IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXVI, 1984, Numero 2, Pagina 138

 

 

SPINELLI, «UOMO DELL’OPERA»
 
 
Il primo volume delle memorie di Spinelli[1] è un grande libro scritto da un grande uomo storico. Nessun federalista può permettersi di non leggerlo, così come non può non leggerlo chiunque viva con partecipazione la storia del nostro tempo. Io, come tutti coloro che lo hanno letto, non ho potuto sottrarmi all’emozione che comunica il racconto del modo in cui Spinelli, entrato giovanissimo nelle carceri fasciste, riuscì a fare dei sedici anni della prigionia e del confino una fonte di ricchezza spirituale, e quindi di libertà. Soltanto dopo ho provato a ripercorrerne le pagine lasciandomi guidare da una curiosità: quella di capire per quale ragione qualcuno che, come me, è federalista da venticinque anni, la cui vita è stata trasformata dalla presa di coscienza della nuovissima linea del Manifesto di Ventotene, e che oggi è impegnato nella battaglia di cui Spinelli è il leader, possa sentire quest’uomo, pur senza mai fargli mancare il rispetto e l’ammirazione, così profondamente estraneo.
Ho cercato una risposta alla mia curiosità soprattutto nei bellissimi passi – sparsi qua e là nel libro – nei quali Spinelli condensa le grandi linee della sua Weltanschauung.
Uno, per esempio, ha come tema la sua concezione della storia. Spinelli è un post-hegeliano: ha letto e capito Hegel, poi lo ha messo da parte, sia perché la filosofia hegeliana non soddisfaceva il suo bisogno di cambiare il mondo invece di limitarsi a interpretarlo, sia perché Spinelli non accettava di considerare sé stesso e la propria azione come parte di un disegno, o quanto meno di un contesto significativo più vasto. « Mi piacque molto, scrive Spinelli ricordando le sue letture hegeliane, la grandiosa filosofia della storia nella quale lo spirito del mondo si incarna in una successione avventurosa ma anche dialetticamente rigorosa di epoche e di filosofie, approdando alla consapevolezza apollinea e dionisiaca insieme, dell’aver realizzato tutto sé stesso e... proclamando ciò in un’aula dell’Università di Berlino negli anni ‘20 del secolo scorso. Tutto ciò mi incantava come un poema, e ne ho spesso riletto qualche pagina bellissima, ma mi lasciava incredulo. Dopo aver abbandonato la filosofia marxista della storia, secondo la quale dopo molte avventurose metamorfosi l’umanità deve giungere alla realizzazione della perfetta società comunista, non potevo più prendere sul serio quella hegeliana, né alcun’altra. Assai più convincente era per me l’idea crociana della storia come storia della libertà, cioè della creazione umana continua, nella quale non c’è un punto d’arrivo finale, ma ogni approdo è il principio di una nuova navigazione ».
Un’altra significativa riflessione, sempre riportata in chiave di ricordo, è quella che riguarda i fondamenti della sua etica. Anche qui, Spinelli rende omaggio allo storicismo, ma lo respinge. Anzi, va molto al di là e, citando San Paolo, nega « ogni obbligo di attenersi ad un’idea preesistente del bene ». « Quel che mi affascinava, continua Spinelli, era il problema esistenziale del decidere che fare, sull’orlo stesso dell’esistente e del non esistente. E mi sentivo costretto a riconoscere che il bene non è qualcosa che noi applichiamo, ma siamo noi, e in ultima istanza ciascuno di noi, a crearlo con la nostra azione. Protagora aveva ragione: ‘L’uolno è la misura di tutte le cose’, anche del bene ». Questa frase non ha naturalmente per Spinelli il senso della vertigine esistenzialistica della scelta totalmente arbitraria: l’uomo deve anzi creare il bene « edificando », cioè con la propria opera. Ma il rapporto tra l’uomo e il bene è pur sempre un rapporto di creazione ex nihilo.
Un terzo bellissimo passo riguarda la concezione che Spinelli aveva, e suppongo mantenga, della divinità. Essa per lui « non era l’alto, perfetto e immobile, verso cui occorresse tendere, ma il basso, possente, eterno e caotico, da cui occorreva saper emergere come dalle tenebre, per crearsi un fragile mondo luminoso. Questa divinità non è la quieta innocua sostanza di Spinoza. È un abisso che inghiotte senza pietà e genera continuamente tra gli uomini un senso di umiliazione e di impotenza... ».
Un altro aperçu, invero un po’ enigmatico, della filosofia di Spinelli lo si ricava da alcune frasi di un suo scritto del confino, che egli riporta testualmente: « C’è un linguaggio notturno. Non è un ragionamento che si spiega alla luce del sole e si articola chiaro e comprensibile a tutti, o perlomeno a chi voglia far lo sforzo di capire. È un linguaggio che respinge gli altri poiché è un puro monologo.
Il linguaggio diurno invece non può non essere un linguaggio realista che soppesa le forze esistenti, calcola come si ingranano fra loro, com’è possibile operare su di esse e in che senso.
Per parlare con sicurezza la lingua diurna occorre conoscere quella notturna, nella quale solamente si imbastiscono i temi che saranno svolti nel giorno. Pensar di giorno colla lingua della notte fa solo correre il rischio di essere frainteso. Ma pensare la notte, cioè nell’ora del contatto panico, del distacco dalla propria particolare personalità e dalla propria sorte – pensare la notte con il linguaggio del giorno, significa sbagliare ogni meditazione, sforzarsi di conservarsi quando invece bisogna perdersi. Vuol dire rinunziare a preparare il succoso alimento, pieno di misteriosa forza nutritiva, al realistico linguaggio del giorno.
Così si spiega che di giorno si debba dare importanza ai calcoli, alle manovre, alle abilità, ma di notte bisogna non crederci in modo radicale. Si tratta infatti, in questo caso, di capire quel che accade malgrado e non grazie ai calcoli, alle manovre, alle occasioni ».
E ancora: « Il linguaggio mitico è una necessità. Non si può parlare altrimenti quando si è afferrato qualcosa di essenziale e non si riesce ancora tuttavia a comprenderla. Platone l’aveva ben capito, ed è una prova della sua superiore intelligenza la disinvoltura con cui abbandona il ragionamento e si mette a modellare e rimodellare miti, pur di non lasciarsi sfuggire l’essenziale sol per lo stupido motivo che è ancora inesprimibile nella comune lingua della ragione ».
Merita infine di essere riportata la frase con cui si chiude il libro e che descrive il momento del ritorno di Spinelli alla vita civile dal confino di Ventotene: « Mentre mi avviavo verso la casa dei miei col passo circospetto del villano appena inurbato, perché avevo perso l’abitudine di muovermi in mezzo al traffico della città, mi congedai idealmente da tutti i compagni di prigione di tutte le tendenze. L’intima loro fierezza gregaria consisteva nel sapere che ora uno ad uno stavano tutti raggiungendo il loro posto di battaglia nella loro formazione politica, la quale esisteva, era ben nota, li aveva attesi e si accingeva ora ad accoglierli festosamente per la loro fedeltà tenace. La mia solitaria fierezza era di tutt’altra natura, perché nessuna formazione politica esistente mi attendeva, né si preparava a farmi festa, ad accogliermi nelle sue file. Sarei stato io a suscitare dal nulla un movimento nuovo e diverso per una battaglia nuova e diversa – una battaglia che io, ma probabilmente per ora solo io, avevo deciso di considerare, benché ancora inesistente, più importante di quelle in corso in cui andavano ad impegnarsi tutti gli altri. Con me non avevo per ora, oltre me stesso, che un Manifesto, alcune Tesi e tre o quattro amici, i quali attendevano me per sapere se l’azione della quale avevo con loro tanto parlato sarebbe veramente cominciata ».
 
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Il tipo di rapporto con la vita e con la storia che emerge da queste frasi, e da molte altre del libro, mi ha richiamato alla memoria una lettura di Heidegger (Heidegger invero non compare tra i riferimenti culturali di Spinelli, ma vi compare ripetutamente Nietzsche). Mi riferisco al primo saggio di Holzwege, dal titolo « Der Ursprung des Kunstwerkes ».[2] Si tratta di uno scritto che ha come oggetto la natura dell’opera d’arte, ma che all’opera d’arte considera profondantente affine l’opera di fondazione di uno Stato (die stattsgründende Tat). Per Heidegger l’opera, sia dell’artista che del fondatore di Stati, ha come suo significato essenziale la fondazione della verità (Stiftung der Wahrheit). La verità quindi, come il bene di Spinelli, non è qualcosa che « esisteva fin da prima in qualche luogo tra le stelle », ma è qualcosa che accade, qualcosa che non viene scoperto, ma creato. E l’opera è l’espressione del conflitto permanente tra il mondo(die Welt), il principio che mette in luce le cose, apre delle radure nella foresta inestricabile dell’essere, determina le scelte sulle quali un popolo gioca il suo destino, e quindi dà alla sua vita storica il suo senso (il « fragile mondo luminoso » di Spinelli) e la terra (die Erde), l’elemento primigenio, muto e oscuro della chiusura, dell’occultamento (Verborgenheit), che è insieme il fondamento che regge l’opera dell’artista e del fondatore di Stati e la materia di cui egli si serve per creare il suo mondo, una entità che è assai simile alla divinità di Spinelli, « bassa, possente, eterna e caotica ».
La storia non ha quindi un senso che leghi in un disegno le sue fasi successive. Non è un discorso che ogni generazione riprende dalla precedente e trasmette alla successiva perché lo continui a sua volta (anche, beninteso, confrontandosi dialetticamente con il passato e negandolo). Si deve dire piuttosto che ogni popolo e ogni epoca hanno una propria verità e un proprio senso: quello che viene loro dato dai creatori delle opere che fondano la verità (« ogni approdo è il principio di una nuova navigazione »).
Ma perché la verità viva nell’opera non è sufficiente il creatore (der Schaffende). Poiché fondare la verità significa aprire uno spazio, una radura nella foresta dell’essere, elevare una parte dell’essere al di sopra della terra, che ne rimane il fondamento, ma che tende ad inghiottirlo di nuovo nella sua chiusa impenetrabilità, è essenziale la presenza di qualcuno che stia nella radura aperta dal creatore, che custodisca l’opera (die Bewahrenden). La verità quindi è fondata da pochi creatori e da questi partecipata a chi ne sa custodire l’opera.
Tutti gli altri, gli uomini della quotidianità, della Alltaeglkichkeit, non entrano in linea di conto. La storia è un teatro in cui pochissimi recitano, qualcuno assiste, e tutti gli altri passano a lato senza accorgersi di nulla.
 
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Ma ancora più precise sono le corrispondenze che si trovano tra le riflessioni di Spinelli e le caratteristiche di quella stazione della Logique de la Philosophie[3] di Eric Weil che lo stesso Weil chiama l’oeuvre. Nella fenomenologia di Weil l’uomo in cui prende corpo l’atteggiamento dell’opera è un post-hegeliano: conosce Hegel, ma va al di là di Hegel, non confutandolo, ma semplicemente rifiutandolo. « Egli sa che ogni sapere conduce alla scienza assoluta; egli non vuole sapere, non perché creda di non essere particolarità – sul terreno dell’essere e del sapere, sa di essere questo e nient’altro –, ma perché non si vuole particolarità, qualcosa che abbia il suo essere e il suo senso non in un altro (per non dire: neppure in un altro), ma in ciò che è la sua scomparsa nell’universale ».
Ciò non significa che l’uomo dell’opera sia egoista, o egocentrico. Al contrario, egli non si interessa del proprio io: « egli è l’opera e non è che l’opera ». L’opera, d’altra parte, è creazione, « fare qualcosa che non esisteva prima ». Ed essa « non ha un senso nel mondo; essa dà soltanto un senso al mondo, e questo senso non può essere anticipato perché è nella realizzazione ». Il creatore si identifica con il sentimento dell’opera, « che si chiama violenza nel linguaggio degli uomini per i quali la verità dell’esistenza è la convivenza; e così lo chiama lo stesso uomo dell’opera, se gli sembra opportuno; ed è una violenza totale, non meno totale del discorso, e che non conosce nulla al di fuori di sé stessa, la violenza che ha creato, crea e creerà tutto ciò che è stato, è e sarà.
Il discorso è confutato dal fatto; nulla è compreso o comprensibile davanti al fatto creatore, la storia non è finita: non c’è storia, né comprensione, né discorso davanti al sentimento dell’opera ». L’uomo dell’opera non ha un linguaggio, ma ne è il padrone. Ne consegue che, non essendo immerso in un discorso che è già là prima di lui e che è l’elemento costitutivo del carattere « generico » dell’uomo, che fonda l’intima comunione di ogni uomo con ognuno dei suoi simili (ai quali si sente uguale perché partecipe degli stessi significati), l’uomo dell’opera è « non solo unico... ma solo. Sarebbe assurdo per lui immaginarsi al posto di un altro, perché non esistono posti né esseri comparabili. Non esistono gli uomini, se non nel senso in cui la specie homo deve essere trattata diversamente dalla specie canis; c’è lui, e anche questo è quasi falso, perché non si tratta d’essere, ma di fare, e qualsiasi giudizio ‘teorico’ è senza alcuna portata, se non nell’ordine pratico. Egli è solo, solo assolutamente, non isolato come chi sia, o si sia, appartato da una comunità alla quale continua ad appartenere. Gli altri lo guardano come uno di loro: peggio per loro; lui può lasciarli in questa opinione, addirittura accreditarla, così come si può mostrare un loro nemico irriducibile con il quale ‘non si può vivere’, che è ‘pazzo’ o ‘geniale’: tutto ciò dipende da lui, dalla sua opera e dai mezzi che ritiene appropriati per realizzarla ».
Tutto ciò non significa evidentemente che il creatore non si debba servire del linguaggio che esisteva prima di lui, né che non ne faccia uso per parlare agli altri uomini. L’opera si realizza nel mondo, quindi attraverso gli uomini, così come sono fatti. Ma il linguaggio non è che uno strumento per la realizzazione dell’opera. « Gli uomini non sono che mezzi..., il linguaggio serve ad usarli, ma non ha senso in sé, cioè indipendentemente dalla sua funzione ». Agendo così, il creatore è sincero, perché egli è il sentimento dell’opera, che in sé non ha alcun interesse alla coerenza logica, ad avere « de la suite dans les idées ». « Il linguaggio dell’uomo dell’opera è quindi linguaggio del sentimento che si rivolge al sentimento. Ed è questo che gli consente di essere sincero, perché non sono le sue parole e il loro contenuto che contano... Ciò che dice il creatore non forma quindi un discorso; se si vuole designarne con un termine il contenuto mutevole e sempre identico (per noi), lo si può chiamare mito ». Sono frasi che evocano in modo assai suggestivo l’opposizione tra linguaggio notturno e linguaggio diurno nelle memorie di Spinelli (dove il linguaggio notturno, il « puro monologo », il « contatto panico », è il sentimento dell’opera).
Ma, se è vero che il linguaggio fonda la « genericità » del genere umano, cioè è il legame che unisce gli uomini nel sentimento della comune appartenenza all’umanità, il fatto che il linguaggio sia utilizzato come un puro strumento implica che siano utilizzati come strumenti anche gli uomini. Ciò emerge chiaramente dalla frase di Weil che ho citato prima: « Gli uomini non sono che mezzi... »; e ancora: « Gli uomini sono la massa, il materiale dell’opera », l’uomo dell’opera « non può parlare con gli altri, ma soltanto agli altri.
Questo vale evidentemente anche per coloro che condividono il suo disegno, perché l’uomo dell’opera non ha nessuno al suo fianco. Ha dei collaboratori, può avere degli amici tra coloro che, senza collaborare alla sua opera, accettano il suo mito, conosce dei nemici, quelli in particolare che contrappongono un altro mito al suo...; ma non può avere degli uguali ».
 
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Io tendo a riconoscermi, e a riconoscere coloro che combattono sul mio stesso fronte, in un’altra categoria di Weil (dove riconoscersi in una categoria significa prenderla come criterio regolativo del proprio comportamento politico): quella dell’azione (una categoria che nella realtà si identifica con quella del senso, anche se Weil non poteva ammetterlo perché, come filosofo puro, era costretto a separarle e a porre la seconda come posteriore alla prima). L’uomo dell’azione non è padrone del linguaggio, ma ha coscienza di sé come anello di una catena significante che è la storia. Si tratta certo di un anello che continua la catena, e che quindi contribuisce alla determinazione del senso dell’intero contesto, ma che a sua volta dal contesto riceve il suo senso. Egli riconosce quindi la realtà di un linguaggio che era già là prima di lui, e attraverso il quale egli ha dato un nome alle cose e formulato le sue scelte di vita. Un linguaggio il cui senso non è certo « da qualche parte, tra le stelle », ma è negli uomini, in tutti gli uomini, e costituisce l’atmosfera, il mezzo che rende possibile la comunicazione tra di loro, consente loro di collaborare per rendere più ricco il senso della loro convivenza, cioè per continuare il discorso corale della storia instaurando una continuità di senso tra coloro che sono stati, i viventi e coloro che verranno. Ed è proprio questo linguaggio, di cui tutti partecipano, ma di cui nessuno è padrone, che fonda quell’uguaglianza essenziale degli uomini tra di loro che fa sì che ognuno di essi sia, almeno potenzialmente, capace di vedere la verità che è negli altri e di operare per realizzarla. Certo, il senso è spesso sepolto nell’anima degli uomini: esso diverrà esplicito in tutti soltanto alla fine della preistoria. Per ora, la lotta per l’emancipazione dell’umanità non può rinunziare completamente all’astuzia e alla violenza. Ma lo strumento fondamentale dell’uomo dell’azione rimane il discorso razionale, il dialogo tra uomini di uguale dignità, nella comune ricerca della verità nella storia.
L’uomo dell’azione non ha quindi due linguaggi ma, almeno tendenzialmente, uno solo. E la trasformazione storica non è per lui creazione dal nulla da parte di un singolo individuo, ma un’impresa collettiva, teorica e pratica insieme, attraverso la quale l’uomo diviene ciò che è, cioè scopre e rivela la sua essenza.
 
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Io credo che per realizzare, nella nostra epoca, una grande trasformazione storica qual è la fondazione della Federazione europea, siano necessari sia l’uomo dell’opera che gli uomini dell’azione, per profondo che sia il fossato psicologico che li divide. Ed è doveroso ricordare che l’uomo dell’opera è un eroe, e quindi è uno solo, e non si può sostituire, mentre ognuno degli uomini dell’azione, preso individualmente, è fungibile. Per questo ho una profonda ammirazione per Spinelli, anche se non lo amo, e oggi lo sostengo con tutte le mie forze, anche se non sono un suo seguace.
 
Francesco Rossolillo
 
 
 


[1] Altiero Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio. 1. Io, Ulisse, Bologna, Società editrice Il Mulino, 1984. Le citazioni che seguono sono tratte dalle pp. 166, 208, 277, 319, 343.
[2]Vedi Martin Heidegger, Holzwege, Frankfurt a. Main, Vittorio Klostermann, 1963 (1a ed. 1950), pp. 50-62.
[3]Eric Weil, Logique de la philosophie, Paris, Librairie philosophique J. Vrin, 1974 (1a ed. 1967). Le citazioni che seguono sono tratte dalle pp. 362, 363, 352, 357, 354, 353, 360, 357, 358, 359.

 

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