IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno I, 1959, Numero 2, Pagina 61

 

 

Il tramonto di un feticcio
“il sovranazionale”
 
ANDREA CHITI BATELLI
 
 
I
Il concetto di «Comunità» europee, e l’idea a quel nome connessa (e all’aggettivo «sovranazionale» che di solito le accompagna) di una nuova entità politico-giuridica; così come le illusioni che intorno a tali parole si sono andate suscitando negli anni trascorsi — tutto ciò nasce con il sorgere della CECA (e con gli altri più o meno infelici progetti che successivamente si sono realizzati, o soltanto proposti, su quel modello). Di un «superamento delle sovranità» non si parlò, al momento in cui nacquero successivamente l’OECE, il Consiglio d’Europa, l’UEO, neppure in senso traslato e per metafora; anzi non si mancò di mettere in luce fin dall’inizio — e non soltanto da parte dei federalisti — che quelle organizzazioni erano costruite sulla falsariga delle più classiche unioni internazionali: il principio dell’unanimità e il carattere puramente consultivo e non deliberante degli organi che le costituivano era pacificamente riconosciuto.[1] Meno evidenti erano, allora le conseguenze che ciò non avrebbe potuto non avere, ma che non tardarono a manifestarsi.
1. — Tipica è in proposito l’evoluzione, o piuttosto involuzione, subita dalla prima di esse, l’OECE (così come tipica, vedremo, sarà la progressiva «atrofia» della prima «Comunità sovranazionale», la CECA): giacché nell’un caso come nell’altro le successive tappe di questa malinconica «parabola» sono state tutte successivamente percorse, in ben distinti intervalli di tempo, sicché esse assumono valore quasi paradigmatico della effimera stagione che le istituzioni europee appaiono in ogni caso destinate a conoscere.
Sono note le origini dell’OECE: la critica situazione economica dei paesi europei all’inizio del 1948, che poteva mettere in pericolo le stesse istituzioni libere e favorire anche altrove soluzioni «cecoslovacche»; le ragioni che indussero perciò l’allora segretario di Stato americano Marshall a proporre il suo famoso piano. La grandezza del piano non stava nella generosità dell’aiuto (conseguente a un abile calcolo politico, e pertanto concepito essenzialmente nell’interesse americano); quanto nella liberalità dei metodi previsti per elargirlo, e nella genialità della intuizione politica che ad essa soggiaceva: convinzione che l’Europa non avrebbe potuto riprendersi che attuando un programma di ricostruzione economica unica; conseguente attribuzione degli aiuti ad un organo europeo comune, che avrebbe elaborato quel programma e avrebbe stabilito come e dove investirli. Concezione economicamente ineccepibile, e che gli europei avrebbero dovuto, con altrettanta lungimiranza, politicamente completare.
«Fare un programma europeo — scrisse allora Altiero Spinelli nell’organo del M.F.E. «Europa Federata» — non è cosa da nulla. Occorre predisporre le misure per passare da sedici malate monete manovrate ad un’unica, sana, moneta europea. Occorre stabilire una progressiva eliminazione del sistema delle licenze e del bilateralismo dei traffici, sapendo che ciò provocherà in ogni paese una maggiore estensione di alcuni settori produttivi e la scomparsa di altri. Occorre stabilire quale percentuale degli apparati produttivi e del lavoro umano sarà dedicata alla difesa militare dell’Europa ecc. E’ necessario che l’organo incaricato di elaborare ed applicare un tale programma sia un vero e proprio governo europeo. Nessuna assemblea o conferenza di esperti o di ambasciatori economici dei vari paesi —costretti dal rispetto al principio delle sovranità nazionali ad attenersi nelle deliberazioni al metodo dell’unanimità — può essere in grado di farlo».[2]
Quella soluzione non fu adottata — anzi neppure ventilata nelle sfere ufficiali — anche per la totale mancanza di una tradizione culturale federalista in Europa che andasse appena al di là delle rugiadose formule nègre-blanc alla Coudenhove-Kalergi di vent’anni prima (e, se ci fosse stata, la resistenza britannica avrebbe provveduto a farne giustizia sommaria); e gli Stati europei non seppero dar vita che a una conferenza permanente di loro plenipotenziari: conferenza che, debitamente istituzionalizzata, si chiamò appunto solennemente «Organizzazione Europea di Cooperazione economica». Essa cominciò subito col non trovarsi d’accordo sulla ripartizione degli aiuti (sì che il governo americano si decise finalmente a fissarla, autoritariamente e unilateralmente, da sé); dell’idea di un piano economico europeo, e in particolare di un programma di investimenti, si capì subito che non era il caso neppure di parlare: e così quegli aiuti (e quell’organismo) che dovevano servire a far rinascere l’economia europea come un tutto unico, contribuirono invece non poco a ricostruire i nazionalismi economici, che in parte la guerra aveva distrutto.
Per le medesime ragioni il Piano Marshall, che nell’intenzione generosa dell’ideatore avrebbe dovuto cementare l’indipendenza economica europea,[3] servì invece a rafforzare la dipendenza delle singole economie nazionali (incapaci di autosufficienza appunto perché rimaste nazionali) dall’economia «dominante» statunitense.
La sola vera, grande occasione di fare gli Stati Uniti d’Europa era così andata perduta, senza che gli uomini responsabili si fossero neppure resi conto dei termini del problema.
Restava all’OECE il molto più modesto compito di favorire una progressiva, parziale «integrazione» (come da allora in poi si disse, con neologismo anglo-americano) dell’economia continentale: ma anche a questo compito essa risultò inadeguata; sicché, abbandonati i più spinosi problemi della eliminazione dei contingenti, della rimozione dei vari elementi che ostacolano la concorrenza, dell’abbassamento delle dogane, essa agì con qualche successo, nella sola direzione di parziali liberalizzazioni. E una volta realizzato il poco che in questo senso era realizzabile, l’Organizzazione si adagiò tranquillamente nel «ruolo» che le è rimasto, di organo di studio e di «consigliere inascoltato»: che è, anche questo, tipico dell’ultima fase di tutte le istituzioni europee, una volta che esse hanno compiuto il loro breve ciclo iniziale di apparente maggior vitalità, e cessano di essere alla moda.
2. — La sorte del Consiglio d’Europa non è stata diversa. Consiglio dei ministri degli esteri, da un lato; Assemblea parlamentare — sia pure eletta a suffragio indiretto, dai Parlamenti, e con potere meramente consultivo (ma nel ’48 la novità parve considerevole), dall’altro; ce n’era quanto bastava, per gli ingegni ricchi di fantasia di dieci anni fa (e Dio sa se ve ne furono, e ve ne sono tuttora), per vedere già sur pied un embrione di esecutivo e di legislativo federali. E veramente nel primo biennio di vita di queste due istituzioni i tentativi dell’Assemblea di istituire un potere europeo fornito «di competenze limitate, ma di poteri reali»[4] e i dialoghi di questa con i ministri furono assai vivi: tanto che i laburisti britannici, allora al potere, sentirono il dovere di dir chiaramente, in un opuscolo che ebbe un momento di notorietà internazionale, che essi non erano disposti a sacrificare, sull’altare dell’unificazione europea, neppure un briciolo delle loro conquiste sociali e neppure un’unghia della sovranità britannica.[5]
Ma ben presto tutto si spense; il Consiglio dei ministri divenne sempre più organo tecnico per risolvere problemi non politici (tipo «pesca nel mare del Nord»); se realizzazioni ci furono, come la «Corte europea dei diritti dell’uomo», furono solo per dar polvere negli occhi e infinocchiare i gonzi; mentre l’Assemblea, analogamente, rinunziò in maniera definitiva alle discussioni istituzionali, una volta constatata la chiusura totale dei governi alle sue proposte (che non venivano e non vengono più prese in considerazione neppure per essere rigettate) e il proprio dissenso interno su questo tema, data la presenza in essa di britannici e scandinavi ferocemente «funzionalisti»; e si limitò a discutere i grandi temi della politica estera, che danno luogo a dibattiti extrêmement passionnants, come li definirebbero i francesi, ma supremamente inutili, stante la loro risonanza e presa politica nulla — oltre a una quantità inverosimile di altre questioni senza importanza, sì che le raccomandazioni e risoluzioni (sempre inevase) che essa è capace di sfornare in un anno occupano non di rado un intero volume.
Insomma, anche qui, uno dei due organi dell’istituzione (il Consiglio) politicamente cessò di esistere, e l’altro divenne il solito consigliere inascoltato su questioni di ordinaria amministrazione.[6]
3. — E’ appena il caso di accennare che anche per l’UEO si è verificato lo stesso fenomeno.
Certo questa istituzione, che di tutte le cose poco serie che sono gabellate col nome di «unione europea» è senza alcun dubbio la meno seria di tutte, puro espediente tattico per fare entrare la Germania nell’Alleanza atlantica, e destinata dunque ad avere un significato solo per la durata di questa operazione — una funzione, insomma, di pura foglia di fico, assai più esplicitamente (anche se tacitamente) ammessa, che non per altre organizzazioni europee dai nomi più roboanti.
Eppure anche in quel caso vi fu chi vide in essa, volta a volta, il mezzo con cui si era colmato il vuoto politico formato dalla CECA (mentre l’UEO era l’espressione stessa, per dir così «istituzionalizzata», di quel vuoto); un mezzo potente per rafforzare la solidità difensiva comune (laddove l’UEO sancisce il ritorno definitivo agli eserciti nazionali e risuscita quello tedesco); infine lo strumento rivoluzionario per legare una buona volta stabilmente la Gran Bretagna alla difesa dell’Occidente (tesi, quest’ultima, che non vale più neppure la pena, alla distanza di soli 4 anni, di confutare); per non parlare dei soliti imbecilli professionali, che vedevano validi germi di sovranazionalità perfino nell’«Agenzia degli armamenti», o nel «Pool delle armi».[7] Così, mentre tutti i soloni di politica estera la presentarono al suo nascere come «un’istituzione preziosa e vitale» (F. Vegas, L’U.E.O., in «Comunità Internazionale», 1955, p. 252) essa ha potuto esser definita appena alcuni anni dopo da un membro della sua Assemblea, e per di più britannico (l’on. Edwards, in una delle ultime sessioni) a rather sad farce.
 
II
Orbene, la tesi che noi intendiamo qui rapidamente accennare[8] è che analoga involuzione e atrofia ha colpito o sta per colpire le istituzioni «sovranazionali», sinora venute alla luce; e che ciò è essenzialmente dovuto al fatto che esse in nulla si distinguono dalle precedenti (se non per il numero più ristretto — e politicamente più omogeneo — dei partecipanti, il che basta a spiegare l’estensione e l’articolazione maggiore delle loro competenze), mentre la cosiddetta «sovranazionalità» è una parola a cui non corrisponde alcuna realtà propria, né alcuna categoria giuridica univocamente distinguibile da quella di «internazionalità», di «unione internazionale».
Dal punto di vista politico ci sembra che ci siano da fare solo delle constatazioni, tanto efficace e incontrovertibile è l’eloquenza dei fatti.
4. — Considerando anche qui come paradigmatico il caso della prima di queste organizzazioni, la Comunità carbo-siderurgica, si richiamino alla memoria le speranze in essa riposte al suo sorgere («prima assise della Federazione europea», diceva perfino il testo del Trattato); gli entusiasmi di molti federalisti (si ricordi come particolare «piccante» che essi giunsero a consigliare all’allora Presidente dell’Alta Autorità Monnet — e a far accettare in consiglio — di salutare l’Assemblea della Comunità, nella sua prima allocuzione a questa, come «sovrana»); il dinamismo dello stesso Monnet e l’impressione suscitata, tra gli altri, nei britannici, che giunsero ad accreditare a Lussemburgo una propria delegazione diplomatica presso l’Alta Autorità; i propositi ambiziosi per l’avvenire, favoriti tra l’altro dalla conclusione del noto prestito con gli Stati Uniti, che pareva mettere la CECA al centro dei programmi d’investimenti europei nei settori di sua competenza; l’euforia che a tutto ciò aggiungeva la prospettiva di un rapido estendersi dell’unificazione al campo militare e politico (CED e CPE), entro un tutto giuridico unico.
Si veda come quelle speranze si siano rivelate ad una ad una delle illusioni irrealizzabili; come Monnet si sia sgonfiato prima ancora della sua «Comunità» (non ha neppure saputo tener ferme le dimissioni che pur aveva avuto, in un momento critico, la dignità di dare ed è finito poi, peggio di Belisario, pitoccando qualche consenso purchessia al suo sempre più miserevole «Comitato per gli Stati Uniti d’Europa»); come le industrie dell’acciaio e del carbone abbiano conservato la loro struttura nazionale e la decartellizzazione sia rimasta un mito.[9] E ci si domandi allora se il post hoc, ergo propter hoc — che da tanti si è ripetuto come un luogo comune, a proposito dell’espansione notevolissima che hanno subito la produzione del carbone e dell’acciaio appena dopo l’istituzione della CECA — non sia stato per tre quarti almeno arbitrario, le cause del fenomeno dovendosi ricercare piuttosto nella generale alta congiuntura dell’economia mondiale; e se decisive, per una conferma, ed anzi un aggravamento di tale giudizio, non appaiano la recente duplice crisi comunitaria, interna (i governi si sono persino disinteressati di rinnovare per tempo, come il trattato imporrebbe loro, i membri dell’Alta Autorità, che rimasero così a lungo al loro posto con un piede solo, come le gru di Chichibio), ma soprattutto esterna, in conseguenza della sovrapproduzione carbonifera; e l’assoluta impotenza dimostrata dall’Alta Autorità, al primo serio scontro coi governi, a imporre ad essi una propria politica, anche edulcoratissima; e la precisa e riaffermata volontà di questi ultimi di perseguire, e di perseguire esclusivamente, interessi nazionali, anche se a scapito dell’interesse comunitario, senza che i membri dell’Alta Autorità sentano più, neppure per un momento, come Monnet, l’elementare dovere di dimettersi.[10]
Già il 15-16 febbraio scorso «Le Monde», facile profeta, scriveva: «L’Alta Autorità si è mostrata incapace, da anni, di far rispettare il trattato, ed ancor oggi se la prende più cogli effetti che con la causa. La legge della giungla economica ha così sostituito in Europa le disposizioni del trattato, sì che ogni governo le viola secondo il proprio tornaconto, senza darsi nessuna cura del coordinamento delle politiche nazionali. Stando così le cose, si capisce come si faccia strada a poco a poco l’idea di un grande compromesso generale, in cui ogni governo rinunzierebbe — provvisoriamente — a violare questa o quella norma del trattato, previo impegno reciproco degli altri membri… Ma la costruzione «europea» è compatibile con simili arrangiamenti? L’autorità sovranazionale su cui era fondata la CECA, intanto, ha già dovuto soccombervi». E sul giudizio non sospetto del più insidiosamente antieuropeo dei quotidiani europei possiamo essere anche noi, una volta tanto, completamente d’accordo.
5. — Quanto al Mercato Comune (l’Euratom è impresa politicamente troppo modesta, una volta che tutta la questione degli investimenti è rimasta di esclusivo dominio nazionale, per parlarne qui diffusamente)[11] è certo che in sede scientifica e storica non. è possibile non lasciare alle due Comunità il tempo di nascere e di vivere, prima di pronunziare su di esse un giudizio definitivo. Ma è altrettanto certo, se la storia e l’analogia insegnano qualcosa, che tale giudizio appare scontatissimo, giacché si fonda su troppe, e troppo concordi, constatazioni: l’assenza di ogni anche embrionale tentativo di organizzare una politica economica generale, congiunturale e monetaria comuni; le infinite «clausole di salvaguardia», che consentiranno ai governi recalcitranti tutte le scappatoie, e obbligheranno ad allineare la marcia del Mercato Comune sul più tiepido di essi; la «crisi» irreparabile dell’intera istituzione che potrà determinarsi ad ogni passaggio di tappa, se uno Stato si ostinerà indefinitamente ad eccepire la propria impossibilità ad andar oltre nelle riduzioni doganali; infine ed essenzialmente tutta la serie di restrizioni e di «ritorni al passato» che il Trattato prevede nel caso di turbamento nella situazione economica generale, nell’equilibrio monetario, nella bilancia dei pagamenti degli Stati membri, conseguenti alla stessa progressiva attivazione del Mercato Comune: il che esclude ogni garanzia capitale e irrinunziabile, in un processo unificativo del genere di certezza dei délais e di irreversibilità, e assicura che «non è una cosa seria».
Del resto il processo di «ridimensionamento» dei trattati di Roma è già ampiamente in corso, nonostante i grandi remous che essi hanno suscitato (specie il primo) in molti ambienti economici anche non ingenui: la bassa congiuntura economica; l’avvento dei gollisti e l’ondata nazionalistica europea che esso ha determinato in Francia e, di rimbalzo negli altri paesi; il crescente prestigio di Erhard «cattivo europeo» e fautore della Zona di Libero Scambio,[12] e last but not least il rapido controllo sulle Commissioni assunto a Bruxelles dal Comitato Permanente dei rappresentanti dei Ministri hanno già servito a far sì che, a differenza di quanto è avvenuto per la CECA, il pallone cominciasse a sgonfiarsi ancor prima di essere stato gonfiato.
Il passaggio obbligato che dovrà portare dalla prima alla seconda tappa dirà in maniera probabilmente definitiva se l’atrofia sia anche in questo caso permanente e se l’esperimento MEC sia da archiviarsi, con gli altri aborti europei, tra le pratiche indefinitamente «sotto naftalina».
6. — Un discorso a parte merita la CED, sulla quale anche molti federalisti avevano riposto tante speranze.
Essa presentava, e forse in misura ancor più cruda, il difetto che diremo «sezionalistico» della CECA (e del Mercato Comune). Tale difetto consiste, nella CECA, nel considerare il settore carbosiderurgico, spina dorsale dell’economia moderna, come disciplinabile al livello europeo indipendentemente e al di fuori degli altri, e per di più al di fuori di ogni precisa disciplina monetaria comune;[13] consiste, nel Mercato Comune, come si è visto, nell’assenza, oltre che di una tale disciplina, di disposizioni precise per una generale politica economica comune; consiste in una parola, in entrambe le Comunità, nel concepire il fenomeno economico come regolabile separatamente e indipendentemente dal generale problema politico — con la conseguenza tra l’altro di una possibile successiva creazione di comunità fra loro irrelative (e magari in avvenire contrastanti),[14] quasi che l’Europa potesse esser creata a spicchi, e le membra staccate dall’organismo vivente fossero ancora parti vitali di tale organismo e non pezzi inerti di un cadavere.
Ora tale difetto, dicevo, si aggrava nel caso della CED: sia perché è fin troppo evidente l’assurdo di creare un esercito europeo senza dar vita ad un’autorità politica democraticamente legittimata ad assumerne la direzione e la guida; sia perché, come lucidamente videro due dei più acuti studiosi degli aspetti politici del problema della difesa del nostro continente,[15] difender seriamente l’Europa — anzi difender seriamente un qualsiasi paese — significa dare a questo una forza economica tale da reggere il peso non indifferente dell’armamento moderno, senza con ciò compromettere l’espansione industriale o le conquiste sociali; significa dare ai suoi cittadini un livello di vita ed ideali politici tali che questi sentano che val la pena di battersi in loro difesa, fino al sacrificio della vita; e significa dare a tutto ciò una personificazione politica reale, meno effimera e mal sicura degli ormai anche militarmente anacronistici Stati nazionali: una «patria visibile», come fu detto. Insomma, mai come in questo caso l’esercito europeo chiama e presuppone lo Stato europeo.
Tuttavia il ragionamento poteva essere, almeno in qualche misura, rovesciato: e proprio perché, si disse da parte di molti federalisti, l’esercito non è, come il carbone e l’acciaio, un elemento e un aspetto della sovranità nazionale, ma, anche tradizionalmente, il suo pilastro centrale e quasi la sua essenza fatta visibile, l’anomalia e deficienza di una tale formula, e al tempo stesso l’irreversibilità del processo, una volta messa in essere una così radicale trasformazione degli eserciti nazionali, avrebbe facilitato il coronamento politico dell’edificio: appunto la Comunità Politica Europea.[16]
Ragionamento non del tutto infondato — specie se si tiene conto dell’ondata «europeista» che una ratifica della CED avrebbe presumibilmente suscitato, uguale e contraria alla ventata «nazionale-conservatrice» che ha invece seguito il suo rigetto; ma che sopravvaluta, e di molto, la «portata rivoluzionaria» della Comunità Politica Europea: la quale avrebbe, in realtà, rimandato ulteriormente il problema di fondo che si doveva risolvere, giacché, nonostante le sue più generali competenze politiche, essa ereditava senza correggerlo l’altro, e più grave e decisivo difetto delle Comunità «sovranazionali» che l’avevano preceduta, e che dovevano seguirla.[17]
Qual era questo difetto? E’ ciò che ora vorremmo chiederci.
 
III
7. — Il difetto delle comunità sovranazionali, detto paradossalmente in una parola sola, era ed è, come si è già accennato, quello di non essere affatto sovranazionali.
Per raggiungere una definizione univoca del concetto di sovranità, occorre, secondo noi, rifarsi all’aspetto giuridico di questa; definir sovrano un ordinamento giuridico «originario» (cioè un ordinamento la cui norma fondamentale non ammetta dimostrazione giuridica); e non sovrano — o subordinato, o comunque si voglia chiamare — un ordinamento, invece, la cui norma fondamentale ammetta tale dimostrazione.[18]
Chiariamo in nota il significato di queste parole, in ispecie in rapporto alle comunità europee. Qui basti osservare che il fenomeno su cui si è richiamata l’attenzione, in apparenza confinato nel settore strettamente tecnico-giuridico, non è senza profondi riflessi politici (appunto perché esso non è, invece, che la formulazione in termini giuridici di un fatto essenzialmente politico — sul quale, in fondo, già il Federalist aveva detto tutto l’essenziale).
Solo infatti dove l’ordinamento giuridico spazialmente comprensivo di altri ad esso interni (per esempio di una delle Comunità europee a sei) abbia carattere originario, come avviene in uno Stato federale, si ha il fenomeno — appunto politicamente decisivo — della «immediatezza dell’esecuzione», per cui le norme votate dall’organo legislativo centrale hanno di per se stesse il valore di vere e proprie leggi (che prevalgono, in caso di conflitto, su quelle dei membri) e non di raccomandazioni o disposizioni programmatiche e non precettive, che abbisognano di traduzione negli ordinamenti giuridici dei membri stessi, ad opera di organi di questi; le pronunzie dei tribunali federali sono direttamente operanti nei confronti dei cittadini, sempre al di fuori di ogni «mediazione» Stato-nazionale; e infine — last but not least — l’esecutivo centrale dispone di un proprio bilancio con entrate autonome, previste dalla legge federale e di un apparato esecutivo proprio (ivi compreso un esercito e una forza di polizia) che gli consente di far eseguire coattivamente gli atti di governo compiuti nell’esercizio della propria competenza, del tutto al di fuori, anche qui, dall’ingerenza degli organi degli Stati partecipanti, e anzi anche contro l’eventuale resistenza di questi.
In realtà invece l’Assemblea a sei — tanto nella sua prima veste, di assemblea della CECA, quanto nella sua ultima reincarnazione, come Assemblea Parlamentare Europea — non è, dal punto di vista «legislativo», nulla di più di un’Assemblea consultiva, proprio come quella del Consiglio d’Europa (e non ha quindi, a propriamente parlare, nulla di «parlamentare»); la Corte Europea, salvi alcuni particolari di carattere economico, non è, politicamente, nulla di più della Corte europea dei diritti dell’Uomo (un altro tribunale internazionale, come ce ne sono sempre stati tanti, e non hanno mai fatto nulla);[19] infine le Commissioni, e la stessa Alta autorità, sono anch’esse, almeno per tutti i problemi politici di fondo, organi consultivi e non di governo, che non si differenziano qualitativamente dai comitati ed organi esecutivi dell’OECE, poniamo, o dell’U.E.O.; ed abbisognano in ogni caso — anche in quelli, rari e poco importanti, in cui possono decidere da soli — della buona volontà delle amministrazioni nazionali per veder tradurre in atto le proprie decisioni (donde la pressione politica schiacciante che l’ente sociologico «Stato-nazione» esercita su di esse, riducendo di fatto a priori e in misura crescente la loro sfera d’azione, le loro competenze, la loro già in sé così pallida autonomia).[20]
Sotto questo profilo non solo il problema delle maggioranze (più o meno qualificate) o dell’unanimità; ma perfino quello dell’esistenza o meno, nelle Comunità, del «corpo estraneo», come è stato definito il Consiglio dei ministri, perde ogni significato: giacché quand’anche quell’organo, poniamo nella CECA, conformemente all’originario progetto Monnet-Schuman, non esistesse, e tutte le decisioni che richiedono il suo intervento e magari all’unanimità, potessero esser prese dalla sola Alta Autorità a semplice maggioranza — ma per il resto la struttura della CECA restasse invariata — le difficoltà per l’Alta autorità di far eseguire ad esempio la sua «politica carbonifera» resterebbero esattamente le stesse: e si rivelerebbero, anche in questa ipotesi, insormontabili. Ed oziosa diviene altresì ogni discussione sulla pretesa maggiore (nella CECA) o minore sovranazionalità (nella CEE e nell’Euratom), giacché essa in realtà scompare del tutto, tanto come concetto giuridico, che come fatto politico.
8. — Resta allora, per concludere, da chiedersi solo il perché della nascita e dell’affermazione di una parola che non ha prodotto, né poteva produrre (come i fatti si sono incaricati di dimostrare in maniera fin troppo brutale) nessuna conseguenza pratica, e lungi dal far «progredire gradualmente», come afferma la propaganda ufficiale, l’unione europea, l’ha invece incanalata in un vicolo cieco.
E il perché sta, secondo noi, proprio in questa funzione d’incanalamento. Priva di senso giuridico come di valore politico, l’idea di sovranazionalità ha avuto invece grande efficacia propagandistica. Quale che fosse la buona fede dei suoi originari formulatori e propugnatori (poca ed in pochi, secondo noi); e quali che siano stati i risultati — assai più apparenti che reali — di un primo periodo di euforia e di alta congiuntura europea, questa è stata, in via definitiva e permanente, e continua (purtroppo) ad essere, la funzione centrale ed essenziale del «sovranazionalismo»: dare l’illusione che qualcosa di nuovo e di vitale viene fatto al livello europeo («L’Europa è in marcia»), mentre di fatto tutto rimane come prima; e così deviare verso false soluzioni le forze federaliste, smorzandone ed attutendone la forza d’urto attraverso questa nel suo genere genialissima «parata in due tempi», con cui lo Stato nazionale finge di superarsi, al solo scopo di poter meglio e più solidamente permanere.[21]
Luigi Salvatorelli conclude il suo felice saggio di dieci anni fa sui moti rivoluzionari europei del 1848 (L. Salvatorelli, La Rivoluzione europea, Milano, 1949) osservando che quella rivoluzione fallì perché, nata e affermatasi con afflato e significato europeo, non riuscì, a quel livello, a istituzionalizzarsi, a farsi Stato. Per ragioni non diverse sono falliti oggi i conati europeistici dell’ultimo decennio: per non aver saputo — o per dir meglio, potuto —[22] farsi Stato. Giacché uno Stato, checché ne pensino gli orecchianti dell’europeismo ufficiale, non si costruisce a fette, un pezzo oggi e uno domani: o c’è o non c’è.
Seguire da vicino le istituzioni europee, per comprendere sempre meglio le contraddizioni inestricabili in cui si dibattono — e non trarre da questa critica radicale pretesto per un disinteresse che viene facilmente scambiato per un partito preso di sfiducia aprioristica ed acritica — può essere, anzi è senza dubbio, utile ed ancor oggi istruttivo. Ma continuare a prestar fede a quel metodo, alla «via governativa», sarebbe ormai — per chi non è obbligato da ineludibili doveri d’ufficio a far finta di credervi ancora — ingenuità imperdonabile. A noi convien tenere altro viaggio.


[1] Sulla struttura giuridica dell’OECE è da vedere H.T. Adam, L’OECE, Paris, L.G.D.J., 1949; ma la storia del progressivo «declassamento» dell’Organizzazione si può comprendere soprattutto leggendo le successive relazioni che essa annualmente ha sfornato e constatando quanto meno ambiziosi propositi manifestino le ultime rispetto alle prime (ed esse sono a loro volta da confrontarsi, nel loro complesso, con le relazioni della Commissione Economica per l’Europa — ECE — delle Nazioni Unite, e, in particolare, con quella del 1953, relativa all’intero quinquennio precedente).
Sul Consiglio d’Europa esiste oramai un’intera bibliografia: accennando agli studi giuridici (Carstens, Robertson), ricorderemo solamente (oltre il saggio in argomento di L. Benvenuti — al quale l’autore di questo articolo ha validamente collaborato — nel volumetto di vari autori Europa in Cantiere, Roma, Movimento Federalista Europeo, 1952) un volume di R.W.G. Mackay, Western Union in Crisis, London, Blackwell, 1949 (per la soluzione federalista, in favore di una radicale riforma dell’OECE e del Consiglio d’Europa). Più in generale, per una dimostrazione per dir così a contrario, e contro la volontà degli autori — ma proprio per questo forse ancor più efficace e persuasiva —, che un’economia internazionale integrata o è federale o non è, sono d’eccezionale importanza due opere ancora troppo poco studiate dai federalisti: F. Perroux, L’Europe sans rivages, Paris, Presses Universitaires de France, 1954 (i cui concetti essenziali sono efficacemente riassunti nell’articolo di critica radicale del MEC — Les formes de la concurrence dans le marché commun -pubblicato nella «Revue d’économie internationale», genn.-febbr. 1958) e soprattutto G. Myrdall, An International Economy, New York, Harper, 1956 (traduz. francese: Une Economie Internationale, Paris, Presses Universitaires de France, 1958).
Un tentativo di bibliografia sintetica, ma quanto più possibile completa dei vari aspetti del federalismo ho fatto in appendice al mio opuscolo Europa ‘55, edito in quell’anno a Roma dalla Campagna Europea della Gioventù. Infine, per un inquadramento dell’idea europea in quella mondialista, è da vedere, da un punto di vista sociologico-filosofico, A. Mochi, Civiltà: i termini di una crisi, Roma, Ed. l’Universale, 1947; ed in particolare ora A.V. Levontin, The Myth of International Security, Jerusalem, Magnes Press, Hebrew University, 1957, d’importanza à nostro avviso eccezionalissima per una radicale negazione della «giuridicità» del cosiddetto «diritto internazionale».
[2] Si veda anche, e soprattutto, l’articolo di A. Spinelli, La ricostruzione europea secondo il Piano americano, «Il Ponte», marzo 1948.
[3] Come si ricorderà, l’originario programma degli aiuti all’Europa comprendeva anche i Paesi satelliti, che Stalin peraltro costrinse, com’era naturale, al rifiuto. Tergiversò la Cecoslovacchia, e Masarik ci rimise la buccia.
[4] Secondo una formula proposta dal citato Mackay, deputato laburista britannico federalista (ma… «una rondine non fa primavera»), e approvata dall’Assemblea.
[5] L’opuscolo s’intitola European Unity. Assai interessante, come confutazione di esso dal punto di vista federalista, è un pamphlet di A. Philip, L’unité européenne: réponse à l’exécutif du parti travailliste, pubblicato, anch’esso nel 1950, dal «Mouvement socialiste pour les Etats Units d’Europe», a Parigi. (Del resto l’impostazione «conservatrice» del problema non è molto diversa: si veda il numero speciale dedicato ai problemi dell’unificazione europea di «Twentieth Century» del settembre 1952.
[6] Sul problema centrale, invece, per quel contrasto che si diceva fra concezioni diverse — «funzionalista»e «istituzionalista» — l’Assemblea non ha mai potuto esprimere una qualsiasi indicazione politica concreta; neppure, paradossalmente, quando, al tempo della CED e della Comunità politica, i Governi dei Sei, una volta tanto, la consultarono, sperando di averne forza e incoraggiamento — e non ne ebbero che dei ni (si veda la cronaca che nelle successive sessioni di questa e delle altre due Assemblee Europee abbiamo via via pubblicato in «Europa Federata», «Popolo Europeo» ed ora anche «Comuni d’Europa»).
[7] Quest’ultimo ribattezzato poi pomposamente «Comitato Permanente per gli Armamenti». Sull’uno e sull’altro si veda un mio articolo in «Europa Federata» del gennaio 1955.
[8] Rimandando per più ampi sviluppi al nostro saggio, ciclostilato presso il M.F.E., I trattati del MEC e dell’Euratom visti da un federalista, parte I e II, 1958-59. Per una generale e acuta conferma sociologica della tesi che noi invece svolgiamo prevalentemente dal punto di vista politico e giuridico, è da vedersi ora anche E.B. Haas, Uniting Europe, London, Stevens, 1958.
[9] Sono interessanti in proposito due articoli, rispettivamente in «Le Monde» del 17 maggio e del 22-24 giugno e in «Politique étrangère» del dicembre 1957. Si veda anche la n. 20 e infra.
[10] Argomenti questi che, nell’ordine di idee che stiamo svolgendo, hanno un’importanza molto maggiore che non la discussione del problema se, nel caso particolare, il piano proposto dall’Alta Autorità non peccasse di eccesso di dirigismo e di autarchia, e non tendesse perciò a perpetuare le difficoltà, e a mantenere in vita miniere belghe «decotte», piuttosto che a predisporre mezzi efficaci per vincerle: giacché la questione decisiva è qui solo che ci sia una politica comunitaria, quale che essa poi sia per essere. E se poi essa ci fosse — se ci fosse davvero, intendiamo dire —, espressa, come non potrebbe non essere, da una democrazia europea, e non da «funzionari europei» senza alcuna responsabilità politica — sarebbe certamente diversa da quella suggerita dai membri di un’Alta Autorità ormai completamente esautorata.
[11] Molto moderato, ma, letto fra le righe, di interesse anche politico, è l’esaurientissimo volume di vari autori L’Euratom, analyse et commentaires du Traité, Bruxelles, Librairie Encyclopédique, 1958.
[12] A proposito della quale basterà ricordare di sfuggita la tesi di molti europeisti ufficiali che giudicano la Z.L.S. solo come un tentativo inglese di sabotaggio e di paralisi, attraverso una proposta quasi irrealizzabile, della «sovranazionalità» del Mercato Comune: cioè nello stesso modo in cui i federalisti giudicavano l’UEO (allora — è curioso ricordarlo — pienamente, apprezzata dai sullodati europeisti ufficiali) nei confronti della CED. Questa intenzione inglese è più che evidente (e del resto naturale, dati i trade diverting effects, che il Mercato Comune produrrebbe, se si realizzasse, anche a danno dell’economia britannica); ma quel giudizio non può esser condiviso, e non solo perché il Mercato Comune appare altrettanto irrealizzabile quanto la Z.L.S., ma anche perché, di fronte all’impostazione abbastanza accentuatamente autarchica di quello (si vedano le disposizioni relative alla tariffa doganale esterna unica, che sarà la massima consentita dal GATT), la Z.L.S., per quanto spuri siano i moventi reali di chi l’ha proposta, finisce per farsi apprezzare. La «discriminazione», gli effetti distorsivi impliciti in ogni unione doganale, specie se ristretta, (di cui il Meade ed il Viner hanno sottolineato in sede scientifica tutta l’importanza) sarebbero infatti giustificabili solo se avessero come contropartita una solida ed irreversibile struttura comunitaria: il che per il M.C. è lungi dall’essere vero (si veda ulteriormente in argomento l’articolo Libre échange… sans la zone nella «Revue du Marché Commun» dell’aprile 1958).
[13] Particolarmente importante in proposito un articolo di A. Spinelli in «Europa Federata» del 15 luglio 1950.
[14] Si veda in argomento Junius (L. Einaudi), Punti fermi federalisti, Roma, M.F.E., 1952.
[15] Tl. Geiger and H. van B. Cleveland, Making Western Union Defensible (n. 74 dei «Planning Pamphlets» della «National Planning Association» americana), Washington 1951.
[16] In questo senso un saggio di A. Garosci, nel citato volumetto Europa in cantiere, Roma, M.F.E., 1952, nonché il mio Cos’è la C.E.D. e perché deve essere ratificata, Roma, M.F.E., 1954.
[17] La morte della C.P.E. allo stato di semplice progetto ha impedito alla pubblicistica di definirne criticamente i caratteri e la natura. E’ perciò un vero peccato che l’unico studio profondo ed esauriente in tal senso, scritto dal Dott. U. Gori di Firenze e premiato in un concorso indetto a quell’epoca dal M.F.E. sull’argomento, sia rimasto inedito e giaccia dimenticato negli archivi del Movimento. Tale scritto giungeva anch’esso, sia pure attraverso un altro ordine d’idee, alla conclusione negativa che si enuncia nel testo. (Si vedano anche, in senso analogo, alcuni brillanti articoli di E. Rossi sulla CED e sulla C.P.E., apparsi nel «Mondo» ed ora ripubblicati nel volume dello stesso autore Aria fritta, Bari, Laterza, 1956).
[18] Così schematizzato il ragionamento appare forse sibillino a chi lo senta enunziare per la prima volta, ma un esempio basterà a chiarirlo. Di una legge ordinaria dello Stato italiano, può darsi «dimostrazione giuridica»: cioè può provarsi che essa è legittimamente legge, in quanto è stata proposta, discussa, approvata, pubblicata, ecc., secondo le norme e i procedimenti stabiliti dalla Costituzione. Ma delle norme della Costituzione stessa non può darsi «dimostrazione» giuridica. L’ordinamento italiano è dunque originario — è, politicamente, uno «Stato». Viceversa lo statuto della regione siciliana, o trentina, ammette una dimostrazione giuridica, giacché esso in tanto esiste ed ha vigore, in quanto stabilito in una legge dello Stato italiano, emanata nei modi e nelle forme volute dalla Costituzione. Dunque l’ordinamento della Regione siciliana non è originale; e lo stesso vale, pur con differenze quantitative notevolissime, per l’ordinamento giuridico dello Stato-membro di una federazione: che pertanto anch’esso non è uno Stato, ma una semplice circoscrizione amministrativa, sempre che si tenga ferma — come, per chiarezza terminologica si deve fare — la premessa che uno dei caratteri distintivi e sine qua non dello Stato è l’originarietà del suo ordinamento giuridico.
Si applichi ora questo schema logico al caso in esame: gli «statuti» delle comunità «sovranazionali» non sono costituzioni autonome: sono contenuti in trattati conclusi dagli Stati membri, le «Alte Parti Contraenti», come tutti i trattati di questo mondo, e sono solo parti di questi; ammettono dunque dimostrazioni giuridiche; e sono pertanto gli Stati che restano al di sopra delle comunità e anche giuridicamente le condizionano (in modo assolutamente analogo a quanto avviene per tutte le «unioni istituzionalizzate» dall’ONU, all’OECE, all’UEO). Gli ordinamenti statali restano dunque originari (cioè gli Stati restano sovrani). Questa impostazione del problema ha il vantaggio, ci sembra, di eliminare gli equivoci relativi alla «cessione di una parte della sovranità», stabilendo in modo drastico, e una volta per tutte, che tale espressione è un non-senso, e che tra ordinamento originario e ordinamento derivato tertium non datur.
[19] Se la Commissione o uno Stato — prevedono i due Trattati di Roma (e analogamente il trattato CECA) — accusano un altro Stato davanti alla Corte di Giustizia di aver mancato agli obblighi del trattato, la Corte può riconoscere che lo Stato in questione è effettivamente incorso in tale mancanza, ed è per questo «tenuto» a conformarsi a tali obblighi: nulla di più. Disposizione analoga a quella prevista dal Codice Civile dello Stato di Bengodi, il quale stabiliva che i debitori erano tenuti a risarcire i loro creditori, senza peraltro predisporre né alcuna procedura giuridica, né alcuna organizzazione di polizia che consentisse in concreto di escutere gl’insolventi (nel che appunto, nell’elemento della «coazione», sta, in fondo, l’essenza del diritto, ciò che lo distingue dalla morale e dal costume).
[20] Su questo aspetto della questione, l’assenza di una forza sociologica autonoma delle Comunità (che solo una democrazia europea potrebbe esprimere) capace di contrapporsi validamente al peso schiacciante degli «Stati-nazione» e degli interessi sezionali che tirano i fili dei loro governi (tema quest’ultimo su cui è particolarmente illuminante l’articolo di F. Perroux, citato alla nota 1), accenniamo qui solo di sfuggita, sia perché su di esso abbiamo a lungo disquisito nella seconda parte del citato saggio sui Trattati del M.E.C. e dell’Euratom visti da un federalista (pp. 167-301); sia e soprattutto perché la relativa «fenomenologia» è stata svolta, e nella forma più minuziosa e convincente, e da una fonte quasi ufficiale, nei monumentali (e interessantissimi) sette volumi degli Actes Officiels du Congrès International d’Etudes sur la CECA (Milano, Giuffré, 1957-9), e segnatamente nelle relazioni del De Visscher (vol. II) e soprattutto del Reuter (vol. V). E i fatti del resto — si veda la precedente citazione dal «Monde» — parlano ancora più eloquentemente nello stesso senso.
Invece, quanto alla critica giuridica che svolgiamo nel testo, e alla riduzione del concetto di Comunità sovranazionale a quello di Unione internazionale istituzionalizzata, sono particolarmente vicini al nostro punto di vista due fondamentali articoli pubblicati nella «Zeitschrift für ausländisches öffentliches Recht und Völkerrecht» (Band 14, 1952-52): il primo di H. Mosler (Der Vertrag über die EGKS: Entstehung und Qualifisierung); il secondo di G. Jaenicke (Die EGKS - Montanunion: Struktur und Funktion ihrer Organe), oltre, naturalmente, ai già citati Actes Officiels du Congrès International d’Etudes sur la CECA.
[21] Insuperato, nello svolgere diligentemente — staremmo per dire «onestamente» data la sostanziale ingenuità politica dell’autore — questa funzione, resta il volume di N. Catalano, La Comunità Economica Europea e l’Euratom, Milano, Giuffré, 1957.
[22] Per la debolezza delle forze che li sostenevano, e, come si è detto precedentemente, per la ancor maggiore debolezza di una tradizione culturale federalista in cui quelle potessero riconoscersi ed appoggiarsi.

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