IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXVI, 1984, Numero 1, Pagina 80

 

 

ALBERT EINSTEIN
 
 
Il federalismo ha ormai una lunga storia e una ricca tradizione culturale. Ma questa tradizione è largamente ignorata perché non si inquadra perfettamente negli schemi concettuali della cultura dominante, basata sulla accettazione inconsapevole della sovranità nazionale, e di conseguenza della guerra, come caratteristica inevitabile della realtà storica. Questo è il motivo per cui alcuni autori federalisti sono ora completamente dimenticati, mentre altri sono ricordati unicamente per la parte delle loro opere che non ha nulla a che fare col federalismo.
Questa sezione de Il Federalista si propone di riaffermare il valore di questa tradizione, sottoponendo all’attenzione dei lettori brevi scelte di passi tratti dalle opere di autori federalisti dimenticati o dalle opere federaliste dimenticate di note figure del mondo della cultura del passato.
Cominciamo con una di queste ultime, e non certo delle minori: Albert Einstein.
Einstein fu un infaticabile combattente per la pace. Egli fu sempre profondamente consapevole che pace e sovranità nazionale sono due termini incompatibili e che una lotta per la pace non può aver successo senza un radicale mutamento culturale. In un telegramma inviato il 23 maggio 1946 a parecchie centinaia di personalità americane per chiedere contributi a nome del Comitato d’Emergenza degli Scienziati Atomici, egli scriveva: « La liberazione della potenza dell’atomo ha cambiato ogni cosa fuorché il nostro modo di pensare, e così noi siamo trascinati verso una catastrofe senza precedenti ».
Il mondo non ha raccolto l’ammonimento di Einstein; le sue parole sono rimaste inascoltate sia dai politici, sia dagli intellettuali, sia dalla maggior parte degli uomini.
A O. Nathan ed a H. Norden va attribuito il merito di aver pazientemente raccolto e presentato gli scritti di Einstein testimonianti la sua attività a favore della pace.[1] Nella introduzione, dopo aver ricordato il costante impegno pacifista del grande scienziato, Otto Nathan così prosegue: « Einstein era internazionalista di natura. Fino all’ultimo fu avversario tenace del nazionalismo e dello sciovinismo, ai cui eccessi attribuiva la responsabilità di molti mali del mondo. Condannava le frontiere politiche per la pericolosa divisione che operano tra gli uomini. In quanto scienziato, era impegnato in un campo che, più di ogni altro, è di necessità internazionale, anche se negli ultimi due decenni si è tentato più volte di imporre il segreto scientifico. Questa tendenza fu vivamente criticata da Einstein, che sempre auspicò, al contrario, una intensificazione delle relazioni culturali e scientifiche tra i paesi del mondo fin da quando, nel 1914, si batté per una Europa unita o quando, nel 1919, salutò con favore la fondazione della Lega delle nazioni e successivamente, nel 1945, quella delle Nazioni unite. Fu tuttavia un’altra considerazione a condurlo a sostenere la necessità della creazione di una organizzazione mondiale. Da tempo egli aveva compreso che il mantenimento della pace internazionale richiedeva una parziale cessione di sovranità da parte degli Stati nazionali a favore di una organizzazione internazionale. Questa doveva essere dotata delle istituzioni amministrative e giudiziarie indispensabili per riuscire a risolvere pacificamente i conflitti internazionali e doveva essere la sola cui fosse riconosciuto il diritto di conservare una forza militare: Einstein sperava che una tale organizzazione, in grado di mantenere la pace nel mondo, potesse nascere da una modificazione nel tempo prima del Patto della Lega delle nazioni, poi della Carta delle Nazioni unite. L’aumento del potere distruttivo delle armi moderne convinse Einstein a insistere con maggior forza sulla necessità di una adeguata organizzazione mondiale. La produzione della bomba atomica e il suo impiego sulle città giapponesi nel 1945 accrebbero l’intolleranza di Einstein nei confronti di azioni puramente simboliche per ottenere la pace. Mai egli aveva creduto che il disarmo graduale potesse essere una politica efficace contro la guerra, una politica che avrebbe portato al disarmo generale e alla pace: uno Stato non può, nello stesso tempo, armarsi e rinunciare alle armi. Ma dopo il 1945, quando la possibilità di una guerra nucleare fece temere l’annientamento del genere umano, egli si rafforzò in questa convinzione e sempre più attivamente, negli anni del dopoguerra, si impegnò nei movimenti per un governo mondiale. Non pensava affatto al governo mondiale come a una istituzione che soppiantasse le funzioni primarie dei governi nazionali esistenti; esso doveva, invece, avere competenze ben definite limitatamente al problema del mantenimento della pace. Le interferenze nei confronti del potere sovrano degli Stati membri dovevano essere limitate a quelle strettamente necessarie per il mantenimento della sicurezza internazionale.
Certamente Einstein non avrebbe mai sostenuto la creazione di un organismo con potere illimitato al di là di quanto fosse specificamente e immediatamente necessario: fu fautore di una struttura centralizzata sovrannazionale al solo fine di garantire la sicurezza internazionale. Per ogni altro verso egli fu uno strenuo assertore del decentramento ».[2]
Nell’intento di offrire ai lettori un approccio al pensiero di Einstein, abbiamo scelto alcune. pagine particolarmente significative, che illustrano i seguenti temi: le cause della guerra, la pace come organizzazione, la via verso la pace.
 
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Le cause della guerra.
 
Egregio Dottor Freud
 
 la Lega delle nazioni e l’Istituto internazionale di cooperazione intellettuale di Parigi mi hanno proposto di invitare chi io volessi a un franco scambio di vedute su un problema da me indicato: mi si offre così l’assai gradita occasione di sollecitare la Sua opinione su quello che, al momento attuale, mi pare essere il problema principale cui l’umanità si trova a far fronte. Il problema è questo: esiste un modo di liberare il genere umano dalla minaccia della guerra? Tutti sanno che, con il progresso della scienza, si tratta ormai di una questione di vita o di morte per la civiltà, così come noi la conosciamo; ma si sa anche che, malgrado lo zelo profuso, ogni tentativo di soluzione si è concluso con un miserevole fallimento.
Inoltre, coloro cui spetta affrontare il problema per professione e in concreto sono sempre più consapevoli della loro impotenza a trattarlo e sono quindi ansiosi di conoscere il punto di vista di chi, assorbito nella ricerca scientifica, può guardare ai problemi del mondo in distanza prospettica. Quanto a me, l’oggetto consueto della mia indagine non mi offre alcun sussidio per una comprensione profonda dei meandri oscuri dell’umano volere e sentire. Così, a proposito del quesito postoLe, io posso solo tentare di render chiara la questione sul tappeto e, sgombrando il terreno dalle soluzioni più ovvie, cercare di offrire a Lei la possibilità di riversare sul problema la luce della Sua approfondita conoscenza della vita istintiva dell’uomo. Vi sono resistenze psicologiche, delle quali un profano può solo indistintamente congetturare l’esistenza, ma è assolutamente incompetente a comprenderne le interrelazioni o le manifestazioni inconsuete; ebbene, io credo che Lei saprà suggerire metodi educativi, più o meno al di fuori della prospettiva della politica, in grado di eliminare queste resistenze.
Essendo immune dal pregiudizio nazionalista, io, personalmente, vedo un solo, semplice modo di affrontare l’aspetto di superficie (ossia amministrativo) del problema: fondare, col consenso internazionale, un organismo legislativo e giudiziario per risolvere ogni conflitto che sorga tra Stati. E ogni Stato dovrebbe sottoscrivere l’impegno a conformarsi alle disposizioni impartite da questo organismo legislativo, ad appellarsi alle sue decisioni in ogni controversia, ad accettare incondizionatamente i suoi verdetti e a dar seguito a ogni provvedimento che il tribunale reputi necessario per l’esecuzione delle sue sentenze. A questo punto mi scontro con una difficoltà: un tribunale è una istituzione umana che è tanto più incline a tollerare che le sue sentenze siano snaturate da pressioni extragiuridiche, quanto più il potere di cui dispone è inadeguato a far rispettare i suoi verdetti. Questo è un fatto col quale dobbiamo fare i conti: diritto e potere vanno di pari passo; le decisioni di un tribunale si avvicinano alla giustizia ideale pretesa dalla comunità (nel cui nome e per il cui interesse i verdetti sono pronunciati) nella misura in cui la comunità stessa ha effettivo potere di esigere rispetto del proprio ideale di giustizia. Al momento, tuttavia, siamo ben lontani dall’avere un’organizzazione sovrannazionale competente a emettere verdetti di incontestabile autorità e in grado di imporre un assoluto rispetto alla esecuzione degli stessi.
Dalle considerazioni precedenti discende questa affermazione assiomatica: la ricerca della sicurezza internazionale comporta, da parte di ogni Stato, la cessione incondizionata di una certa porzione della propria libertà d’azione – ossia della propria sovranità – ed è evidente che non vi è altra via possibile per conseguire questa sicurezza.
Scarso successo, tuttavia, ha coronato i tentativi, per quanto sinceri, messi in atto negli ultimi dieci anni per raggiungere questo obiettivo: il che ci fa presumere che forti fattori psicologici intervengano a paralizzare questi sforzi. Alcuni di questi fattori sono facilmente individuabili. Innanzitutto a ogni limitazione della sovranità nazionale si oppone il desiderio di potere della classe governante di ciascun paese. Ma a questo ostacolo spesso si aggiungono le pressioni di un altro gruppo, i cui interessi sono puramente venali, economici: penso a quel piccolo, ma ben determinato, gruppo di individui, attivo in ogni paese, i quali, indifferenti a ogni considerazione e vincolo sociale, guardano allo stato di guerra, alla costruzione e alla vendita delle armi, solo come a un’occasione per incrementare i loro profitti ed estendere la loro influenza. Ma questa constatazione è solo il primo passo sulla via della comprensione della intera questione. Infatti, da quanto detto nasce immediatamente un altro interrogativo: in qual modo questo piccolo gruppo riesce a piegare al servizio delle proprie ambizioni la volontà della maggioranza, che accetta di subire perdite e sofferenze a causa di uno stato di guerra? (Nella maggioranza includo anche i militari di ogni grado, che hanno scelto la guerra come professione, persuasi di battersi per la difesa dei più alti interessi del loro popolo e convinti che l’attacco è spesso il miglior metodo di difesa). Una risposta ovvia parrebbe essere che la minoranza, ossia la classe dirigente del momento, tiene sotto la propria influenza la scuola, la stampa e di solito anche la Chiesa e questo le permette di organizzare e influenzare i sentimenti delle masse e di servirsene. Tuttavia, anche questa risposta non fornisce un chiarimento soddisfacente. Ne emerge infatti una nuova domanda: come riescono questi mezzi a suscitare negli uomini tanto sfrenato entusiasmo da spingerli ad accettare perfino il sacrificio della vita? Una risposta sola è possibile: l’uomo ha dentro di sé un istinto di odio e di distruzione. In tempi normali questo istinto esiste allo stato latente, mentre diventa manifesto in circostanze eccezionali; ma è compito relativamente facile chiamarlo in gioco e scatenarlo fino a trasformarlo in una psicosi collettiva.
Qui sta forse il nodo dei complessi fattori che stiamo considerando, un enigma che solamente chi è esperto nella scienza degli istinti umani può sciogliere.
E così siamo all’ultimo quesito: è possibile controllare l’evoluzione mentale dell’uomo in modo da renderlo capace di resistere alla psicosi di odio e distruttività? Io non penso affatto soltanto alle masse incolte: l’esperienza mostra che è piuttosto la cosiddetta « intellighentsia » che è più proclive a cedere a queste sinistre suggestioni collettive, giacché l’intellettuale non ha diretto contatto con la vita nella sua forma più naturale, ma la incontra – per la via più facile – in una forma già elaborata: sulla pagina stampata.
In conclusione: sin qui ho parlato soltanto della guerra fra Stati, ossia dei conflitti internazionali; ma sono ben conscio che l’istinto aggressivo opera anche sotto altre forme e in altre circostanze (penso, ad esempio, alle guerre civili, in altri tempi originate da zelo religioso, oggi da fattori sociali; oppure, ancora, alla persecuzione di minoranze razziali). Ma ho deliberatamente insistito su quella che è la più tipica, crudele e irragionevole forma di conflitto fra uomo e uomo perché è l’analisi di questa che ci offre la migliore opportunità di scoprire vie e mezzi per rendere impossibile ogni conflitto armato. So che nei Suoi scritti possiamo trovare risposte, esplicite o implicite, a tutti i quesiti sollevati da questo urgente e coinvolgente problema: ma sarebbe di grandissima utilità per tutti noi se Ella volesse chiarire il problema della pace nel mondo alla luce delle Sue più recenti scoperte, di modo che da tale chiarimento si possano trarre indicazioni per nuove, feconde linee di azione.
Sinceramente Suo
A. Einstein[3]
 
 
La pace come organizzazione.
 
La prima bomba atomica ha distrutto ben più che la sola città di Hiroshima: essa ha pure demolito le nostre convinzioni politiche ereditate dal passato e ormai superate.
Pochi giorni prima che la forza della natura fosse sperimentata per la prima volta nella storia, a Washington veniva ratificata la Carta di San Francisco: dopo trentasei anni, il sogno di una Lega delle nazioni era accolto dal Senato. Ma quanta vita avrà la Carta delle nazioni unite? Se è accompagnata dalla fortuna, una generazione? Un secolo? Non vi è chi non si auguri – per la Carta, per se stesso, per il proprio lavoro e per i figli dei propri figli – per lo meno quel tanto di fortuna. Ma è sufficiente avere la pace solo grazie alla buona sorte? La pace attraverso il diritto è ciò che i popoli del mondo, a cominciare da noi stessi, possono avere, purché lo vogliano. E ora è il momento di attenerla.
La Carta è solo un primo passo: essa non garantisce affatto la pace. Ma c’è di più. Le parole piene di speranza e di entusiasmo di Dumbarton Oaks a San Francisco hanno generato un pericolo reale: che milioni di americani si sentano rassicurati e credano che, in virtù di questa ratifica, sia stato attivato un meccanismo in grado di prevenire un’altra guerra. È nostro dovere mettere in guardia il popolo americano: le cose non stanno così. La Carta è una tragica illusione, a meno che non ci apprestiamo a compiere i successivi passi necessari per organizzare la pace.
Andando all’Est da San Francisco, a Kansas City, il Presidente Truman disse: « Per gli Stati trovare 1’armonia di una repubblica mondiale sarà altrettanto facile quanto lo è per voi nella repubblica degli Stati Uniti. Quando il Kansas e il Colorado hanno una controversia per l’acqua del fiume Arkansas, non fanno ricorso alla Guardia nazionale del proprio Stato e non scendono in guerra, ma portano la controversia di fronte alla Corte suprema degli Stati Uniti e si conformano alle sue decisioni. Non vi è motivo per cui non si possa fare lo stesso a livello internazionale ». Furono parole di portata storica, che ci indicano il cammino da prendere per un futuro ben al di là di San Francisco.
Da migliaia di anni gli uomini hanno imparato che ovunque vi sia un governo fondato sulla legge, là può esservi pace, mentre dove non vi sia né legge né governo i conflitti tra gli uomini sono stati inevitabili. La Carta di San Francisco, dal momento che mantiene intatta la sovranità assoluta degli Stati nazionali rivali, impedendo in tal modo l’instaurazione di una legge superiore per regolare le relazioni mondiali, è paragonabile agli Articles of Confederation delle tredici originarie repubbliche americane. E noi sappiamo che questa Confederazione non ha funzionato. Nessuno dei sistemi confederali tentati nella storia sarebbe in grado di impedire un conflitto tra gli Stati membri. Dobbiamo pertanto puntare a una costituzione federale del mondo, a un ordine legale mondiale efficace, se vogliamo sperare di impedire una guerra atomica.
Proprio in questi angosciosi momenti della nostra storia è stato pubblicato un piccolo libro; un libro assai importante, che esprime in modo chiaro e semplice quanto molti di noi vanno pensando. Questo libro è « Anatomia della pace » di Emery Reves. Noi sollecitiamo uomini e donne americane a leggere questo libro, a riflettere sulle sue conclusioni, a discuterlo con vicini e amici in privato e in pubblico. Alcune settimane fa queste idee potevano sembrare importanti, ma forse realizzabili solo nel futuro. Nella nuova realtà della guerra atomica esse sono di immediata, urgente necessità, a meno che la civiltà non voglia votarsi al suicidio.
Nell’ultimo discorso, che non visse abbastanza per pronunciare, Franklin Roosevelt scrisse queste parole, che potrebbero essere il suo testamento politico: « Questa è la realtà più importante alla quale siamo di fronte: se si vuole che la civiltà sopravviva, si deve coltivare la scienza delle relazioni umane, ossia la capacità di tutti i popoli di vivere e lavorare insieme nel medesimo mondo, in pace ». Abbiamo imparato, e pagato un terribile prezzo per impararlo, che vivere e lavorare insieme è possibile in un solo modo: sotto l’impero del diritto. Al mondo, oggi, non v’è idea più vera e più semplice. Se questa idea non si afferma, se non siamo capaci, con uno sforzo comune, di trovare nuovi modi di pensare, l’umanità è condannata a perire.[4]
 
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Non v’è dubbio che un ordine legale mondiale deve essere creato subito, o con mezzi coercitivi o per accordo pacifico: non esiste altra difesa efficace contro i moderni metodi di distruzione di massa. Se l’uomo dovesse far cattivo uso della scienza e della tecnica ponendole al servizio di ambizioni egoistiche, la nostra civiltà sarebbe condannata a perire. Lo Stato nazionale non è più in grado di difendere adeguatamente i propri cittadini; aumentare la forza militare di uno Stato non ne garantisce più la sicurezza. 
L’attuale stato di anarchia internazionale, che costringe l’umanità a vivere sotto la costante minaccia di un improvviso annientamento, ha condotto a una pericolosa corsa agli armamenti atomici. Il Comitato d’emergenza degli scienziati atomici è conscio della sua grave responsabilità di rendere consapevoli i cittadini di questo paese, e di ogni altro paese, che gli Stati non possono più pensare in termini di potenza militare o di superiorità tecnica. Ciò che un gruppo di uomini ha scoperto, un altro gruppo di uomini, che si impegni con intelligenza e pazienza nella ricerca, arriverà pure a scoprire. Non vi sono segreti scientifici. E neppure vi può essere a livello puramente nazionale una difesa efficace contro una aggressione.
La liberazione dell’energia atomica ha creato un nuovo mondo, nel quale i vecchi modi di pensare, che comprendono le vecchie convenzioni diplomatiche e la politica dell’equilibrio, sono divenuti completamente privi di senso. L’umanità, nell’era atomica, deve eliminare la guerra. Ciò che è in gioco è la vita o la morte dell’umanità.
La sola forza militare che può portare sicurezza al mondo è una forza di polizia sovrannazionale, fondata su una legge mondiale. A questo obiettivo dobbiamo indirizzare le nostre energie.[5]
 
 
La via verso la pace.
 
Noi siamo prigionieri di una situazione nella quale ogni cittadino di ogni paese, i suoi figli ed il lavoro di tutta la sua vita sono minacciati dalla terribile insicurezza che regna oggi nel mondo. Il progresso tecnologico non ha aumentato la sicurezza e il benessere dell’umanità. A causa della nostra incapacità di risolvere il problema dell’organizzazione internazionale, esso ha di fatto contribuito ad aumentare i pericoli che minacciano la pace e l’esistenza stessa dell’umanità.
I delegati dei cinquantacinque governi, riunitisi nella seconda Assemblea generale delle Nazioni unite, senza dubbio saranno consapevoli del fatto che durante gli ultimi due anni, dopo la vittoria sulle potenze dell’Asse, non è stato fatto alcun progresso significativo verso la prevenzione della guerra o un accordo in settori specifici quali il controllo dell’energia atomica e la cooperazione economica per la ricostruzione delle aree devastate dalla guerra.
 Le Nazioni unite non possono essere ritenute responsabili di questi fallimenti. Nessuna organizzazione internazionale può essere più forte dei poteri costituzionalmente concessile, o di quanto i suoi membri la vogliano. Di fatto le Nazioni unite sono un’istituzione estremamente importante e utile purché i popoli e i governi del mondo si rendano conto che si tratta semplicemente di un sistema provvisorio in vista dell’obiettivo finale, che è l’instaurazione di un’autorità sopranazionale investita di poteri legislativi ed esecutivi sufficienti a mantenere la pace. Il vicolo cieco in cui ci troviamo è rappresentato dal fatto che non esiste alcuna autorità internazionale che serva allo scopo e su cui si possa fare affidamento. In tal modo i responsabili di tutti i governi sono obbligati ad agire sull’ipotesi della possibilità di una guerra. Ogni mossa motivata da questa ipotesi contribuisce alla paura e alla sfiducia generali e accelera la catastrofe finale. Per quanto potenti possano essere gli armamenti nazionali, essi non rappresentano una sicurezza militare per nessun paese né garantiscono il mantenimento della pace.
Non vi potrà mai essere un accordo completo su una forma di controllo internazionale e sull’utilizzazione dell’energia atomica o su un disarmo generale, fino a quando non verrà modificato il concetto tradizionale di sovranità nazionale. Infatti, finché l’energia e gli armamenti atomici sono considerati come parte vitale della sicurezza nazionale nessuna nazione presterà più che un rispetto superficiale ai trattati internazionali. La sicurezza è indivisibile. Essa può venir raggiunta soltanto quando sussistano ovunque le necessarie garanzie legali e le leggi vengano applicate, così che la sicurezza militare non sia più il problema di un singolo stato. Non vi è alcun compromesso possibile fra la preparazione alla guerra, da un lato, e la preparazione di una società mondiale basata sul diritto e sull’ordine dall’altro.
Ogni cittadino deve prendere una decisione. Se egli accetta la premessa della guerra, deve accettare il mantenimento di truppe in aree strategiche quali l’Austria e la Corea; l’invio di truppe in Grecia e in Bulgaria; l’accumulo di riserve di uranio a qualunque costo; il servizio militare esteso a tutti, la progressiva limitazione delle libertà civili. Soprattutto, egli deve subire le conseguenze della segretezza militare, che è uno dei peggiori flagelli del nostro tempo e uno dei maggiori ostacoli al progresso culturale.
D’altra parte ogni cittadino che si renda conto che l’unica garanzia di sicurezza e di pace nell’era atomica è la formazione e il costante consolidamento di un governo sopranazionale, farà tutto ciò che è in suo potere per rafforzare le Nazioni unite. Mi sembra che ogni cittadino dotato di ragione e di senso di responsabilità debba sapere dove cade la sua scelta.
Eppure tutto il mondo si trova in un circolo vizioso dato che gli organi delle Nazioni unite sembrano essere incapaci di prendere una decisione a questo proposito. I blocchi occidentale ed orientale cercano freneticamente di consolidare le rispettive posizioni di forza. Il servizio militare universale, le truppe russe nell’Europa orientale, il controllo degli Stati Uniti sulle isole del Pacifico, la stessa politica di consolidamento coloniale dell’Olanda, della Gran Bretagna e della Francia, il segreto atomico e militare, tutto ciò fa parte dell’antico e ben noto giuoco strategico.
È giunto il momento che le Nazioni unite rafforzino la propria autorità morale prendendo delle decisioni coraggiose. In primo luogo, l’autorità dell’Assemblea generale deve essere rafforzata, il Consiglio di sicurezza come pure tutti gli altri organi delle Nazioni unite debbono esserle subordinati. Finché esiste un conflitto di autorità fra l’Assemblea e il Consiglio di sicurezza, l’efficacia dell’intera organizzazione resterà necessariamente ridotta.
In secondo luogo, il criterio di rappresentanza presso le Nazioni unite deve essere notevolmente modificato. Quello attuale di nomina per delega governativa non lascia alcuna reale libertà al delegato. Inoltre, la delega governativa non può dare ai popoli del mondo la sensazione di essere adeguatamente e proporzionalmente rappresentati. L’autorità morale delle Nazioni unite verrebbe notevolmente accresciuta se i delegati venissero eletti direttamente dal popolo. Se fossero responsabili di fronte a un elettorato, essi avrebbero una libertà molto maggiore di seguire la propria coscienza. In questo modo potremmo sperare di avere più statisti e meno diplomatici.
In terzo luogo, l’Assemblea generale dovrebbe restare in seduta permanente per tutto il periodo critico di transizione. Restando costantemente al lavoro, l’Assemblea potrebbe assolvere a due importanti compiti: primo, potrebbe prendere l’iniziativa per stabilire un ordine sopranazionale; secondo, potrebbe compiere dei passi pronti ed efficaci in quelle aree pericolose, quali quelle attualmente esistenti ai confini della Grecia, in cui la pace fosse minacciata.
L’Assemblea, in vista di questi alti compiti, non dovrebbe delegare i suoi poteri al Consiglio di sicurezza, specialmente ora che questo organismo è paralizzato dagli inconvenienti derivanti dal diritto di veto. In quanto unico organismo competente a prendere coraggiosamente e risolutamente delle decisioni, le Nazioni unite debbono agire con la massima prontezza e creare, gettando le basi per un vero governo mondiale, le condizioni necessarie per la sicurezza internazionale.
S’intende che vi saranno opposizioni. Pure, non è affatto certo che l’Unione Sovietica, che viene spesso presentata come la principale avversaria dell’idea di un governo mondiale, si manterrebbe all’opposizione anche nel caso in cui le venisse fatta una giusta offerta di garanzie di sicurezza. Anche supponendo che la Russia si opponga per ora all’idea di un governo mondiale, una volta che essa si renda conto che un governo mondiale si sta formando ugualmente, il suo atteggiamento può cambiare. Essa può allora insistere unicamente sulle necessarie garanzie di eguaglianza legale che le evitino di trovarsi in perenne minoranza come nell’attuale Consiglio di sicurezza.
Noi dobbiamo prevedere anche il caso, tuttavia, che nonostante tutti i nostri sforzi la Russia e i suoi alleati possano ancora trovare opportuno restare fuori di un tale governo mondiale. In tal caso, e soltanto dopo aver compiuto con la massima sincerità tutti gli sforzi per ottenere la collaborazione della Russia e dei suoi alleati, gli altri paesi dovrebbero procedere da soli. È della massima importanza che questo governo mondiale parziale sia molto forte, comprendendo almeno due terzi delle aree mondiali industriali ed economiche più importanti. Una tale forza renderebbe di per sé stessa possibile al governo mondiale parziale di abolire la segretezza militare e tutte le altre misure tradizionali provocate dall’insicurezza.
Un tale governo mondiale parziale dovrebbe dichiarare fin dall’inizio in modo inequivocabile che le sue porte restano aperte a qualsiasi paese non membro, particolarmente alla Russia, per una partecipazione sulla base di una completa parità. Secondo me, il governo mondiale parziale dovrebbe accettare la presenza di osservatori dei governi non membri in tutte le sue riunioni e assemblee costituenti.
Per raggiungere l’obiettivo finale di un mondo unico e non di due mondi ostili, un tale governo mondiale parziale non deve mai agire come un’alleanza contro il resto del mondo. L’unico passo reale verso un governo mondiale è il governo mondiale stesso.
In un governo mondiale le differenze ideologiche fra le varie nazioni partecipanti non hanno grandi conseguenze. Sono convinto che le attuali difficoltà fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica non sono dovute sostanzialmente a differenze ideologiche. Naturalmente queste differenze ideologiche hanno un loro peso in uno stato di tensione già serio. Sono convinto, tuttavia, che anche se gli Stati Uniti e la Russia fossero entrambi due paesi capitalisti (o comunisti, o monarchici), le loro rivalità, i loro interessi contrastanti, e le loro gelosie produrrebbero stati di tensione simili a quelli esistenti fra i due paesi oggi.
Le Nazioni unite oggi e un governo mondiale domani debbono servire a un solo scopo: la garanzia di sicurezza, pace e benessere per tutta l’umanità.[6]
 
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Noi ci incontriamo oggi, intellettuali e studiosi di diverse nazionalità, con la sensazione di una profonda e storica responsabilità gravante su di noi. Abbiamo ogni motivo per essere grati ai nostri colleghi francesi e polacchi la cui iniziativa ci ha riuniti qui per uno scopo molto importante: adoperare l’influenza di uomini saggi nel promuovere la pace e la sicurezza in tutto il mondo. Questo è l’antico problema con il quale Platone, fra i primi, lottò così duramente: applicare ragione e saggezza nella soluzione dei problemi dell’uomo anziché cedere agli istinti e alle passioni ataviche.
Per dolorosa esperienza abbiamo imparato che il pensiero razionale non è sufficiente a risolvere i problemi della nostra vita sociale. La sottile ricerca e l’attento lavoro scientifico hanno spesso avuto delle tragiche conseguenze per l’umanità, poiché hanno, sì, prodotto, da un lato, invenzioni che hanno liberato l’uomo dalla fatica fisica estenuante, rendendone la vita più facile e più ricca; ma, d’altra parte, hanno introdotto una grave inquietudine nella sua vita, lo hanno reso schiavo del suo mondo tecnologico e, cosa più catastrofica ancora, hanno creato i mezzi per la sua stessa distruzione in massa. In verità, una tragedia spaventosa!
Per quanto spaventosa sia questa tragedia, forse è ancora più tragico il fatto che, mentre l’umanità ha prodotto molti studiosi che hanno ottenuto risultati così brillanti nel campo della scienza e della tecnologia, noi non siamo riusciti per lungo tempo a trovare delle soluzioni adeguate ai molti conflitti politici e alle tensioni economiche che ci circondano. Senza dubbio, l’antagonismo degli interessi economici all’interno e fra le nazioni è in gran misura responsabile della pericolosa e allarmante situazione del mondo di oggi. L’uomo non è riuscito a sviluppare delle forme politiche ed economiche di organizzazione che potessero garantire la coesistenza pacifica delle nazioni nel mondo. Non è riuscito a costruire un tipo di struttura che eliminasse la possibilità di guerra e bandisse per sempre gli strumenti micidiali della distruzione in massa.
Noi scienziati, il cui tragico destino è stato quello di aiutare a costruire i mezzi di distruzione più raccapriccianti e più efficienti, dobbiamo considerare come nostro dovere solenne e supremo fare tutto ciò che è in nostro potere per impedire che queste armi siano usate per gli scopi brutali per i quali sono state inventate. Quale compito potrebbe mai essere più importante per noi? Quale meta sociale potrebbe essere più vicina al nostro cuore? Questo è il motivo per cui questo Congresso ha una tale missione vitale. Siamo qui per consigliarci. Dobbiamo costruire dei ponti scientifici e spirituali che colleghino le nazioni del mondo. Dobbiamo superare il terribile ostacolo delle frontiere nazionali.
In settori più limitati della vita della comunità, l’uomo ha compiuto qualche progresso verso l’eliminazione delle sovranità antisociali. Questo è vero, per esempio, nella vita all’interno delle città e, in certa misura, anche nella società all’interno dei singoli stati. In tali comunità la tradizione e l’educazione hanno esercitato un’influenza moderatrice e prodotto delle relazioni tollerabili fra le persone che vivono entro quei confini. Ma nelle relazioni fra i diversi stati regna ancora una completa anarchia. Io non credo che abbiamo compiuto un qualche reale progresso in questo campo durante l’ultimo millennio. Troppo frequentemente i conflitti fra le nazioni vengono ancora decisi dalla forza bruta, dalla guerra. Il desiderio sfrenato di sempre maggior potenza tende a diventare attivo e aggressivo ovunque e ogni volta che se ne offre la possibilità materiale.
Attraverso i tempi, questo stato di anarchia negli affari internazionali ha causato indescrivibili sofferenze e distruzioni all’umanità; a parecchie riprese esso ha corrotto lo sviluppo dell’uomo, la sua anima e il suo benessere. In certi periodi ha quasi distrutto intere zone della terra.
Ciò nonostante, il desiderio delle nazioni di essere costantemente pronte alla guerra ha, peraltro, altre ripercussioni ancora sulla vita dell’uomo. Il potere di ogni stato sui suoi cittadini è costantemente cresciuto, durante gli ultimi secoli, nei paesi in cui tale potere è stato esercitato saggiamente non meno che in quelli in cui è stato usato per una tirannide brutale. La funzione che lo stato ha, di mantenere relazioni pacifiche e ordinate fra i cittadini, è diventata sempre più complicata ed estesa a causa della concentrazione e della centralizzazione del moderno apparato industriale. Per proteggere i suoi cittadini dagli attacchi esterni uno stato moderno ha bisogno di un formidabile assetto militare in continua espansione. Inoltre, lo stato considera necessario educare i suoi cittadini alla possibilità di una guerra, “educazione” questa che non solo corrompe l’anima e lo spirito dei giovani, ma che influisce negativamente anche sulla mentalità degli adulti. Nessun paese può evitare questa corruzione. Essa pervade la cittadinanza anche in paesi che non nutrono esplicite tendenze aggressive. Lo stato è così diventato un moderno idolo al cui potere di suggestione pochi uomini sanno sfuggire.
L’educazione alla guerra, tuttavia, è un’illusione. Gli sviluppi tecnologici degli ultimi anni hanno creato una situazione militare completamente nuova. Sono state inventate armi orribili, capaci di distruggere in pochi secondi un numero enorme di esseri umani e aree vastissime. Dato che la scienza non ha ancora trovato una forma di difesa da queste armi, lo stato moderno non è più in grado di provvedere a un’adeguata difesa dei suoi cittadini.
Come faremo, quindi, a salvarci?
L’umanità può trovare protezione contro il pericolo di una inimmaginabile distruzione e di un folle annientan1ento solo in una organizzazione sopranazionale che possieda, essa sola, l’autorità di produrre o possedere queste armi. È impensabile, tuttavia, che le nazioni, nelle attuali circostanze, conferiscano una tale autorità a un’organizzazione sopranazionale, a meno che una tale organizzazione non abbia il diritto e dovere legale di risolvere tutti i contrasti che in passato hanno condotto alla guerra. La funzione dei singoli stati sarebbe più o meno quella di concentrarsi sugli affari interni; nelle loro relazioni con gli altri stati essi dovrebbero trattare solo di temi e di problemi che non possano in alcun modo condurre a compromettere la sicurezza internazionale.
Sfortunatamente, non vi è ancora alcun sintomo che i governi si rendano conto che la situazione in cui l’umanità si trova rende necessaria l’adozione di misure rivoluzionarie. La nostra situazione non è paragonabile a nessun’altra del passato. È impossibile, perciò, applicare metodi e misure che in epoche lontane avrebbero potuto essere efficaci. Dobbiamo rivoluzionare il nostro modo di pensare, rivoluzionare il nostro modo di agire, e dobbiamo avere il coraggio di rivoluzionare le relazioni fra le nazioni del mondo. Gli schemi di ieri non funzionano più oggi, e saranno senza dubbio sorpassati in futuro. Aprire gli occhi agli uomini di tutto il mondo è la missione sociale più importante e più decisiva che gli intellettuali abbiano mai avuto. Avranno essi il coraggio di superare i loro legami nazionali nella misura necessaria a indurre i popoli del mondo a cambiare in maniera radicale le loro profonde tradizioni?
È indispensabile uno sforzo immane. Se esso fallisce ora, l’organizzazione sopranazionale sarà costruita in seguito, ma in tal caso essa dovrà essere costruita sulle rovine di una gran parte del mondo oggi esistente. Speriamo che l’abolizione dell’attuale anarchia internazionale non debba necessariamente essere prodotta da una catastrofe mondiale procurataci con le nostre stesse mani, le cui dimensioni nessuno può anche solo immaginare. Il tempo a disposizione è terribilmente breve. Dobbiamo agire ora se vogliamo agire.[7]
 
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Le sono molto grato, signora Roosevelt, di avermi offerto l’occasione di esprimere il mio pensiero su questo importante problema politico. La convinzione che è possibile conquistare la sicurezza attraverso un armamento nazionale non è che una tragica illusione, se si tiene conto del livello attuale della tecnologia militare. Negli Stati Uniti questa illusione è stata particolarmente rafforzata dal fatto che questo è stato il primo paese capace di produrre una bomba atomica. Perciò si è stati tratti a credere che questo stesso paese sarebbe stato in grado di conquistare una definitiva superiorità militare che, almeno così si è sperato, potesse dissuadere ogni potenziale nemico, procurando in tal modo quella sicurezza che è così intensamente ricercata da noi come da tutto il resto del mondo. La massima che abbiamo seguito in questi ultimi cinque anni si può così riassumere: sicurezza attraverso la superiorità delle forze, qualunque ne sia il prezzo.
Questo orientamento, sia tecnologico sia psicologico, nella politica militare ha avuto conseguenze inevitabili. Ogni azione di politica estera è guidata da questa sola considerazione: « Come agire affinché, in caso di guerra, noi possiamo conseguire il massimo successo sul nemico? » E la risposta è stata: « Al di fuori degli Stati Uniti, dobbiamo stabilire basi militari in ogni possibile punto del globo strategicamente importante, così come dobbiamo armare e rafforzare economicamente i nostri potenziali alleati ». E così, all’interno degli Stati Uniti, si sta concentrando una gigantesca potenza finanziaria nelle mani dei militari; si sta militarizzando la gioventù; lo spirito di lealtà dei cittadini, e particolarmente quello dei funzionari, è attentamente sorvegliato da una polizia di giorno in giorno più potente. Chi esprime opinioni politiche indipendenti viene intimidito. La popolazione è subdolamente indottrinata da radio, stampa, scuola. Sotto la pressione della segretezza militare, lo spazio della pubblica informazione è progressivamente ristretto.
La corsa agli armamenti tra Stati Uniti e Unione Sovietica, all’inizio pensata come misura preventiva, presenta ora aspetti isterici. Nei due campi si procede con rapidità febbrile e nel più stretto segreto all’allestimento di mezzi di distruzione di massa. Ora si è data notizia che la produzione della bomba H è il nuovo obiettivo che, con tutta verosimiglianza, sarà raggiunto. Il Presidente ha annunciato con solennità importanti progressi in questa direzione. Se questi sforzi avranno successo, la contaminazione radioattiva dell’atmosfera e, di conseguenza, l’annullamento di ogni forma di vita sulla terra toccheranno quei limiti che la tecnica renderà possibile raggiungere. L’aspetto terrificante di questa impresa sta nella sua apparente ineluttabilità. Ogni passo sembra la conseguenza inevitabile del passo precedente. E alla fine appare sempre più chiaro che vi sarà l’annientamento totale.
Esiste qualche via d’uscita da questa situazione che l’uomo stesso ha creato? Tutti, e in particolare coloro che sono responsabili della politica degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, devono comprendere che, anche se abbiamo sconfitto un nemico esterno, non ci siamo saputi liberare della mentalità di guerra. Non si può conquistare una vera pace se ogni decisione è presa pensando alla possibilità di un futuro conflitto, specialmente da che appare sempre più chiaro che tale conflitto significherebbe annientamento dell’umanità. Ogni scelta politica dovrebbe essere guidata da questa riflessione: « Che cosa possiamo fare nella situazione presente per instaurare una coesistenza pacifica tra gli Stati? » Innanzitutto occorre eliminare la reciproca paura e sospetto. Si impone assolutamente una solenne rinuncia alla politica di violenza, e non soltanto all’uso dei mezzi di distruzione di massa. Tale rinuncia, tuttavia, avrà efficacia solo se contemporaneamente si creerà un’autorità sovrannazionale giudiziaria ed esecutiva, col potere di dirimere le questioni concernenti direttamente la sicurezza degli Stati. La dichiarazione da parte di un certo numero di Stati di voler collaborare lealmente alla creazione di questo « governo mondiale parziale » già varrebbe a ridurre considerevolmente il rischio di guerra.[8]


[1]O. Nathan, H. Norden, Einstein on peace, Avenel Books, New York, 1981.
[2]Op. cit., pp. IX-X.
[3]Op. cit., pp. 188-191: lettera aperta di Einstein a Freud (30 luglio 1932). Nella sua lunga risposta (in data settembre 1932) Freud è piuttosto ambiguo: in alcuni passi le cause della guerra sono fatte risalire ai conflitti di interessi fra gruppi, costantemente risolti attraverso la violenza per mancanza di una Corte suprema di giustizia con adeguati poteri esecutivi, mentre altrove egli le fa risalire all’emergere e all’affermarsi dell’istinto di morte, che diviene impulso alla distruzione quando dirige la sua azione all’esterno, contro oggetti esterni.
[4]Op. cit., pp. 340-341: lettera all’editore in The New York Times (10 ottobre 1945).
[5]Op. cit., p. 407: messaggio per un convegno di un gruppo non identificato (maggio 1947).
[6]Op. cit., pp. 440-443: lettera aperta all’Assemblea generale delle Nazioni unite (ottobre 1947).
[7]Op. cit., pp. 493-496: messaggio per il Congresso mondiale degli Intellettuali di Wroclaw, pubblicato su The New York Times il 29 agosto 1948.
[8]Op. cit., pp. 520-522: osservazioni presentate in un programma televisivo diretto da Eleanor Roosevelt il 13 febbraio 1950.

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