IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXXVIII, 1996, Numero 2, Pagina 134

 

  

INTERNAZIONALISMO E EDUCAZIONE*
 
 
Il Novecento: uno sguardo complessivo.
 
Vorrei aprire questa conversazione indicando anzitutto alcune ragioni per le quali ritengo sia importante oggi, nell’ottica dell’educazione, misurarsi con problematiche connesse all’internazionalismo.
Le ragioni principali stanno in alcune caratteristiche della società contemporanea, che credo valga la pena di richiamare, tenuto conto che i fini dell’educazione sono posti dalla società — per dirla con Piaget sia «in modo spontaneo attraverso le costrizioni del linguaggio, degli usi, dei modi di pensare, della famiglia, delle condizioni economiche, ecc.», sia «in modo riflesso attraverso gli organi dello Stato o di particolari istituzioni».[1]
A questo proposito, senza riprendere le diverse analisi disponibili, mi limiterò a richiamare, perché lo ritengo particolarmente efficace, il bilancio tracciato da Eric Hobsbawm nel suo libro Il secolo breve.
«Tra il 1914 e i primi anni ’90 — egli scrive — il mondo è diventato un campo operativo unitario assai più di quanto non lo fosse (né potesse esserlo) nel 1914. In effetti, per molti scopi, soprattutto negli affari economici, il mondo è ora l’unità operativa primaria e le unità più vecchie, come le economie nazionali, definite dalle politiche degli Stati territoriali, si sono ridotte a complicazioni delle attività transnazionali. Lo stadio cui è pervenuta negli anni ‘90 la costruzione del «villaggio globale» — la locuzione fu coniata negli anni ‘60 (MacLuhan, 1962) non sembrerà molto avanzato agli osservatori che vivranno a metà del XXI secolo, ma esso ha già trasformato non solo certe attività tecniche ed economiche e le modalità operative della scienza, ma anche aspetti importanti della vita privata, soprattutto grazie alla inimmaginabile accelerazione nel settore delle comunicazioni e dei trasporti».[2]
Il primo elemento caratterizzante del nostro secolo è dunque l’intensificarsi dell’interdipendenza a livello mondiale, che ha trasformato in modo radicale economia, scienza, tecnica e vita privata.
Ma, accanto a questo elemento, e ad esso strettamente connesso, Hobsbawm ne scorge un altro: quello costituito dal problema della gestione a livello politico mondiale di questi processi.
«Forse — egli infatti prosegue — la caratteristica più impressionante della fine del XX secolo è la tensione che sussiste tra questo processo sempre più accelerato di globalizzazione e l’incapacità delle istituzioni pubbliche e dei comportamenti collettivi degli esseri umani di accordarsi ad esso. E’ un fatto abbastanza curioso che il comportamento privato degli uomini abbia faticato molto meno della loro condotta pubblica ad adattarsi al mondo della televisione satellitare, della posta elettronica, delle vacanze alle Seychelles e del pendolarismo transoceanico».[3]
Ed è una tensione, questa, resa anche più drammatica da un altro elemento che, secondo Hobsbawm, caratterizza il nostro secolo: «la disintegrazione dei vecchi modelli delle relazioni umane e sociali, da cui deriva anche la rottura dei legami tra le generazioni, vale a dire tra il passato e il presente», disintegrazione che risulta «particolarmente evidente nei paesi più sviluppati del capitalismo occidentale, nei quali i valori di un individualismo asociale assoluto sono stati dominanti sia nelle ideologie ufficiali, sia in quelle non ufficiali, sebbene coloro che li sostengono spesso ne deplorino le conseguenze sociali», ma che si può «riscontrare anche in altri paesi», dove è rafforzata «dallo sgretolamento delle società e delle religioni tradizionali, come anche dalla distruzione, o autodistruzione, delle società del ‘socialismo reale’».[4]
Se questi sono alcuni tra gli elementi fondamentali che caratterizzano il nostro secolo, che lo fanno diverso dalle epoche precedenti, e se, come detto, la società determina i fini dell’educazione, si capisce come non si possa oggi occuparsi dei problemi dell’educazione medesima e dei suoi valori di riferimento senza misurarsi con le tematiche connesse al processo della globalizzazione e al problema della costruzione di istituzioni pubbliche e di comportamenti collettivi adeguati a questo processo e quindi in grado di governarlo.
In questa prospettiva può essere utile per noi richiamare brevemente il pensiero di alcuni pedagogisti del nostro secolo sull’internazionalismo.
 
La coscienza delle trasformazioni storiche e delle loro relazioni con la filosofia dell’educazione in Dewey.
 
Abbiamo, citando Hobsbawm, fatto riferimento a una data, il 1914, come limite dal quale prendere le mosse per considerare lo specifico del nostro secolo. E infatti tutti noi sappiamo che è già la prima guerra mondiale a segnalare — drammaticamente ma in modo molto evidente — questo processo di globalizzazione.
Non è un caso infatti che già da essa emerga l’esigenza di uno strumento politico atto a dirimere le controversie internazionali con metodi pacifici e democratici, esigenza concretatasi nella Società delle Nazioni. E ciò indipendentemente dal fatto che questa sia stata fin dal principio priva di reale significato a causa del rifiuto degli USA di aderirvi e si sia dimostrata poi un fallimento quasi totale. Non mi propongo certo qui di ripercorrere, né di offrire interpretazioni degli eventi storici del Novecento; ho citato questi elementi, sottolineandone la presenza già negli anni della prima guerra mondiale, perché è proprio a partire da quegli anni, probabilmente sotto l’impressione prodotta dagli eventi bellici, che, a livello di pedagogia e di proposte educative, emerge in vari autori una chiara consapevolezza delle specificità dell’epoca rispetto alle precedenti, e conseguentemente si afferma con forza in ambito educativo una prospettiva internazionalista, spesso connessa con ideali pacifisti.
E’ Dewey, ritengo, il pensatore che, più di ogni altro in quegli anni, esprime questa coscienza della stretta connessione che lega la prospettiva internazionalista al concetto dell’educazione del XX secolo.
In Democrazia ed educazione giunge a questa consapevolezza sia attraverso un’analisi del mondo contemporaneo, sia attraverso la considerazione di teorie educative del passato.
A questo proposito Dewey considera in particolare tre epoche, per il grande rilievo che in esse ebbe il significato sociale dell’educazione. La prima è quella che corrisponde al pensiero di Platone; nella filosofia platonica è presente, secondo Dewey, un’intuizione pedagogica fondamentale, «il riconoscimento più adeguato… del significato educativo dell’ordinamento sociale e… della dipendenza di questo dai mezzi usati per educare i giovani»;[5] tuttavia Platone non riesce, a causa dell’influsso sul suo pensiero delle condizioni della società in cui vive, né a riconoscere «la infinita varietà di tendenze attive e di combinazioni di tendenze di cui è capace un individuo»,[6] né a uscire da una prospettiva statica, una prospettiva cioè secondo la quale «lo scopo finale della vita è fisso».[7]
Dopo questo riferimento alla filosofia platonica, Dewey concentra la propria analisi sugli antecedenti moderni della contemporanea teoria educativa: l’ideale «individualistico» del XVIII secolo e l’ideale nazionale e sociale del XIX secolo.
Secondo Dewey le affermazioni relative alla diversità dei talenti individuali naturali e al bisogno di libero sviluppo dell’individualità, presenti nel XVIII secolo, darebbero solo «un’idea inadeguata del vero significato del movimento», il cui interesse principale starebbe «nel progresso, specialmente nel progresso sociale».[8] Ci troveremmo cioè di fronte a una «filosofia apparentemente asociale», che nella contrapposizione tra natura e società maschererebbe «in maniera piuttosto trasparente un impulso verso una società più vasta e più libera», cioè «verso il cosmopolitismo», una filosofia il cui ideale vero sarebbe «l’umanità». E ciò in quanto «nella partecipazione all’umanità, …distinta dallo Stato, le capacità dell’uomo si sarebbero liberate; mentre nelle organizzazioni politiche esistenti le sue facoltà erano ostacolate e deformate per poter far fronte alle esigenze e agli interessi egoistici dei governanti dello Stato».[9]
E’ l’ingenuità di questa teoria che spiega il passaggio all’ideale nazionale dell’Ottocento: essa infatti, secondo Dewey, con il suo «lasciare semplicemente tutto alla natura»,[10] non poteva non essere destinata a mostrare ben presto la sua debolezza dal punto di vista educativo. A distanza di pochi anni infatti si fece strada la convinzione che se il processo educativo, volto allo «sviluppo completo e armonico di tutte le facoltà» era tanto importante da avere come «contropartita sociale… un’umanità illuminata e progressiva», esso non poteva certo affidarsi a circostanze accidentali, ma «richiedeva un’organizzazione precisa per la sua realizzazione».[11] E tale organizzazione, nel XIX secolo, fu identificata, appunto, nello Stato nazionale, che si sostituì, come ideale, all’umanità; per cui «formare il cittadino, non ‘l’uomo’, divenne lo scopo dell’educazione».[12]
Tutto ciò comportò una sorta di rovesciamento. Scrive infatti Dewey: «Con l’immensa importanza attribuita allo Stato nazionalistico, circondato da altri Stati rivali, più o meno ostili» era impossibile infatti che non si giungesse ad esigere «la subordinazione degli individui agli interessi superiori dello Stato», e a considerare «il processo educativo… come un processo di allenamento alla disciplina piuttosto che di sviluppo personale».[13] E ciò nonostante la filosofia dell’educazione tentasse di conciliare sul piano teorico, facendo ricorso alla concezione del carattere ‘organico’ dello Stato, l’idea di realizzazione completa dell’individuo con l’ideale dello Stato.
Ora, è proprio con la finalità nazionalistica, caratteristica dell’educazione del XIX secolo, secondo Dewey, che deve misurarsi il concetto democratico dell’educazione del XX secolo, per prenderne le distanze e potersi realizzare. Egli scrive: «Uno dei problemi fondamentali dell’educazione nella e per la società democratica è posto dal conflitto fra una finalità nazionalistica ed uno scopo sociale più vasto».[14] Il problema si genera nel momento in cui «lo scopo sociale dell’educazione e il suo scopo nazionale» vengono identificati, perché da ciò risulta «un deciso oscuramento del significato del primo».[15]
D’altra parte Dewey stesso si rende conto che «questa confusione corrisponde all’attuale stato delle relazioni umane», che vede, «da una parte la scienza, il commercio e l’arte» trascendere i confini nazionali e implicare «interdipendenza e cooperazione tra i popoli», e dall’altra «ogni nazione» vivere «in uno stato di ostilità repressa e di guerra incipiente con i suoi vicini».[16]
La teoria dell’educazione nel XX secolo, di fronte a questa contraddizione, deve, secondo Dewey, misurarsi seriamente con l’interrogativo: «E’ possibile che uno Stato nazionale abbia nelle sue mani la scuola senza restringere, deformare e corrompere i veri fini sociali del processo educativo?».[17]
Perché i veri fini sociali del processo educativo non vengano corrotti è necessario che vengano affrontati enormi problemi: «All’interno — scrive Dewey — la questione deve affrontare le tendenze dovute alle condizioni economiche presenti, che dividono la società in classi, alcune delle quali sono fatte meri strumenti per la maggior cultura degli altri. Nelle sue proiezioni esterne la questione riguarda la conciliazione della lealtà nazionale, del patriottismo, con la devozione superiore alle cose che uniscono gli uomini in mire comuni, indipendentemente dai confini politici nazionali».[18]
Per eliminare gli effetti delle ineguaglianze economiche e la chiusura nazionalistica, sono necessari anzitutto poderosi provvedimenti amministrativi; ma anche «modificazioni degli ideali tradizionali della cultura, delle discipline tradizionali di studio e dei metodi tradizionali di insegnamento e di disciplina».[19]
Per quanto riguarda, in particolare, l’insegnamento relativo alle relazioni fra le nazioni, secondo Dewey «non basta insegnare gli orrori della guerra ed evitare tutto ciò che possa stimolare la gelosia e l’ostilità internazionale. Bisogna anche insistere su tutto ciò che unisce i popoli e li proietta verso scopi e risultati comuni al di fuori delle limitazioni geografiche. Si deve inculcare nelle menti come disposizione operante la convinzione del carattere secondario e provvisorio della sovranità nazionale rispetto all’associazione e alle relazioni più complete, più libere e più redditizie fra tutti gli esseri umani».[20]
L’idea democratica «dell’educazione come liberazione delle capacità individuali in un progressivo sviluppo rivolto a scopi sociali» si lega per Dewey strettamente a questi aspetti. Se essi infatti non vengono affrontati, ci dice Dewey, «il criterio democratico di educazione potrà essere applicato solo in maniera incoerente».[21] Esplicitando, potremmo dire che il rilievo dato dalla pedagogia di Dewey all’interesse, alla connessione tra la prassi e la teoria, al metodo dell’indagine, alla ricerca di gruppo, trova un suo pieno significato solo se collegato alla prospettiva di superamento delle chiusure sociali e nazionali.
 
La prospettiva internazionalista in altri pedagogisti ed educatori.
 
Accanto a Dewey, che esprime in modo così chiaro già nel 1916 la consapevolezza del nesso in una società democratica tra educazione e superamento della prospettiva nazionalistica, e dell’esigenza di legare questa finalità all’utilizzo di mezzi — economici, culturali e metodologico-didattici adeguati — potrebbero essere citati molti altri autori, in genere esponenti delle scuole nuove e della pedagogia attivistica, che, a partire da quegli stessi anni e fino al periodo successivo alla seconda guerra mondiale, hanno affrontato la medesima tematica. Io mi limiterò a richiamarne alcuni, in funzione del contributo dato dalle loro posizioni alla focalizzazione di diversi aspetti del problema.
Sempre in ambito statunitense e sulla scia di Dewey, Kilpatrick, affrontando nel 1926 il problema del nazionalismo, lo lega all’anarchismo, affermando a chiare lettere: «Il nazionalismo… ha, come si sa, una storia. La concezione dell’assoluta sovranità nazionale è relativamente nuova nel mondo e in un mondo di sempre crescenti correlazioni è del tutto insostenibile come la teoria dell’assoluta sovranità personale… Proprio come la storia ha convinto il genere umano che le leggi sono necessarie per la più effettiva libertà di ogni persona che viva in relazioni umane con altre persone, così ora, mentre l’integrazione ogni giorno più fa del mondo un tessuto sociale unitario, appare sempre più necessario che la legge debba governare le nazioni. E se è necessaria la coercizione da parte della forza comune per salvare la persona debole dalla ingiustificata prepotenza del più forte, perché non deve avvenire la stessa cosa con le nazioni? Sempre più il mondo vede e capisce che le cose stanno così».[22]
In questa prospettiva si tratta, per Kilpatrick, di trasformare nell’educazione, oltre ai metodi,[23] la visione culturale tradizionale di alcune discipline. Se infatti alla scuola spetta il compito di dare «una visione e una comprensione dei fatti capace di affrontare tali fatti nella loro vera essenza», essa deve far propria «una mentalità mondiale». «E questo implica — secondo Kilpatrick — una nuova storia, una nuova geografia, probabilmente una nuova e più comprensiva scienza sociale. Perché la vecchia storia e la vecchia geografia, con una selettiva distorsione dei fatti, ci rendono incapaci di vedere veramente l’effettiva situazione presente».[24]
Vale la pena di sottolineare che questa importanza attribuita da Kilpatrick alla trasformazione delle discipline storico-sociali viene ribadita anche da altri autori che assumono un’analoga prospettiva contraria al nazionalismo; per citare solo un esempio, possiamo richiamare il nome di Cousinet, che, in Europa e in un momento storico successivo (1943), condannando l’insegnamento tradizionale della storia, rivolto a bambini e preadolescenti, scrive: «C’è la sola preoccupazione di esaltare sempre il sentimento nazionale e di lasciare ignorare ai fanciulli tutti i casi nei quali le genti non appartenenti agli stessi paesi hanno cooperato e lavorato per il bene comune nel commercio, nell’industria, nelle lettere e nelle scienze. Da questo deriva in tutti i popoli l’odio dello straniero che i fanciulli non vedono mai apparire sulla scena della storia se non con le armi in mano».[25]
Altri autori, nella medesima prospettiva di un’educazione internazionalistica, sembrano invece privilegiare, rispetto alla organizzazione dei contenuti, l’analisi di dinamiche più propriamente psico-affettive.
E’ il caso di Pierre Herman Bovet,[26] che, occupandosi dell’educazione civica, prende in considerazione gli istinti umani, e fra questi l’istinto di lotta e l’istinto alla solidarietà; secondo Bovet questi ultimi nell’uomo sono strettamente collegati fra loro, per cui la trasformazione del primo al servizio di ideali di solidarietà — in diverse forme, che vanno dalla canalizzazione alla sublimazione — è possibile e costituisce uno dei compiti principali dell’educazione. Infatti «l’educazione ispirata all’ideale della pace tra i popoli non è altro che l’educazione morale, civica e umana dell’individuo considerato nella sua totalità».[27] «Dalla famiglia al clan, dal clan alla tribù, da quest’ultima alla patria. Chi ci impedisce di spingere ancora più lontano il nostro sguardo e di vedere il momento in cui questa più alta forma del sentimento sociale, la solidarietà, si darà per oggetto non un solo Stato ma l’umanità tutta intera? Dopo la confederazione dei comuni in un cantone, la confederazione dei cantoni in una nazione, la confederazione delle nazioni».[28]
La sottolineatura delle dinamiche affettive è propria anche della Montessori, che, occupandosi del problema della pace, sostiene che, tra «gli istinti occulti che guidano l’uomo nella costruzione di se stesso» e che «l’educazione deve valorizzare» vi sia, «potente, l’istinto sociale».[29] In realtà, «il bambino è incompreso dall’adulto»,[30] che lo reprime. «Una guerra senza tregua… accoglie l’uomo dalla nascita e lo accompagna durante lo sviluppo»,[31] una guerra «fra il forte e il debole», vinta dall’adulto, e «fatale per l’umanità»,[32] perché — secondo la Montessori, che qui sembra riprendere tematiche psicoanalitiche — «l’obbedienza a cui è sottomesso il bambino nella famiglia e nella scuola, obbedienza che non ammette ragione e giustizia, prepara l’uomo ad essere sottomesso per fatalità di cose… apre la via allo spirito di devozione, quasi di idolatria verso i condottieri, che rappresentano per l’uomo rattrappito il padre e il maestro, figure che si imposero al bambino come perfette e infallibili».[33] E la vita di schiavitù dei bambini, che vengono puniti se aiutano i compagni e incoraggiati se li superano e li vincono con l’emulazione, è una educazione che prepara gli uomini alla guerra.
Questi meccanismi psicologici contano molto di più, secondo la Montessori, dei contenuti culturali che vengono insegnati: «Si parli o no di guerra ai bambini, si adatti in un modo o nell’altro la storia dell’umanità ad uso dei fanciulli, ella scrive, ciò non cambia nulla al destino della società».[34] La Montessori, cosciente delle trasformazioni in corso a livello storico nel senso dell’interdipendenza, segnalate anche dalla diversità della guerra nel mondo contemporaneo, ritiene fondamentale siano accompagnate da un progresso sul piano interiore nella direzione della sanità psichica e della felicità; perché «un’unione di uomini inariditi e isolati non è una società, non può essere una società fertile di nessun progresso morale, di nessuna elevazione umana».[35] Per costruire una «scienza della pace» — in definitiva — occorre far leva su due realtà: «L’una è che esiste un bambino nuovo… l’altra è che oggi l’umanità costituisce sotto molti aspetti una nazione unica… sia dal punto di vista economico, che dal punto di vista materiale e intellettuale».[36] E in questa chiave è centrale il compito di un’educazione che valorizzi il bambino: «L’uomo che oggi è travolto dal suo tempo deve diventarne dominatore. Quando gli uomini fossero preparati allo stato della vita presente, invece di venir trascinati dagli avvenimenti, potrebbero essi stessi dirigerli in modo che l’umanità, anziché precipitare da una malattia all’altra, da una crisi all’altra, sarebbe avviata alla conquista della salute sociale».[37]
A dinamiche di tipo psicologico, ma più focalizzate sullo sviluppo cognitivo, si riferisce anche Claparède in un saggio del 1937, laddove, riferendosi allo sviluppo sociale dell’individuo descritto da Piaget, paragona il nazionalismo all’egocentrismo infantile e l’internazionalismo al livello di sviluppo mentale superiore, costituito dal pensiero socializzato, e sostiene che «l’attuale disadattamento nelle relazioni internazionali è imputabile ad uno stato di infantilismo per ritardo di crescita».[38] A suo parere, «solo educando le nuove generazioni, si potranno modificare questi sentimenti», e per questa educazione egli avanza delle proposte: è «necessario che il fanciullo faccia l’esperienza personale di questi sentimenti internazionali, per esempio attraverso corrispondenze interscolastiche e campi internazionali di vacanze».[39]
Ed è proprio Piaget l’ultimo autore che intendo considerare, in quanto ritengo che le analisi da lui condotte siano estremamente profonde e interessanti. Piaget, ponendosi, dopo la seconda guerra mondiale, il problema dell’educazione internazionale, ci fa notare che, dal punto di vista delle operazioni mentali implicate, «la realtà sociale in generale, e particolarmente la realtà sociale internazionale attuale sono tra le cose che noi comprendiamo meno»;[40] e questo perché «i fenomeni colletti vi hanno mutato scala e il piano su cui si producono è quello di una completa interdipendenza», «uno stato di cose che in verità noi non riusciamo ad assimilare, a cui noi non siamo ancora avvezzi».[41] E’ con queste difficoltà di comprensione, che sono sia di tipo intellettuale, sia di tipo morale, che deve fare i conti l’educazione. Essa non deve solo offrire al bambino «alcune conoscenze nuove sulle realtà e le istituzioni internazionali», ma soprattutto deve favorire «un atteggiamento sui generis, uno strumento di coordinazione di natura intellettuale e insieme morale, valevole a tutti i gradi e adattabile anche ai problemi internazionali».[42]
Questo atteggiamento tuttavia trova un ostacolo fondamentale in un altro atteggiamento, il «più spontaneo e meno sradicabile di ogni coscienza individuale come di ogni coscienza collettiva… l’egocentrismo… e il sociocentrismo».[43] Se il pensiero rivolto alla realtà naturale è riuscito a liberarsi dall’egocentrismo in secoli di fatica, come ci dimostra lo sviluppo della scienza, «dal punto di vista sociale… la decentrazione dell’io, del noi, o dei loro simboli e dei loro territori, è ancora ostacolata da impedimenti assai più numerosi»… «l’egocentrismo nazionale, l’egocentrismo di classe, l’egocentrismo razziale e tante altre forme più o meno possenti si dividono il nostro spirito e gli impongono tutta una gamma di errori che vanno dalla semplice illusione di prospettiva fino alla menzogna dovuta alle costrizioni collettive».[44]
Per un’educazione internazionale non basta dunque aggiungere un insegnamento relativo alle istituzioni internazionali. Occorre in primo luogo «rendere internazionale tutto intero l’insegnamento: non solo quello della storia, della geografia e delle lingue vive, discipline in cui l’interdipendenza delle nazioni salta agli occhi anche del più cieco — scrive Piaget —; ma anche quello della letteratura e della scienze»;[45] in questo modo potremo sperare di pervenire alla comprensione e alla tolleranza.
In secondo luogo occorre utilizzare metodi attivi, «che mettano al primo posto la ricerca in comune (lavoro di gruppo)… e la vita sociale degli allievi (autogoverno)»: e ciò da un lato perché le esperienze sociali fanno scoprire direttamente quegli «stessi conflitti di reciprocità» e quelle «stesse incomprensioni» di cui «la vita internazionale è il teatro, su tutt’altra scala naturalmente»; dall’altro perché «organizzando una vita sociale tra gli allievi stessi, diviene possibile estenderla istituendo scambi internazionali ed anche gruppi di studio che abbiano per oggetto problemi internazionali».[46]
 
Dai movimenti pedagogici internazionali alle Istituzioni internazionali per l’educazione.
 
Gli autori considerati, come già detto, non sono gli unici a occuparsi del problema dell’educazione internazionale: essi certo sono particolarmente significativi per le analisi condotte; ma sono significativi anche perché in vari casi si fecero promotori o parteciparono attivamente ad associazioni o movimenti con prospettive internazionali in campo educativo. Tra i vari movimenti, istituti e associazioni — il cui elenco risulterebbe qui poco significativo e necessariamente incompleto — vorrei limitarmi a ricordare, per la sua importanza e influenza, il Bureau International d’Education, fondato nel 1925 nell’ambito dell’Istituto «Jean Jacques Rousseau» di Ginevra, del quale due tra gli autori citati — Bovet e Piaget — furono direttori.
Il BIE fu fondato come reazione all’esclusione delle questioni di ordine pedagogico dall’area di azione della Società delle Nazioni, esclusione dovuta all’opposizione esplicita che molti ambienti intellettuali avevano fatto, sotto il pretesto della sovranità nazionale, a qualsiasi forma di collaborazione internazionale in materia di educazione (non dobbiamo infatti dimenticare che in ambito pedagogico nel Novecento non esistono solo orientamenti internazionalisti).
Il BIE, nato come istituzione privata, dopo aver organizzato vari congressi, modificò nel 1929 la propria struttura al fine di poter accogliere come membri governi o ministeri della pubblica istruzione. Iniziò così, in occasione delle assemblee annuali del suo Consiglio, ad organizzare la discussione dei Rapporti generali dei ministeri della pubblica istruzione nel Consiglio stesso rappresentati. In questo modo ebbero origine, a partire dal 1932, le Conferenze internazionali dell’istruzione pubblica, che dal 1934, per l’intermediazione del governo svizzero, furono aperte a tutti i paesi, membri e non membri del Bureau.
Dopo la seconda guerra mondiale, sparita l’opposizione alla collaborazione internazionale in tema di educazione, anzi, fattasi strada la convinzione della necessità della collaborazione internazionale, si è costituita, sotto l’egida delle Nazioni Unite, l’Unesco (Organizzazione nelle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura) che ha subito istituito strette relazioni col BIE, al punto che le Conferenze internazionali dell’istruzione pubblica, dalle quali, come è noto, sono uscite importanti «raccomandazioni» sul tema dell’educazione, sono state organizzate in collaborazione tra i due istituti. Il BIE, alla fine del mandato di Piaget e di Pedro Rossello, pur continuando a mantenere una propria autonomia intellettuale, è stato incorporato dall’Unesco nella propria struttura generale.
L’Unesco, oltre a svolgere un’opera importante per quanto attiene l’alfabetizzazione e l’istruzione nei paesi in via di sviluppo, ha fatto propri ed ha concorso a realizzare vari progetti, coerenti con le proposte dei pedagogisti citati, relativi all’educazione in prospettiva internazionalista. Mi limiterò qui a citare due realizzazioni.
Anzitutto, per quanto riguarda l’esigenza di una trasformazione in senso internazionale della cultura, in particolare delle discipline storico-sociali, vorrei ricordare la Storia dello sviluppo scientifico e culturale dell’umanità,[47] progettata originariamente da Julian Huxley, direttore generale dell’Unesco, portata poi avanti con un’ampia cooperazione intellettuale internazionale, e pubblicata, appunto, da parte dell’Unesco.
In secondo luogo vorrei ricordare, in quanto azione volta direttamente ad incidere sulla pratica dell’insegnamento, la creazione nel 1953 del sistema delle Scuole associate all’Unesco, scuole che integrano le proprie attività curriculari con altre inserite in piani di studio per la promozione di una educazione tesa a favorire la comprensione internazionale.[48]
 
La situazione attuale. Limiti e prospettive.
 
L’opera dell’Unesco è senz’altro molto importante e rappresenta, tra le altre cose, un tentativo di dare concretizzazione ad alcuni dei principi e degli obiettivi enunciati dai pedagogisti che abbiamo citato e uno sforzo importante nella direzione della cooperazione intellettuale internazionale. Essa tuttavia presenta, dal punto di vista dell’efficacia, alcuni limiti che credo siano chiari a qualsiasi persona che, come noi, operi nel campo dell’insegnamento. Il limite principale si scopre immediatamente nel momento in cui ci si chiede quanto le due imprese citate — la Storia dello sviluppo scientifico e culturale dell’umanità e il sistema delle Scuole associate — siano conosciute tra gli insegnanti.
C’è un’evidente scollatura tra l’Unesco e chi direttamente opera nel campo educativo, una scollatura dovuta forse al fatto che gli incontri internazionali favoriti dall’Unesco, passando per il tramite dei governi, sono di fatto incontri tra ministeri.
C’è di più. Questa difficoltà di rapporto esiste, in larga misura, anche per quanto riguarda gli esperti. Essa veniva già segnalata nel 1965 da Piaget, quando sosteneva, per la realizzazione delle finalità dell’Unesco, la necessità di «un dialogo continuato e organizzato» non solo tra governi, ma anche tra esperti, e di «un gioco di spola»[49] tra questi due gruppi e il gruppo degli insegnanti e delle loro associazioni. E se la difficoltà di dialogo è deleteria per i fini dell’Unesco, essa lo è, credo, anche dagli altri punti di vista, dal punto di vista cioè della ricerca pedagogica e da quello dell’azione educativa.
In effetti, se si prendono in considerazione le ricerche pedagogiche della seconda metà del Novecento — quelle stesse che arrivano agli insegnanti sotto forma di orientamenti per l’insegnamento offerti in manuali o riviste di didattica, corsi di formazione o concorsi — credo che in esse si possa notare la tendenza, oltre a specializzarsi in diverse branche, a concentrarsi più sugli aspetti operativi e concreti dell’azione didattica che sui grandi problemi dibattuti nella prima metà del secolo.
Certo, i problemi minuti e concreti della pratica didattica hanno una grande importanza; ma le varie proposte di soluzione rischiano, se si perdono di vista i loro nessi con i problemi generali — come potrebbe essere ad esempio quello della prospettiva internazionalista dell’educazione, ovviamente aggiornata rispetto alla prima metà del secolo — di svuotarsi di significato e di non approdare pertanto ad alcun reale rinnovamento educativo. Piaget scriveva: «Soltanto quando si sarà instaurato un dialogo a tre interlocutori, le correnti scientifiche, le autorità e i veri protagonisti, si potrà parlare di una collaborazione internazionale abbastanza completa nel settore dell’educazione».[50]
Io vorrei aggiungere che forse potrebbe esser proprio questo «dialogo a tre» a favorire una ripresa di temi forti, tali da dare un orientamento di più ampio respiro alle ricerche pedagogiche, e da far riscoprire agli insegnanti tutto il senso della loro azione.
 
Silvia Sandrini


* Si tratta del testo di una relazione al Corso di aggiornamento per insegnanti su «Nazionalismo, internazionalismo e federalismo», tenutosi a Ventotene nei giorni 4/6 settembre 1996, organizzato dall’ARIFS (Associazione per ricerca e insegnamento di filosofia e storia) in collaborazione con la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Torino e con l’Istituto Altiero Spinelli di Pavia.
[1] Jean Piaget, Psicologia e pedagogia, Torino, Loescher, 1970, p. 17.
[2] Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, Milano, Rizzoli, 1995, p. 28.
[3] Ibidem, p. 28.
[4] Ibidem, pp. 28-9.
[5] John Dewey, Democrazia e educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1992, p. 135.
[6] Ibidem, p. 136.
[7] Ibidem, p. 137. Altri passi del medesimo paragrafo di Democrazia e educazione precisano ulteriormente l’interpretazione deweyana di Platone: «Mancando la percezione della singolarità di ogni individuo — scrive Dewey — della sua incommensurabilità con gli altri e per conseguenza non riconoscendo che una società può cambiare pur rimanendo stabile, la sua dottrina delle facoltà e delle classi limitate sfociò in sostanza nell’idea della subordinazione dell’individualità» (p. 136). E ancora: «Egli pensava che il cambiamento o l’alterazione fossero testimonianza di un flusso sregolato; che la vera realtà fosse inalterabile. Perciò egli avrebbe voluto cambiare radicalmente lo stato esistente della società, ma solo per costruire uno Stato in cui in seguito non ci fosse posto per i mutamenti» (p. 137).
[8] Ibidem, pp. 137-8.
[9] Ibidem, p. 138.
[10] Ibidem, p. 139.
[11] Ibidem, p. 139.
[12] Ibidem, p. 140.
[13] Ibidem, pp. 140-1.
[14] Ibidem, p. 143.
[15] Ibidem, p. 143.
[16] Ibidem, p. 143.
[17] Ibidem, p. 144.
[18] Ibidem, p. 144.
[19] Ibidem, p. 144.
[20] Ibidem, pp. 144-5.
[21] Ibidem, p. 145.
[22] William Haerd Kilpatrick, Educazione per una civiltà in cammino, Firenze, La Nuova Italia, 1960, pp. 50-1.
[23] A proposito di W. H. Kilpatrick, ricordiamo il «metodo dei progetti», illustrato nei Fondamenti del metodo, Firenze, La Nuova Italia, 1962.
[24] W.H. Kilpatrick, Educazione per una civiltà in cammino, cit., pp. 51-2.
[25] Roger Cousinet, Un metodo di lavoro libero per gruppi, Firenze, La Nuova Italia, 1970, p. 51.
[26] Bovet, nato in Svizzera nel 1878 e morto nel 1965, fu collaboratore di Claparède, direttore dell’Istituto «Jean Jacques Rousseau» di Ginevra e fondatore nel 1925 del Bureau International de l’Education, che diresse fino al 1929.
[27] Pierre Herman Bovet, L’istinto combattivo, Firenze, La Nuova Italia, 1964, p. 238.
[28] Dal saggio «Alcuni problemi psicologici dell’educazione alla pace», contenuto nel volume La paix par l’école, lavori della Conferenza internazionale tenuta a Praga dal 16 al 20 aprile 1927, Parigi, Flammarion, 1927 (trad. it., Giovanni Genovesi (a cura di), Alcuni contributi per l’educazione alla pace, Parma, Ed. Universitaria Casanova, s.d., p. 32).
[29] G. Galeazzi (a cura di), ‘Educazione e pace’ di Maria Montessori e la pedagogia della pace nel ‘900, Torino, Paravia, 1992, p. 68.
[30] Ibidem, p. 68.
[31] Ibidem, p. 57.
[32] Ibidem, p. 59.
[33] Ibidem, p. 61.
[34] Ibidem, p. 60.
[35] Ibidem, p. 77.
[36] Ibidem, p. 94.
[37] Ibidem, p. 96.
[38] Edouard Claparède, Psychologie de la Compréhension internationale, Actes du XI Congrès international de psychologie (trad. it., Sante Bucci, «Educazione alla pace e comprensione internazionale: il contributo di Edouard Claparède», in Prospettive EP, 1980, p. 112).
[39] Ibidem, pp. 115-6.
[40] Jean Piaget, Il diritto all’educazione nel mondo attuale, Milano, Comunità, 1951, p. 80.
[41] Ibidem, p. 80.
[42] Ibidem, p. 82.
[43] Ibidem, pp. 82-3.
[44] Ibidem, p. 85.
[45] Ibidem, p. 85.
[46] Ibidem, p. 86.
[47] Il progetto di questa storia, che corrispondeva inizialmente alle concezioni di Julian Huxley, allora direttore generale dell’Unesco, fu adottato a Firenze nel 1950 sulla base di un compromesso, atto a evitare qualsiasi privilegiamento, da parte dell’organizzazione, di particolari visioni filosofiche: ciascun volume fu affidato a un autore il cui valore fosse riconosciuto e comunque tutto il lavoro preparatorio fu oggetto, tramite commissioni nazionali, di un’ampia consultazione. Per una ricostruzione della storia e per l’esame di alcune delle realizzazioni dell’Unesco, può essere utile la lettura di Dans l’esprit des hommes, Unesco, 1946-1971.
[48] In Italia l’esperienza ha avuto inizio nel 1967 e vi hanno aderito scuole di ogni ordine e grado. Le richieste di associazione si effettuano sulla base della C.M. N. 119 del 1983. L’esperienza della Scuole associate è importante e innovativa, ma poco conosciuta. Su di essa si può vedere: B. M. Padolecchia Goodrich, «Le Scuole associate all’Unesco: un’esperienza da valorizzare», in Annali della Pubblica Istruzione, gennaio-febbraio 1987.
[49] Jean Piaget, Psicologia e pedagogia, Torino, Loescher, 1970, p. 114.
[50] Ibidem, p. 115.

 

 

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