IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno I, 1959, Numero 3, Pagina 135

 

 

Un diritto “anarchico”: il diritto internazionale
 
ANDREA CHITI BATELLI
 
 
 
Pasquale Galluppi, giunto ad illustrare nelle sue Lettere filosofiche la «Dialettica trascendentale» kantiana, osservava che, una volta stabilita la dottrina dei giudizi, in base alla quale è valido solo il giudizio sintetico a priori, come sintesi del dato empirico e del concetto, Kant avrebbe potuto dedurre l’impossibilità della metafisica come scienza «con un semplice tratto di penna». Ma quell’eccellente uomo, egli aggiungeva, non si contentò di una conclusione così a buon mercato, e dimostrò particolareggiatamente la sua tesi appunto nella «Dialettica trascendentale». Non diversamente, sembra a noi, il carattere non giuridico del diritto internazionale potrebbe essere dedotto con un tratto di penna dalla semplice definizione del diritto, ove questa contempli, come è necessario, i due elementi indispensabili della coazione e dell’autorità supra partes capace di garantirla,[1] ed ove si tenga conto del significato e della portata del principio dell’assoluta sovranità nazionale, superiorem non recognoscens, che esclude di per sé e automaticamente l’esistenza di un ordine normativo al di sopra degli Stati.
Ma anche ammessa la superfluità di una dimostrazione particolareggiata, e per quanto questa era stata più volte fornita — nel campo filosofico da Machiavelli, Spinoza, Hobbes, Hegel, Lasson, Gumplovicz, Binder, Mochi; sul piano politico dallo Hamilton del Federalist, e in genere dai teorici del federalismo internazionale moderno (dallo Streit al Robbins, al Reves); sul terreno più strettamente tecnico-giuridico da Austin, Lundstet, Olivecrona, Somolo, Campagnolo, ecc.[2] — una ridimostrazione particolareggiata appare tutt’altro che superflua, e questo per due ordini di ragioni. In primo luogo perché i cattedratici del diritto internazionale, preoccupati della difesa della loro disciplina (e della cattedra), e completamente presi dalle loro discussioni cinesi, che essi considerano di una sottigliezza infinita e necessitanti un acume e una souplesse non concessi ai comuni mortali, trattano con profonda suffisance chi osi così semplicisticamente contestare la validità, anzi la stessa intrinseca concepibilità di un tale«diritto», e lo guardano come l’elefante nel negozio di porcellane. E in secondo luogo, e soprattutto, perché la dimostrazione della non giuridicità del diritto internazionale non è né completa né persuasiva se essa non sa, insieme, qualificare con una definizione appropriata e conforme al fatto e all’esperienza questa realtà dei rapporti internazionali, che si assume essere di natura non giuridica. Realtà che mostra bensì che in tutti i casi realmente importanti, e concernenti la sicurezza degli Stati, la pace e la guerra, questi si comportano spessissimo come in «stato di natura», al di fuori del diritto; ma che mostra altresì che in molti altri casi, specie di natura non politica (si pensi ad organismi come l’Unione Postale Internazionale, o all’Organizzazione internazionale delle ferrovie, che funzionano come orologi), quegli stessi Stati rispettano, spesso senza eccezioni, gli impegni presi e si comportano come se un diritto a cui essi si sentissero vincolati esistesse. Tale realtà mostra inoltre che hanno forma esteriormente giuridica, rigorosa e pedante, controversie, procedure e decisioni di tribunali internazionali, deduzioni e controdeduzioni di Stati «attori» e «convenuti» presso le varie istanze esistenti, dalla Corte di Giustizia dell’Aja al Consiglio di Sicurezza dell’O.N.U.
Una tale dimostrazione — vera «dialettica trascendentale» del diritto internazionale — è stata fornita, nella forma più esauriente possibile, in un volume di un giovane studioso israeliano, il Levontin,[3] il quale ha il merito quasi unico di accettare le discussioni sul terreno assurdo dei giuristi internazionali; di seguirli con pazienza da certosino per gli ambagi di tutti i loro sofismi; di smontare vittoriosamente pezzo per pezzo il castello di carte delle loro illogiche e contraddittorie costruzioni.
 
CHE COS’E’ IL DIRITTO INTERNAZIONALE
Sgombriamo anzitutto il terreno dal primo problema: che cos’è il diritto internazionale. Dire che esso non è un diritto, non significa affatto precludersi la possibilità di riconoscere un minimo di ordine nei rapporti internazionali. «L’anarchia che prevale nei rapporti interstatuali non significa necessariamente la pura forza. Significa solo l’assenza della norma giuridica. Anche senza questa le doti umane si affermano producendo un certo grado d’ordine, attraverso fattori diversi dalla legge» (p. 296). «Il regime zaristico in Russia fu definito una forma di dispotismo temperato dall’assassinio». Similmente l’anarchia fra gli Stati del mondo è temperata e attenuata da vari fattori che impediscono all’attuale condizione di assenza della legge di degenerare in estremo disordine. Fra questi fattori occorre menzionare: la religione, il senso di umanità, la reciprocità, l’inerzia, i limiti del potere di ciascuno Stato, il rapporto delle forze (balance of power), gli accordi per la sicurezza collettiva, la paura» (p. 14).
Anche Hobbes aveva notato che nello stato di natura, il bellum omnium contra omnes è solo potenziale, e non significa una lotta violenta costantemente in atto: «Quando gli uomini vivono senza una comune potestà che li tenga in rispetto, essi vivono in uno stato detto di guerra… e la natura di tale stato consiste non nell’attuale combattere, ma nella conosciuta disposizione al combattimento, per tutto il tempo che non vi è garanzia del contrario». La difficoltà a comprendere un tale concetto può costituire una prima spiegazione del sorgere, dell’affermarsi e del perdurare dell’illusione del «diritto» internazionale.
Può darsi che alle origini questa illusione avesse un certo senso, quando il complesso delle norme internazionali era sostenuto da una sanzione così efficace come «la fede in Dio e la paura del diavolo»; ma è certo «un’ironia del destino che il diritto internazionale moderno sia stato formulato da Grozio e da altri con la premessa tacita che esso avesse come base sostanziale l’universalismo cristiano medievale, e come espressione formale il diritto romano, quando ormai queste due premesse erano state definitivamente poste in crisi (challenged) dal Rinascimento e dalla Riforma. In questo senso l’opera dei moderni padri del diritto internazionale si può definire postuma» (p. 74 e p. 108 e seg.). E’ certo infatti che quel tipo di sanzione è completamente scomparso. All’immagine classica di Enrico IV che a Canossa attende per tre giorni a piedi nudi nella neve il perdono del pontefice, N.Y. Park ha giustamente contrapposto quella di Mussolini che squadrava le fiche alle sanzioni societarie, «whereupon the League’s representative stood in penitence outside Il Duce’s office in Rome begging and prying for forgiveness».[4]
Anche il diritto internazionale» evolve come tutte le cose umane; ma nel senso diametralmente opposto a quello preteso dai suoi sprovveduti teorizzatori.[5] Può ben darsi che in alcuni di essi l’avversione a riconoscere un tale stato di cose derivi dall’inclinazione morale — più o meno cosciente — a non contribuire a determinarlo e ad avallarlo, ma la politica dell’ipocrisia, del capo sotto la sabbia, non ha mai giovato al progresso etico, che presuppone la sincerità (oportet ut eveniant schandala).
E’ tale ipocrisia che non consente di riconoscere che il sostenere ancora la validità del principio pacta sunt servanda equivale ad andare contro l’esperienza e la testimonianza dei fatti: la quale suggerisce inoppugnabilmente che, al security level, pacta non sunt servata. Per dirla col L. (p. 58) «non esiste fra gli Stati una consuetudine di osservanza dei patti in materia di sicurezza. Quando l’astenersi dal fare la guerra è considerato pericoloso, chi faccia sommessamente osservare che può derivarne una violazione di un trattato è messo senza complimenti a tacere come puerile».
Vi è ancora un’altra osservazione da fare. Ciò che si è detto finora vale per il settore della sicurezza, delle controversie internazionali di natura politica che involgono gl’interessi fondamentali degli Stati. Un gradino al di sotto, nel sub-security level, per i problemi d’importanza secondaria, le norme internazionali — poniamo, sulle immunità diplomatiche, sul passaggio di navi mercantili attraverso le acque territoriali di uno Stato, e così via — sono assai più spesso osservate, anche se le eccezioni non sono poche. Ma questo accade non perché tali norme siano giuridicamente vincolanti; ma semplicemente perché i vantaggi delle violazioni sono troppo piccoli; e troppo grandi i danni che si possono subire per ritorsioni o rappresaglie (pp. 61-2). Allo stesso sub-security level appartengono tutte le norme dello jus in bello (da quelle sul trattamento dei prigionieri a quelle sui salvacondotti, le capitolazioni e gli armistizi), le quali vengono rispettate per la paura di ritorsioni immediate ed efficaci, come pure per il desiderio di non attirarsi le antipatie di Stati neutrali e non, ancora una volta, per un loro preteso carattere cogente. Che se per caso problemi del genere divenissero, per una ragione qualsiasi, di importanza vitale per un belligerante ed assurgessero al security level (es. uso di un’arma proibita — poniamo atomica — come extrema ratio nella speranza di vincere una guerra altrimenti perduta), non è ragionevole attendersi che la norma internazionale venga ancora osservata (pp. 62-6).
Si aggiunga che gli Stati tendono, sia pure nei limiti del permanere dei loro interessi, a comportarsi come si sono comportati in passato (via trita via tuta) (pp. 71, 118-9); che questo complesso di tradizioni, di costumi e di norme, anche se non cogenti, e perciò non giuridiche, rende naturale, anche nelle relazioni fra Stati, il ricorso «a tecniche e a terminologie giuridiche» (p. 154) (esse stesse, d’altra parte, frutto di una tradizione all’origine della quale il diritto internazionale era forse, come si è accennato, effettivamente un diritto) (pp. 391-2) e si avrà un quadro preciso di ciò che il diritto internazionale è: un sistema di comportamenti che normalmente gli Stati hanno interesse a osservare (e solo per questo osservano), ma che violano tutte le volte che sanno, o ritengono, di cavarne un profitto o di tutelare interessi vitali, o ritenuti tali, altrimenti indifendibili.
 
CRITICA DEL DIRITTO INTERNAZIONALE COME DIRITTO «EMBRIONALE»
Posta questa premessa, per negare la natura giuridica del diritto internazionale occorre anzitutto confutare la tesi che un ordinamento, quale quello sopra descritto, rappresenti bensì un diritto, ma allo stato embrionale, non ancora ben organizzato: un diritto «debole» o «imperfetto», come direbbe lo Zitelmann.[6] E ciò si può fare con diversi ordini di argomentazioni.
Anzitutto si può osservare che è falsa l’analogia — del resto neppur sempre cosciente — tramite la quale si ritiene che i rapporti fra Stati possano evolvere allo stesso modo in cui sono evoluti, all’alba della società, i rapporti fra individui e fra membri di una stessa societas, attraverso l’istituto dell’«arbitrato», dapprima volontario, e poi trasformato, dalla progressiva comune coscienza della sua necessità, in obbligatorio. La falsità risiede per l’appunto nel porre sullo stesso piano una società d’individui e un insieme disorganico di Stati sovrani.[7]
Si può altresì rilevare, ed è questo forse il punto decisivo, che è falsa la tesi, che soggiace a quell’analogia, che «il giudice preceda il legislatore». Nel diritto anche più embrionale delle società primitive non esiste mai un arbitro in funzione giudicante, e insomma un potere giudiziario, senza un legislatore che stabilisca il diritto e un esecutore che coattivamente lo attui, ancorché queste tre funzioni siano concentrate in un solo organo, o addirittura in una sola persona: in un giudice che trova il diritto, e che è anche il sovrano che lo pone in essere (e il capo religioso che da questa sua funzione mutua la legittimità di quel triplice potere). Come l’evoluzione del diritto romano inoppugnabilmente dimostra, l’affermarsi dell’arbitrato obbligatorio (nemo iudex in re sua) va di pari passo con l’affermarsi della pubblicità dell’esecuzione (nemo executor in re sua, si potrebbe dire). L’esecuzione della sentenza arbitrale anche nel diritto primitivo viene abbastanza presto sottratta alle parti, almeno nel senso che essa è tutelata dalla coscienza che si sviluppa nella collettività della sua «securtà»; e quindi viene rapidamente «istituzionalizzata», come la funzione giurisdizionale, attraverso una sia pur inizialmente «timida assunzione della giustizia da parte dello Stato»[8] operata «sia col disciplinarne la forma, sia col sottoporla a un controllo del magistrato per verificarne la legittimità».[9]
Infine, e in senso più generale, si può negare il carattere di «diritto embrionale» del diritto internazionale ricorrendo, come fa L. (p. 229) a questa capitale osservazione del Lauterpacht: «E’ possibile, con riferimento alla storia delle comunità primitive, affermare la possibilità di un ordinamento giuridico senza un’autorità sovrana che applichi le leggi; è possibile pensare ad un ordinamento giuridico rudimentale, che non abbia corti con giurisdizione obbligatoria per acclarare un diritto controverso; è possibile immaginare un sistema giuridico senza organi per la sua attuazione (enforcement) and relying for that purpose on self-help». Ma, se è lecito ignorare le conseguenze negative di ciascuno dei sopra citati difetti a sé preso nell’ipotesi che altri elementi essenziali siano presenti e neutralizzino le conseguenze dei difetti stessi, affermare invece la possibilità di un ordine giuridico in cui tutti quegli elementi siano mancanti significa ridurre il concetto di diritto ad un’ombra di se stesso, o piuttosto usarlo in un significato diverso dall’abituale (che è appunto ciò che gli internazionalisti fanno, Lauterpacht compreso, quasi sempre senza rendersene conto).[10]
 
LA FUNZIONE LEGISLATIVA NEL DIRITTO INTERNAZIONALE
Per ribadire definitivamente la non giuridicità del diritto internazionale, occorre ora appunto dimostrare che nessuno di questi «elementi essenziali», come li chiama il Lauterpacht, è presente nel diritto internazionale; e per quanto, come si è visto, le tre funzioni siano solo astrattamente separabili giacché esse stanno o cadono insieme, esaminiamole tuttavia distintamente per comodità di analisi, cominciando dalla funzione legislativa. Si deve in proposito osservare:
1) Caratteristica fondamentale della funzione legislativa è quella di introdurre nel diritto, in maniera razionalmente ordinata, e attraverso organi a ciò deputati e procedure prestabilite, i cambiamenti graduali che il continuo fluire della vita e il mutare della società rendono necessari. «Il solo modo di evitare una rivoluzione è di farla», è stato detto. Questa frase contiene in nuce tutta la filosofia della funzione legislativa. «Applicando tali considerazioni alle relazioni fra Stati, il fatto che più colpisce la nostra attenzione è che i cambiamenti hanno luogo ma che non esiste un organo capace di disciplinarli attraverso un graduale e misurato dare e prendere, senza esser vincolato esso stesso da diritti quesiti… I trattati, mediante i quali gli Stati cercano di regolare i loro rapporti reciproci, non possono esser considerati come una procedure of change, giacché un trattato è vincolante solo per uno Stato which has assented to it». E neppure può essere presa in considerazione, in tal senso, la regola rebus sic stantibus perché, in diritto internazionale, «ciascuno Stato agisce come judex in re sua».
Pertanto «un sistema che accetta i cambiamenti ma non li regola né disciplina, non è un sistema giuridico: è uno specchio passivo. Il che ribadisce con altre parole la proposizione che le relazioni fra Stati non sono disciplinate dalla legge, anche se nella condotta di queste si fa ricorso a tecniche e terminologie giuridiche» (pp. 141-54).
2) L’astrattezza e la genericità sono elementi essenziali della legge. Ove i destinatari e gli effetti di questa siano conosciuti in anticipo, cessa da un lato l’imparzialità e cessa dall’altro la natura di legge delle norme in questione, che non sono più regole generali di condotta, ma comandi particolari. Ora il numero ristretto dei soggetti di diritto internazionale, e la loro eterogeneità, impediscono appunto l’astrattezza e la genericità delle norme internazionali. Nello stesso senso, dice il L., agisce l’«unicità» di determinate situazioni di fatto. Durante la guerra civile americana il blocco navale operato dagli Stati del Nord, decisivo per il successo finale, non poteva riuscire se non si estendeva al porto inglese di Nassau nelle Bahamas, con violazione del diritto di uno Stato neutrale — il che fu naturalmente fatto. «Gli Stati Uniti — spiega lo Smith — rifiutarono di essere ostacolati (thwarted) da un accidente di geografia».[11] Ma tutta la geografia, anzi tutti i fatti della vita e tutti i rapporti, intersubiettivi come internazionali, sono unici e accidentali. Se gli Stati sono giudici e parti in causa — anzi, anche legislatori e attitrés a formulare, in una situazione mutata, la nuova norma da applicarsi al caso particolare — non è questa la prova più bella che siamo nell’ambito di una realtà che in nessun modo può qualificarsi come giuridica?
3) Ciò sottolinea un altro degli aspetti capitali per cui il diritto internazionale non è un diritto: l’attività «legislativa» è in esso decentralizzata, centrifuga, e perciò radicalmente anarchica: insomma ha caratteristiche antitetiche a quelle della normale attività legislativa interna, e non si vede perché debba chiamarsi con lo stesso nome.
4) Non occorre insistere sull’argomento, già sviluppato dal Federalist, che una giustizia sugli Stati e non sugli individui, che faccia d’ogni erba un fascio e classifichi come tutti «colpevoli» o tutti «innocenti» i cittadini di uno Stato, è insieme, giusta appunto le parole di Hamilton, un non senso logico ed una impossibilità pratica.[12]
5) Argomento decisivo, perché si possa parlare o meno dell’esistenza di una legislazione degna di questo nome nell’ambito dei rapporti fra gli Stati, è che esista una disciplina dell’uso della forza, cioè una definizione univoca e generalmente riconosciuta della guerra giusta. Kelsen, che pur crede spesso acriticamente nella giuridicità del diritto internazionale, afferma esplicitamente in più luoghi,[13] salvo a scordarsene per la strada, che il diritto internazionale è diritto solo se è in grado di caratterizzare la guerra fra gli Stati o come una sanzione conforme alla legge o come un delitto.
A dire il vero, a differenza del L., noi contesteremmo anche in questo caso la giuridicità del diritto internazionale, in forza delle considerazioni di Hamilton. L’idea di una guerra giusta è, giuridicamente, una contradictio in adjecto — o, in ogni caso, un mero non senso logico. Ed è un non senso il considerare la guerra come sanzione, giacché «la forza non può esser classificata tale se non quando essa è overwhelmingly successful» (p. 56). Altrimenti, anche i timidi e subito schiacciati tentativi dei Paesi Bassi di resistere, durante la seconda guerra mondiale, all’invasione tedesca, dovrebbero definirsi, secondo la giusta osservazione di un internazionalista olandese,[14] «sanzioni in nome della legge internazionale»!
Ma è ugualmente istruttivo esaminare la questione. La evoluzione della dottrina del bellum justum — dallo jus fetiale, a S. Agostino, a S. Tommaso, a Vittoria, a Grotius, ai positivisti del secolo scorso — era sfociata nella logica conclusione di questi ultimi «che il ricorso alla guerra da parte di Stati sovrani non è mai di per sé illegale e che in realtà la sovranità dello Stato implica, in diritto internazionale, lo jus belli» (p. 19). «That state A is in any case entitled to make war on state B — for a good reason, far a sham reason as well as for no reason at all» (p. 35).
Conclusione logica rispetto al sistema, ma inaccettabile, rispetto all’evoluzione scientifica e tecnica del progresso umano, e ai principi morali che dovrebbero disciplinarlo. Donde i tentativi di reintrodurre il concetto di guerra non più ingiusta, ma illegale (S.d.N., patto Kellog, O.N.U.). Orbene, riescono tali tentativi — ecco il quesito che pone il L. — a restaurare una dottrina del bellum justum che abbia una qualche pretesa di oggettività, di solidità, o anche solo di attendibilità? La risposta del L. è recisamente negativa, per le seguenti ragioni: Nel Covenant della S.d.N. non vi è alcuna applicazione generale della dottrina della guerra giusta, per quanto si tenti di distinguere fra guerra lecita e illecita secondo la definizione dello stesso Covenant (che ammette, fra le guerre lecite, alcune guerre «ingiuste»). Ma anche le guerre illecite secondo la definizione del Covenant non sono effettivamente poste fuori legge, perché la guerra non è definita; ogni Stato decide per proprio conto se una guerra illecita è o no in atto e quale Stato ne è responsabile; in nessun caso sussiste obbligo di applicare sanzioni militari; non è detto per quanto tempo debbano essere applicate le sanzioni economiche (p. 30).
Nel Patto Kellog: non vi è definizione della guerra; non è prevista alcuna procedura per determinare il casus foederis, non si va oltre l’ingiunzione negativa che le dispute non debbono essere risolte, «se non con mezzi pacifici» (ma non vi è nessun tentativo positivo per risolvere le dispute); la rinunzia alla guerra «come strumento di politica nazionale» lascia indefinite le guerre che si pretendono condotte per altri fini (p. es. di giustizia internazionale); sono incertissime le sanzioni previste nel patto, il quale nulla dice circa il diritto all’autodifesa collettiva. Con disposizioni così vaghe (e di proposito volute vaghe dai firmatari), la Germania, se avesse vinto la seconda guerra mondiale, avrebbe a buon diritto potuto accusare la Francia e l’Inghilterra di aver cercato di risolvere con mezzi non pacifici dispute che esse avevano con la stessa Germania a proposito della aggressione alla Polonia — che la Germania avrebbe potuto definire o come non configurante una guerra, o come una guerra non condotta come «strumento di politica nazionale», o nell’un modo e nell’altro (pp. 30-35) (o addirittura, come vedremo oltre, disconoscendo la Polonia come Stato).
La «Carta» dell’O.N.U. condanna l’uso della forza e conferisce vasti poteri d’intervento al Consiglio di Sicurezza. Questi poteri sono rimasti, peraltro, appunto sulla… Carta, non essendo mai stati conclusi gli accordi necessari perché i membri mettano a disposizione di esso le forze armate necessarie, come previsto dall’art. 43; essendo tutt’altro che verisimile che essi vengano mai conclusi; e dovendo in ogni caso le sue decisioni esser prese, a norma dell’art. 27, col voto di sette membri, compresi tutti e cinque i «Grandi» (un’altra eventualità ben poco probabile). Perciò in pratica il Consiglio di Sicurezza riesce solo ad emanare raccomandazioni non vincolanti, a norma dell’art. 39, com’è avvenuto in occasione della guerra di Corea. L’«armistizio generale» che pose fine a quella guerra appare particolarmente istruttivo; esso è stato concluso fra uguali e non si ispira alla «messa fuori legge» o all’«abolizione» della guerra, né all’asserzione che quella guerra sia stata combattuta a buon diritto da una parte, e a torto dall’altra. E’ vero che ciò non vuol dire negare la concezione della guerra come giusta da un lato e iniqua dall’altro; ma vuol dire che ancora una volta la giustizia non è stata sufficientemente sostenuta dalla forza ed è stata costretta al compromesso. E quindi che non si è fatto un passo oltre la dottrina soggettiva della guerra giusta, e non si è creata una legge oggettiva per regolare l’uso della forza (pp. 38-39).
In effetti finché il Consiglio di Sicurezza non ha deciso, l’O.N.U. è neutrale, e spetta ad ogni membro decidere se una aggressione ha avuto luogo, chi è l’offensore, se è il caso d’intervenire contro di esso (p. 50). Perciò uno Stato membro — contro cui vengano adottate misure coercitive da parte di altri membri — può sostenere che la sua resistenza ad esse è un atto di autodifesa, giusta l’art. 51 dello Statuto, la cui formulazione («Nulla nel presente Statuto pregiudicherà il diritto innato di autodifesa individuale e collettiva, qualora abbia luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite, fintanto che il Consiglio di Sicurezza non abbia preso misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionali»), non è affatto incompatibile «con la possibilità di una guerra mondiale legale o giusta da ambo le parti» (pp. 188-9).
Inoltre, anche se il Consiglio di Sicurezza decide, con la dovuta maggioranza, nessuna disposizione della Carta lo obbliga a prender misure contro la parte colpevole: esso può, infatti, stabilire l’esistenza di una «minaccia» o «violazione» (breach) della pace, senza considerare alcuno degli Stati implicato più responsabile dell’altro. E può perfino, al limite, rivolgere le proprie misure contro uno Stato non responsabile (innocent).
In conclusione, bisogna rispondere negativamente alla domanda se la vecchia dottrina del bellum justum faccia ancora parte del diritto internazionale. Il fatto che in definitiva ogni Stato decida da sé, per dirla col Verdross[15] «quale belligerante ha ragione e quale è l’injustus aggressor deforma l’intera dottrina del bellum justum», dottrina che trova spiegazione storica nel Sacro Romano Impero e nel Papato, ma che è venuta completamente meno, fatto che ci obbliga a tornare alla tesi maestra di Kant,[16] secondo la quale non ha senso parlare di guerra giusta dove non c’è arbitro riconosciuto.
 
LA FUNZIONE GIURISDIZIONALE NEL DIRITTO INTERNAZIONALE
Qui il discorso potrà essere molto più breve, giacché il nostro compito è facilitato da quanto già abbiamo detto, e in particolare dalla distinzione che abbiamo posto fra arbitro volontario e facoltativo e giudice obbligatorio e non eludibile. Solo in questo secondo caso si ha un diritto (e l’istituto primitivo dell’arbitrato caratterizza in realtà un diritto embrionale solo nella misura in cui è esso stesso una giurisdizione embrionale, cioè a carattere, almeno embrionalmente, non facoltativo, come già si è visto). Nulla di simile esiste nell’ambito del diritto internazionale: in esso non vi è infatti nessuna central machinery per accertare i fatti e interpretare le norme.
Quanto all’interpretazione basti dire che neppure lo Statuto delle N.U. prevede una authoritative interpretation delle proprie disposizioni, sì che uno Stato membro non è tenuto ad astenersi dall’agire in conformità a qualsiasi interpretazione di essa, anche se non accettata degli altri membri (p. 191), come infatti — si è già visto — è in pratica avvenuto in Corea. E lo stesso può ripetersi per qualsiasi altro trattato o accordo internazionale. Quanto all’accertamento dei fatti, l’organo che lo operi in modo imparziale, unico, univoco, e vincolante, manca nella maniera più radicale, sì che gli Stati, secondo una giusta osservazione del Wright; «possono condurre le loro rispettive politiche riconoscendo fatti non ancora accertati (established) o invece rifiutando di riconoscere fatti già established».[17] «Quale assurdità più grande — si chiede un altro internazionalista, il Fischer Williams, in un momento di lucidità — di quella per cui uno Stato esiste per alcuni Stati ma non per altri, o per cui per uno Stato un gruppo di abitanti di un altro Stato costituisce il solo governo legittimo di questo, mentre per altri membri della comunità internazionale i rappresentanti legittimi del medesimo Stato sono un altro gruppo di suoi abitanti?».[18] E il L. osserva di rincalzo che al limite «qualsiasi divieto di fare la guerra a un altro Stato non potrebbe applicarsi all’uso della forza contro una comunità non riconosciuta come Stato o, ancor più elegantemente, contro una comunità il cui riconoscimento come Stato venisse previamente revocato» (p. 126).
Nel mondo pirandelliano del diritto internazionale — è ancora il Wright che parla — «there is nothing either good or bad, but thinking make it so». Non pretese forse il governo italiano di liberarsi dalle responsabilità conseguenti al bombardamento di Corfù dell’agosto 1923 (con uccisione di donne e bambini) e dell’occupazione dell’isola greca, sostenendo, in una nota alla stessa Grecia, il carattere pacifico dell’operazione? (p. 25). E’ vero che la Grecia rispose che non sembra «che competa all’autore di un atto il descriverlo» (pp. 123-4); e così è infatti in ogni ordinamento giuridico che si rispetti. Ma il diritto internazionale ignora il principio nemo judex in re sua, base di ogni diritto degno di questo nome. Che cosa dire «se un ladro potesse, con effetto vincolante, negare, non l’esistenza in sé di una legge contro il furto, ma semplicemente di non aver commesso il furto, o che l’atto da lui commesso possa qualificarsi come furto»? In realtà «la libertà che ha uno Stato di qualificare un fatto pone virtualmente esso Stato al disopra di ogni norma di legge applicabile al fatto stesso» (p. 175).
Ma non esistono — osserverà a questo punto qualcuno — i tribunali internazionali, la Corte dell’Aja, le varie assise per i diritti dell’uomo e le altre istanze giurisdizionali europee e mondiali? Esistono senza dubbio: ma in proposito sono necessarie tre osservazioni fondamentali:
1) Anzitutto, per ciò che si riferisce al diritto e alla giurisdizione interna di ciascuno Stato, gli Stati cooperano attivamente tra loro at the expense of the unprotected individual (p. 140) per sottrarvisi reciprocamente, in base ai due principi che gli Stati e i loro organi (instrumentalities) sono immuni da giurisdizione, e che le attività degli Stati non sono soggette a sindacato giurisdizionale. Citare una potenza straniera davanti a una corte nazionale contro la sua volontà, comprometterebbe la pace fra le nazioni. Si tratta di questione politica, non giuridica: e tutte le volte che è in discussione un atto compiuto da un ente sovrano nell’esercizio della sua sovranità (in his sovereign character), esso può essere oggetto di negoziato, o di rappresaglie, o di guerra, non di giurisdizione (pp. 132-3). Sovereignty and the rule of law are mutually exclusive (p. 141): par in parem non habet imperium. O piuttosto, commenta il L., non habet jurisdictionem, perché l’imperium, attraverso la guerra, anche se non ce l’ha, se lo piglia.
2) Davanti ai tribunali internazionali la situazione è solo formalmente diversa: all international adjudication till now has been voluntary. Gli Stati possono sempre sottrarsi al giudizio, all’arbitrato, alle procedure di mediazione o di conciliazione, a tutti i tentativi di risolvere pacificamente le controversie per la via detta propriamente o impropriamente giurisdizionale, tutte le volte che lo ritengano opportuno. E, a meno che non siano costretti,[19] si comportano in tal modo in tutti i casi importanti «politici», lasciando se mai alla competenza delle Corti internazionali i casi di nessun rilievo, meramente «legali» (p. 146-7 e n.), secondo una distinzione prevista tanto dallo Statuto dell’O.N.U. (art. 36, § 3) come dal Covenant (art. 13) (p. 322). De maximis non curat praetor, commenta con molto spirito il nostro autore (p. 242).
Del resto anche gli accordi per sottoporre all’arbitrato controversie meramente «legali» sono conclusi in genere con riserve così ampie, «as to reduce the undertaking almost to the vanishing point» (cf. p. 239). Gli S.U., ad esempio, hanno accettato la giurisdizione obbligatoria della Corte dell’Aja, salve le controversie di competenza della giurisdizione americana «as determined by the United States of America».[20]
Si giunge così fino all’assurdo estremo (messo, in luce dal Sohn), dello Statuto delle N.U., per cui «uno Stato può impunemente violare tutti i trattati internazionali, compreso lo Statuto e altre norme di diritto internazionale, e l’O.N.U. [che può intervenire solo in caso di minaccia alla pace, aggressione ecc.] non può farvi nulla. Fintanto che uno Stato può violare i proprii obblighi verso altri Stati senza ricorrere a un attacco armato, gli altri Stati non hanno il diritto di ricorrere alla forza». Sì che, se detto Stato «rifiuta di sottoporre tale controversia con un terzo Stato a un tribunale internazionale imparziale, quest’ultimo è helpless, anche se la sua pretesa è fondata».
 
LA FUNZIONE «ESECUTIVA» NEL DIRITTO INTERNAZIONALE
Abbiamo visto che di fatto una giurisdizione internazionale non esiste: perché questa non usurpa il suo nome solo se è, almeno rudimentalmente, obbligatoria, mentre gli Stati possono in pratica sottrarsi ad essa tutte le volte che vogliono. Orbene, lo stesso ragionamento si può ripetere a proposito dell’esecuzione delle sentenze internazionali. Anche se uno Stato dovesse obbligatoriamente sottostare, a proposito di una qualunque controversia, al giudizio di una corte internazionale, esso potrebbe ugualmente sottrarsi alle conseguenze di quel giudizio, giacché il diritto internazionale non è armato per imporre ad esso, contro la sua volontà, l’esecuzione della sentenza. In realtà il concetto di «funzione esecutiva» riguarda un’attività molto complessa: un’attività che nel caso di una qualsiasi infrazione sia giuridicamente e materialmente capace (per il diritto che possiede e per la forza di cui dispone) di portare obbligatoriamente, e se necessario con la forza, l’autore dell’illecito davanti all’istanza giurisdizionale (che è e deve restare, per sua natura, inerte). Funzione a cui, all’interno di uno Stato, adempie appunto il «potere esecutivo» attraverso l’avvocatura dello Stato, la procura generale, la polizia giudiziaria e la forza pubblica; anzitutto iniziando, se di sua competenza, l’azione penale o civile, in secondo luogo assicurando, se necessario coattivamente, il buon andamento dell’iter giurisdizionale, e finalmente garantendo l’esecuzione della sentenza passata in giudicato — anche qui, se occorre, con la forza.
Nulla di simile esiste nell’ambito del diritto internazionale. Abbiamo già visto come nessuno possa trascinar in giudizio uno Stato contro sua voglia. Ci resta da osservare che «nei limiti in cui le norme internazionali sono applicate da un tribunale internazionale, esse sono applicate contro uno Stato solo col suo consenso, cioè non realmente contro esso Stato», (p. 72). Il L. non tratta di proposito il problema dell’esecuzione delle sentenze internazionali: sì che per completare l’esposizione e dimostrare che anche nel settore «esecutivo» del diritto internazionale ci troviamo di fronte a una ruina mesta ci converrà ricorrere ad argomentazioni critiche di altri autori.
Premettiamo anzitutto una considerazione elementare, che enunceremo con le parole del Durante: «La sentenza internazionale limita necessariamente la sua sfera di efficacia nell’ambito dell’ordinamento internazionale e non è concepibile una sua esecutorietà negli ordinamenti interni». Pertanto, «in caso di mancata spontanea esecuzione della sentenza da parte degli Stati, detta esecuzione potrà esser imposta, dai soggetti interessati cui spetta il diritto di vederla eseguita, soltanto attraverso mezzi ritenuti idonei dal diritto internazionale, ma non certo attraverso i procedimenti di esecuzione forzata prevista dall’ordinamento dello Stato inadempiente, o da terzi Stati, per l’esecuzione di atti giurisdizionali interni».[21] In altri termini, la sentenza internazionale «non ha un effetto interno immediato e non permette al giudice interno di avvalersene per disattendere la norma legislativa».[22]
Tutto ciò è possibile solo nell’ipotesi che lo Stato soccombente, — al quale solo spetta, nell’esercizio della sua sovranità interna, di porre termine al conflitto fra diritto interno ed internazionale — voglia adempiere. Altrimenti, ci ammonisce il Durante, non restano che «i mezzi ritenuti idonei dal diritto internazionale». Ma quali sono questi mezzi?
Quali siano tali mezzi ce lo dicono molto chiaramente lo Hambro, il Goodrich, il Vulcan.[23] Limitiamoci, con la scorta di questi autori (e rinviando all’ultimo di essi per una storia della questione), a considerare la situazione qual è attualmente, nell’ambito delle Nazioni Unite. Nei casi — che abbiamo visto essere rarissimi — in cui gli Stati si decidono a sottoporre una controversia alla Corte Internazionale di Giustizia, essi possono sempre, se lo vogliono, sottrarsi all’esecuzione di una sentenza: la non esecuzione di questa, per usare appunto le parole dello Hambro (op cit., p. 30) resta sempre «una possibilità pratica». L’eccezione di presunte nullità delle sentenze per eccesso di potere, corruzione del giudice ecc. sono i pretesti, a cui di solito si ricorre per tale scopo.[24] Ed è curioso osservare come il Vulcan, che accetta in pieno la «logica», o per dir meglio le illogicità del diritto internazionale, trovi ciò naturalissimo. «L’assenza di ogni grado di appello rende quasi inevitabile la tesi della nullità», egli scrive. Ma in realtà in diritto interno è vero il contrario: dove l’istanza è unica — o è l’ultima a cui si possa adire — nessuna eccezione di nullità è ammissibile, anzi neppure concepibile; e la sentenza, trascorso un determinato termine, passa senz’altro in giudicato, e diviene esecutiva.
E’ vero che accanto al judicial settlement delle controversie vi è il quasi-judicial settlement (secondo la locuzione di Kelsen) davanti all’Assemblea Generale delle N.U. e. soprattutto davanti al Consiglio di Sicurezza. Ma quella può far solo generiche raccomandazioni;[25] e questo, analogamente, «non può imporre alle parti, contro la loro volontà, una soluzione obbligatoria di una controversia, ma può solo agire come organo di conciliazione, come risulta dall’art. 100 comma 2 dello Statuto».[26] Ed anche ove si ritenga col Vulcan che — non limitando in nulla l’art. 94, 2° comma dello Statuto le misure che il Consiglio di sicurezza può prendere «per far eseguire la sentenza» — il Consiglio stesso possa direttamente ricorrere, se lo ritiene necessario, anche alle sanzioni economiche e militari, resta pur sempre che esso, in base all’art. 27, 3° comma, dovrà prender la decisione relativa «col voto affermativo di sette dei suoi membri, in cui sono compresi i voti di tutti i membri permanenti». «Ainsi le droit de veto joue dans la matière», egli osserva, paralizzando di fatto ogni decisione.
 
CONCLUSIONE
Crediamo così di aver ridimostrato la tesi di Rousseau che il diritto internazionale non ha ni législateur, ni juge, ni gendarme, e non è perciò un vero diritto. E possiamo concludere col L. che non è soltanto l’assenza di sanzioni che spinge a questa conclusione. Noi dovremmo in realtà mantenerla anche se i marziani intervenissero per costringere gli Stati della terra a rispettare il giure delle genti, perché tale diritto è nella sua più profonda radice non giuridico: de-legalized from within. Ciò spiega perché, accettatane la struttura, finiscano per restare prigionieri della sua assurdità anche giuristi come lo Jellinek,[27] che afferma senza batter ciglio che il diritto internazionale è un «diritto anarchico» (e che significa allora diritto?). E che significa parlare, come fanno altri giuristi, di «legislazione internazionale decentrata», quando in realtà tale «decentramento» — come il L. ci ha luminosamente dimostrato — vuol dir sostituzione della propria discrezione al diritto, rispetto del proprio interesse anziché della legge (p. 117)? Non significa nulla, evidentemente; ed è perciò inutile tirare il fiato, e rimettersi a sperare ad ogni temporanea schiarita. «No temporary fits of bonomie among the powers should deceive us» afferma il L. fin dalla prefazione. «Basta solo riflettere che se un accordo fosse raggiunto dai Due o Tre o Quattro Grandi su questioni vitali quest’accordo, nell’ambito dell’attuale struttura delle relazioni internazionali, non sarebbe nulla di meglio che un altro trattato. E i trattati in materia di sicurezza non sono rispettati» (p. XXIII). «The prospects of war are infinite and unmitigated. Only government — not the rules of international law — can bring order out of the existing and impending chaos» (pp. 174-5).
Infatti, se nel diritto internazionale tutto zoppica, i suoi difetti non possono essere corretti con modifiche parziali, ma soltanto con una feromatio ab imis, che tolga di mezzo l’ostacolo che impedisce la giuridicizzazione dei rapporti fra gli Stati: la sovranità assoluta dello Stato, superiorem non recognoscens. Partendo da un punto di vista giuridico, il L. giunge a prospettare come unica soluzione valida la Federazione Mondiale, il World Government, indispensabile per lo stabilimento di un vero diritto internazionale. Ma con ciò il problema diventa politico, e richiede altro discorso.


[1] E sia pure una definizione attinta ad un autore che creda, inconseguentemente, alla giuridicità dello jus gentium come ad esempio il Lauterpacht, secondo il quale «law is what is in fact obeyed and enforced as an external rule of conduct». Cfr. H. Lauterpacht, Recognition in International Law, Cambridge, Macmillan, 1947, p. 172.
[2] N. Machiavelli, Il Principe; Istorie Fiorentine; Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio, B. Spinoza, Trattato politico, tr. it. a cura di A. Droetto, Torino, Ramella, 1958; Th. Hobbes, Leviatano, tr. it. Bari, Laterza, 1911-12; G.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Bari, Laterza, 1913; A. Lasson, System der Rechtsphilosophie, Berlin-Leipzig, J. Guttentag, 1882; L. Gumplowicz, Allgemeines Staatsrecht, 3a ed., Innsbruck, Wagner, 1907; J. Binder, Philosophie des Rechts, Berlin, G. Stilke, 1925; A. Mochi, Science et Morale dans les problèmes Sociaux, Paris, Alcan, 1931 e Civiltà: i termini di una crisi, L’Universale di Roma, 1947.
A. Hamilton, J. Jay, J. Madison, Il federalista, tr. it., Pisa, Nistri-Lischi, 1955; C.K. Streit, Union Now, New York-London, Harper, 1939; L. Robbins, Le cause economiche della guerra, tr. it., Torino, Einaudi, 1944 e L’economia pianificata e l’ordine internazionale, tr. Milano-Roma, Rizzoli, 1948; E. Reves, Anatomia della pace, tr. it., Firenze, Edizioni U, 1946.
— J. Austin, Lectures on jurisprudence, 5a ed., London, J. Murray, 2 voll., 1911; A.V. Lundstedt, Legal thinking Revised, Stockholm; Almqvist e Wiksell, [1956] (e bibliografia ivi); U. Campagnolo, Nations et Droit, Paris, Alcan, 1938; K. Olivecrona, Law as Fact, Copenaghen, E. Munksgaard (e London, H. Milford, Oxford University Press), 1939. Di F. Stier-Somolo si vedano soprattutto due opere monumentali di cui è stato collaboratore, Grundrisse der Rechtswissenschaft, Berlin, Vereinigg. Wissensch. Verleger, 1919 sgg.; e Handbuch des Völkerrechts, Stuttgart, W. Kohlhammer, 1930 sgg.
— Si veda anche, per una rapida sintesi delle diverse teorie A. Nussbaum, A Concise History of the Law of Nations, ed. riv., New York, Macmillan, 1954.
[3] A.V. Levontin, The Myth of International Security, Jerusalem, At the Magnes Press, The Hebrew University, 1957, pp. XXIII, 346.
[4] N.Y. Park, The White Man’s Peace, Boston, Meador Pub. Co., 1948, p. 76.
[5] Tipico rappresentante di questa specie era ad. esempio ieri J.L. Brierley (The Law of Nations, Oxford., The Clarendon Press, 2a ediz., 1935, e soprattutto Le fondement du caractère obligatoire du droit international, Recueil de Cours, La Haye, Académie de Droit International, 1928, III, tomo 23, p. 463 sgg.), secondo cui è assiomatico che «una nozione riformata della personalità internazionale incamminerebbe verso la pace» (p. 531); e lo è, oggi, J.L. Kunz, che afferma quasi fanaticamente: «Contrariamente ai neo-realisti di oggi, che vorrebbero persuaderci che non c’è nulla se non il potere, la forza e l’egoismo nazionale, e che la funzione del diritto internazionale è trascurabile, è evidente che non può esservi coesistenza d’uomini, sotto qualsiasi forma di governo, sia all’interno di uno Stato, sia nel campo internazionale, senza il diritto. E la fede nella legge del diritto, nella libertà entro il diritto è elemento fondamentale della nostra civiltà occidentale». (General International Law and the Law of International Organisations, «American Journal of International Law», 1953, p. 467). «Se fosse vero [ma è vero, purtroppo, per nostra onta!] che la distruzione di milioni di uomini in una città ad opera di una bomba atomica è «perfettamente legale», ci sarebbe poca speranza «for the international law of peace» (The Law of War, ibid. 1956, p. 337. Si veda anche, dello stesso, On the Theoretical Basis of the Law of Nations, in Grotius Society, «Problems of Peace and War», 1925, p. 115 e sgg. e La crise et les transformations du droit des gens, La Haye, Académie de Droit International, Recueil de Cours, 1955, II, p. 1 sgg.).
In fondo per ragioni non diverse Dante credeva ancora all’Impero, quando questo non era ormai più che una ruina mesta: e cioè per una indebita identificazione di ideale e reale, di essere o dover essere. Ma la sua era un’illusione generosa e magnanima; questa dei «neo-utopisti» di oggi ci sembra invece quanto mai meschina, e degna più di struzzi che di uomini.
[6] E. Zitelmann, Die Unvollkommenheit des Völkerrechts, München-Leipzig, Dunker u. Humblot, 1919.
[7] Rafforza tale ordine di considerazioni l’osservazione del Levontin che l’insieme dei soggetti del diritto internazionale è un insieme troppo poco numeroso e troppo eterogeneo (pp. 100-120) per costituire una società. Non sono infatti soggetti di diritto internazionale gl’individui umani; giacché, afferma il L. citando il Dias, anche quando vi sono norme internazionali in loro favore, esse non conferiscono loro diritti «più di quanto le norme statali sulla protezione degli animali non conferiscano diritti agli animali stessi» (p. 104 nota).
[8] P. Bonfante, Storia del Diritto Romano, 4a ediz., Roma, Istituto di diritto romano, 1934, vol. I, p. 144.
[9] E. Betti, Diritto Romano, I, Padova, Cedam, 1935, p. 469 sgg. Il Levontin aggiunge opportunamente la testimonianza, forse ancor più suggestiva, del primitivo diritto ebraico: «E’ evidente dal Libro dei Giudici che giudici quali Barak figlio di Abinoam o Jefte il Gileadite erano in realtà anche capi politici e militari» (p. 244, n.).
[10] Lauterpacht, op. cit., p. 172.
[11] H.A. Smith, The Crisis in the Law of Nations, London, Stevens, 1947, p. 40. The Law and Custom of the Sea, ibid., 1948, p. 114.
[12] Lo ripete, quasi con le stesse parole, il L. (p. 165 e 186), che opportunamente rinvia a due opere illuminanti in proposito: H.A. Freeman, Coercition of States: in International Organisations, Ithaca (N.Y.), Pacifist Research Bureau, 1944; e H.A. Freeman e Th. Paullin, Coercition of States: In Federal Unions, ibid., 1943.
[13] H. Kelsen, Law and Peace in International Relations, Cambridge, Massachusetts, Harvard Un. Press, 1947, Lect. II; General Theory of Law and State, ibid., 1945, pp. 328-41; Principles of International Law, New York, Rinehart, 1952, pp. 18-64.
[14] A.L. Goodhart, 35 Grotius Society (1949), p. 15.
[15] A. Verdoss, Völkerrecht, 3 ed. riv., Wien, Springer, 1955.
[16] E. Kant, La Pace perpetua, trad. it., in Scritti politici a cura di E.P. La Manna, Lanciano, Carabba 1917; e nel volume di più autori a cura di C. Curcio Progetti per la pace perpetua, Roma, Colombo, 1946.
[17] Q. Wright, in «American Journal of International Law», 1950, p. 557. E quanto questi rispettivi punti di vista possono variare ha accuratamente dimostrato E. Reves, nel I° cap. della sua Anatomia della Pace.
[18] Sir John Fischer Williams, cit. in Lauterpacht, op. cit., p. 165, n. 2. Particolarmente curioso, è il caso della Gran Bretagna, che riconosce la Cina di Mao e non di Ciang Kai Scek, ma non si oppone a che il governo di quest’ultimo sieda al Consiglio di sicurezza dell’O.N.U., di cui essa pure fa parte.
[19] La Cecoslovacchia ad esempio «accettò» le decisioni di Monaco: ma non già perché gli Stati che gliele «suggerivano» si erano costituiti in Conciliation board o in commissione di arbitrato, ma semplicemente perché quel suggerimento era un Diktat (p. 241).
[20] 15 Dept. State Bulletin (1946) 452 (cit. dal L. p. 239). Meno della metà degli Stati membri dell’O.N.U. hanno accettato questa optional clause, e fra di essi non vi è alcuno Stato comunista (p. 321). Ma fra il non accettare e l’accettare con tali riserve non corre gran differenza.
[21] F. Durante, La Corte di Giustizia della C.E.C.A., in «Rivista di diritto internazionale», 1955, p. 151.
[22] P. De Visscher, in Actes Officiels du Congrès International d’Etudes sur la C.E.C.A., Milano, Giuffré, vol. II, 1957, p. 49.
[23] E. Hambro, L’exécutions des sentences internationales, Paris Libr. du Recueil Sirey, 1936; L.M. Goodrich e E. Hambro, Charter of the United Nations, Boston, World Peace Foundation, 1946; C. Vulcan, L’exécution des décisions de la Cour Internationale de Justice d’après la Charte des Nations Unies, in «Revue Général de Droit international public», ,1947, p. 187 sgg.
[24] Pretesti, del resto, non sempre ingiustificabili; il ristretto numero dei soggetti della Comunità Internazionale, e le pressioni politiche che la loro «sovranità» li spinge ad esercitare in ogni senso, fa sì che trovare fra i giudici internazionali (che sono da essi nominati) uno che sia imparziale è più difficile — come anche il L. abbondantemente dimostra — che trovare un cece in Arno. Altra ragione che snatura completamente la funzione giurisdizionale.
[25] H. Kelsen, The Law of the United Nations, London, Stevens, 1950, pp. 455 e seg.
[26] Goodrich e Hambro, op. cit., I, 7.
[27] G. Jellinek, Das Recht des modernen Staates, Erster Band, Allgemeine Staatslehre, Berlin, O Haering, 1900, p. 341: «Il diritto esiste in funzione degli Stati, e non gli Stati in funzione del diritto internazionale». Il che significa che «se il rispetto del diritto internazionale è in conflitto con l’esistenza dello Stato [conflitto sulla cui esistenza esso Stato è unilateralmente giudice], la regola del diritto si trae indietro». E’ il diritto internazionale che cede allo Stato, non lo Stato al diritto: ché «das Völkerrecht is der Staaten, nicht aber sind die Staaten des Völkerrechts wegen da» (pp. 339-40).

 

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