sempre al dramma dei nazionalismi europei e farebbe dell’Europa un’area ordinata e pacifica. Essa creerebbe, inoltre, una forza politica in grado di sollevare in modo sostanziale gli americani dalle loro opprimenti responsabilità e di dare ben maggior chances all’esperienza democratica di fronte a quella comunista offrendo un grande modello democratico ai paesi dell’Asia e dell’Africa. Questa possibile politica estera progressiva della Gran Bretagna, quindi, porterebbe l’ordine in Europa, renderebbe meno drammatico l’equilibrio mondiale e contribuirebbe potentemente alla persistenza ed all’espansione dell’esperienza democratica nel mondo.
Il fatto che nel loro recente congresso, tenuto nei primi giorni dello scorso ottobre a Scarborough, i laburisti abbiano dibattuto, e si siano dati una battaglia molto aspra soprattutto sul tema della politica difensiva nucleare, può indurre qualcuno a pensare che essi abbiano per lo meno compreso che la grande scelta che la Gran Bretagna ha di fronte è in politica estera anziché negli affari interni. Niente di tutto ciò. I laburisti si sono occupati della politica difensiva nucleare non tanto perché spinti a trovare un’alternativa ai conservatori, quanto perché non potevano farne a meno. La Gran Bretagna infatti, con la rinunzia alla produzione dei missili balistici e quinti al deterrent difensivo indipendente, ha perso la propria indipendenza militare.[2] Il problema difensivo è quindi diventato di una gravità tale (si tratta dell’indipendenza stessa della Gran Bretagna) che i laburisti hanno dovuto affrontarlo. Inoltre la lotta sulla politica difensiva nucleare è stata a Scarborough tanto più aspra e clamorosa in quanto ciò che era soprattutto in gioco era la leadership del partito. Il dibattito sul problema difensivo è stato in gran parte una occasione provocata dalla sinistra, dai cosiddetti «unilateralisti», per fare una prova di forza contro Gaitskell. Infatti il modo in cui la sconfitta di Gaitskell sulla politica difensiva è stata commentata da organi della sinistra intellettuale come «New Statesman» e «Tribune» mostra chiaramente che lo scopo principale della sinistra era quello di dimostrare l’incapacità di Gaitskell a incarnare l’unità del partito e di forzarlo a lasciare la presidenza del gruppo parlamentare e del governo ombra.[3]
Vediamo, comunque, quali sono state le due posizioni sulla politica difensiva che si sono scontrate al congresso laburista di Scarborough. Da una parte, i vincitori, gli «unilateralisti». Essi hanno presentato due risoluzioni, una della Transport and General Workers’ Union, capeggiata dal maggiore avversario di Gaitskell, Frank Cousins; l’altra dell’Amalgamated Engineering Union, capeggiata da Bill Caron. La prima delle due risoluzioni chiede «il rifiuto totale di una politica difensiva basata sulla minaccia dello impiego di armi nucleari o termonucleari; la proibizione d’ora innanzi alle squadriglie aeree di trasportare armi nucleari e di operare decollando da basi britanniche…». La seconda chiede «la rinuncia unilaterale agli esperimenti, alla fabbricazione, alle scorte e ai depositi di tutte le armi nucleari in Gran Bretagna». Tali richieste implicherebbero l’uscita della Gran Bretagna dalla NATO e dal sistema difensivo occidentale e rivelano l’illusione, comune a tante forze di sinistra in Europa, della neutralità disarmata. Non ci vuol molto a mostrare che gli effetti di una politica difensiva inglese di questo tipo sarebbero disastrosi. Potrebbe derivarne infatti la fine dell’impegno difensivo americano in Europa, sicuramente ne deriverebbe l’isolamento dell’indifesa Gran Bretagna ed un grosso vantaggio all’esperienza comunista nei confronti di quella democratica. Del resto un simile programma difensivo non troverebbe certamente il favore dell’elettorato inglese, ma condurrebbe ad una nuova e maggiore sconfitta del partito laburista. Dall’altra parte vi è stata a Scarborough la posizione sulla politica difensiva del centro-destra laburista, capeggiato da Hugh Gaitskell. Anche il centro-destra ha presentato due risoluzioni, una che risulta dalla dichiarazione congiunta del comitato nazionale del partito e del congresso delle Trade Unions, l’altra dell’Amalgamated Society of Wood Workers. La dichiarazione congiunta dice: «Noi riteniamo che nel futuro il nostro contributo nazionale alla difesa occidentale sarà in termini convenzionali, lasciando agli americani il compito di fornire il deterrent strategico occidentale. Per quanto riguarda le armi nucleari più piccole la cui produzione si sta intensificando per l’appoggio alle forze terrestri, noi riteniamo che anch’esse dovrebbero continuare ad essere fabbricate esclusivamente dagli americani, ma usate soltanto sotto stretto controllo della NATO». La seconda risoluzione si limita ad appoggiare e ad approvare la dichiarazione congiunta sulla difesa. E’ evidente che questo punto di vista del centro-destra laburista (bisogna ricordare, tra l’altro, che la dichiarazione congiunta fu il frutto di un compromesso)[4] non rappresenta una vera soluzione del problema. Una volta abbandonato forzatamente il deterrent indipendente e decisa la continuazione dell’alleanza con gli Stati Uniti e con tutto l’occidente in base allo status quo, non si vede perché la Gran Bretagna non dovrebbe sostenere la sua parte accanto agli Stati Uniti nella fabbricazione delle armi nucleari (per lo meno delle minori). Questa è stata appunto la decisione più conseguente presa dai conservatori al loro congresso. Se avesse voluto creare una vera alternativa al governo conservatore, Gaitskell avrebbe dovuto scegliere l’integrazione militare e politica europea. Al contrario, nella dichiarazione comune è stata esplicitamente respinta la proposta «che, siccome noi non possiamo mantenere un deterrent britannico indipendente, dovremmo unirci ai nostri vicini per produrre un deterrent europeo». E ciò per evitare la diffusione delle armi nucleari e soprattutto che sia permessa la loro fabbricazione alla Germania. L’errore evidente è nel considerare la creazione di un deterrent europeo indipendentemente dall’unificazione politica dell’Europa.
Che accadrà allora del partito laburista? E, più in generale, come si troverà un’alternativa al partito conservatore? Per quanto riguarda la lotta per la leadership del partito laburista, Gaitskell ha segnato un punto importante a suo vantaggio essendo stato rieletto il 3 novembre dai parlamentari laburisti capo del gruppo parlamentare, e quindi leader del partito, a grande maggioranza (egli ha ottenuto 166 voti contro 81 del suo avversario e 7 astensioni). Ciò mostra che il congresso di Scarborough non è stato decisivo per la lotta per la leadership, la quale rimane ancora aperta. Ma intanto il problema di fondo del partito, quello di trovare un’alternativa valida alla politica dei conservatori, resta completamente irrisolto. Come si è detto, i laburisti non possono trovare una tale alternativa in politica interna, ed in politica estera le loro posizioni sono state finora sbagliate o confuse. Vi sono, è vero, in Gran Bretagna alcuni sintomi di maggiore comprensione del problema dell’unificazione europea. Il laburista C. Crosland per esempio, nei suoi scritti tendenti ad una revisione del programma del partito, ha delineato una politica estera che si proponga l’unione con l’Europa, anche a prezzo di perdere il Commonwealth (prezzo che molto difficilmente la Gran Bretagna si troverebbe a dover pagare), come primo passo verso un governo mondiale. Alcuni importanti organi di stampa come il settimanale «The Economist» ed il quotidiano «Financial Times» si sono schierati a favore dell’unione con l’Europa (per lo meno in relazione alla CEE) fin dallo scorso anno; ad essi si sono poi aggiunti il liberale «News Chronicle» ed il conservatore «Daily Mail».[5] Vigoroso assertore dell’unificazione si è fatto da qualche tempo anche il piccolo ma vitale partito liberale, benché la sua posizione in politica difensiva non sia andata fino ad ora al di là della sicurezza collettiva nella NATO. Già nel luglio scorso il leader dei liberali, Jo Grimond, si era battuto pubblicamente per una politica estera di unione europea e tale politica era stata anche esposta chiaramente nell’opuscolo del partito New Directions. Nel congresso tenuto poi ad Eastbourne dal 29 settembre al primo ottobre il partito liberale, secondo quanto riferiva «The Economist», «ha fatto una dichiarazione non ambigua a favore dell’entrata nel mercato comune ed ha approvato anche un emendamento chiarificatore che sollecita la Gran Bretagna a farsi guida dell’edificazione di istituzioni politiche europee comuni». Si tratta di un partito, commentava l’articolista dell’«Economist», «ansioso di buttare a mare una stentata sovranità nazionale in favore dell’integrazione europea». Certamente i liberali non sono oggi da sottovalutare. Essi possono sperare da un lato in una scissione del partito laburista che aprirebbe loro la via all’unificazione con il centro-destra laburista; o dall’altro (sebbene questa possibilità sia più difficile a verificarsi), in mancanza di tale scissione, possono sperare nello sgretolamento del partito laburista, ciò che potrebbe farli ridiventare il più forte partito di opposizione.
Ma tutte queste tendenze in favore dell’unificazione europea non sono per ora che mere possibilità, che possono prendere o non prendere corpo, mutarsi o non mutarsi in azione e forza politica effettiva. Esse, per ora, non sono che indicazioni: dipende dall’iniziativa umana renderle efficace posizione politica ed alternativa di potere. Se il centro-destra laburista di Gaitskell tenterà di mantenere l’unità del partito per mezzo di un compromesso con la sinistra, il partito laburista si precluderà la via a trovare una linea di opposizione efficace ai conservatori e si condannerà ad un inconcludente declino. Se il centro-destra laburista, invece, non esiterà di fronte ad una scissione con la sinistra, la situazione potrebbe manifestarsi molto migliore, anche per una possibile unificazione con i liberali. Ma i laburisti del centro-destra, come tutti i leaders politici inglesi che cercano un’alternativa ai conservatori, devono soprattutto prendere coscienza del fatto che la linea di demarcazione tra politica di progresso e politica di conservazione è indicata dall’atteggiamento favorevole o contrario all’unità europea, e devono condurre conseguentemente con coerenza la loro lotta politica. Se ciò non si realizzerà, e se non interverrà qualche importante fatto interno ora imprevedibile, il futuro potrebbe riserbarci l’immagine di una Gran Bretagna in cui, accanto ad un lento e progressivo esaurimento del partito laburista, venga a mancare la stessa alternativa democratica e lo stesso sistema bipartitico.
 
Mario Stoppino


[1] L’ultimo caso riguarda l’aumento delle pensioni. Tale aumento era stato richiesto dai laburisti al loro recente congresso di Scarborough. Al congresso conservatore di poco successivo e tenuto nella stessa località, il ministro delle Pensioni Boyd-Carpenter ha annunciato l’aumento delle pensioni ai vecchi ed alle vedove di guerra e nuovi altri benefici sociali.
[2] Questo avvenimento di grande importanza è stato fatto oggetto della dovuta considerazione in questa rivista: vedi il n. 3 di quest’anno (maggio), pp. 164-168.
[3] L’incapacità dei laburisti di appropriarsi dell’alternativa esistente in Gran Bretagna in politica estera è ben dimostrata dall’andamento del dibattito sulla politica europea svoltosi alla Camera dei Comuni il 25 ed il 26 luglio scorso. Il dibattito si concluse con l’approvazione di una mozione del tutto inconcludente e platonica (come dimostra la stessa grandissima maggioranza che essa ottenne: 215 voti favorevoli e 4 contrari) che riconosce la necessità di una unione politica ed economica in Europa, ma ribadì e mise chiaramente in luce l’atteggiamento britannico nettamente contrario ad una unione con l’Europa dei sei. In tale dibattito gli oratori laburisti, allo stesso modo di quelli conservatori, insistettero molto più sui pericoli che sorgerebbero dall’unione con l’Europa che non sui vantaggi. Il collaboratore per gli affari inglesi di «Relazioni Internazionali» fece allora giustamente il seguente commento: «L’atteggiamento dei laburisti risulta incomprensibile: avevano in mano un’ottima carta da giocare contro il governo conservatore e se la sono lasciata scappare così banalmente» («Relaz. Internaz.», anno XXIV, n. 33-34, 13-20 agosto 1960, p. 1057).
[4] Inizialmente la posizione di Gaitskell era diversa. Il primo maggio, a Leeds, egli aveva delineato quattro possibili scelte nella politica nucleare: 1) continuazione del deterrent indipendente; 2) collaborazione anglo-americana (testate nucleari inglesi e missili americani); 3) Partecipazione al deterrent della NATO, 4) abbandono unilaterale del deterrent nucleare. E’ sintomatico che non sia nemmeno menzionata tra le alternative la possibilità di un deterrent europeo, nonostante gli impegni risultanti dall’UEO. Tra queste quattro scelte possibili, eliminate la prima per insormontabili difficoltà economiche e la quarta perché inaccettabile come base della politica di un grande partito, Gaitskell optava per la terza, cioè per un deterrent multilaterale nella NATO. Nella successiva dichiarazione congiunta del 22 giugno (che allora era soltanto dichiarazione del comitato esecutivo nazionale del partito) Gaitskell accettava invece un compromesso con la sinistra; ne risultava così il programma di lasciare il peso del deterrent nucleare occidentale unicamente sulle spalle degli Stati Uniti, e di opporsi alle basi per missili Thor in territorio britannico.
[5] A questi organi di stampa si potrebbero aggiungere anche il «Guardian», il «Times» e il «Daily Telegraph», sebbene il loro atteggiamento sia molto più cauto. E’ interessante riportare, a questo riguardo, un’osservazione fatta dal commentatore degli affari britannici di «Relazioni Internazionali» (nell’articolo già citato nella nota 3). Egli faceva rilevare che la maggior parte di questi giornali rappresenta gli ambienti industriali di tendenze liberali e liberistiche; contro l’entrata nella CEE «si sono invece schierati risolutamente gli agricoltori, timorosi di perdere i loro benefici in seguito all’apertura del mercato britannico ai Sei, i quali si sono uniti alla destra conservatrice imperialista, che ha nel «Daily Express», di Lord Beaverbrook il difensore dell’impero, contrario non solo all’unione con i Sei ma anche all’EFTA».

 

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