IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXVI, 1984, Numero 3, Pagina 220

 

 

LA GRAN BRETAGNA E LA COMUNITÀ: UN DIBATTITO APERTO
 
 
Mentre il processo di costruzione dell’Unione europea, dopo l’approvazione del progetto di Trattato da parte del Parlamento di Strasburgo, è entrato nella fase della collaborazione intergovernativa con i lavori del Comitato Dooge, ancora una volta si ha l’impressione che un ruolo importante di freno possa essere esercitato dalla Gran Bretagna, nel senso che, per ottenere il consenso inglese, sembra inevitabile diluire in modo significativo il contenuto innovativo del progetto, rischiando così di perdere il minimo politico-istituzionale indispensabile per garantire alla Comunità un’effettiva capacità di governo dell’economia europea.
Ma occorre ricordare che in passato le cose, spesso, sono andate diversamente. Senza risalire all’epoca fra le due guerre, quando il gruppo di Federal Union ha rappresentato l’avanguardia federalista,[1] anche nel secondo dopoguerra, durante la fase della politica americana di unità europea, l’elemento di autonomia fu anticipato proprio da Churchill che in quel periodo parlò il nome dell’Europa e lanciò persino l’idea di un esercito europeo, garantì insomma un certo spirito europeo a una politica decisa fuori dall’Europa, nell’America del Nord. Ma quando, nella fase successiva del processo, si pose il problema di inquadrare la Germania nel sistema dell’unità atlantica e dell’unità economica europea, e la CECA e la CED vennero proposte anche alla Gran Bretagna, che era rimasta nel gioco durante la fase precedente, questa rifiutò di sottomettersi ai vincoli sovrannazionali troppo cogenti, e l’avvio dell’effettiva unificazione economica si fece senza gli Inglesi. E anche successivamente, dopo l’ingresso tardivo della Gran Bretagna nel Mercato comune, essa non seppe più ritrovare la posizione di leadership del processo che aveva avuto in passato.
È quindi molto importante che in questa fase, decisiva per il ruolo futuro che la Gran Bretagna potrà giocare in Europa, siano apparsi due libri, Britain and the EEC, a cura di Roy Jenkins, e Britain Within the European Community. The Way Forward, a cura di A. El-Agraa, che aprono un dibattito approfondito sugli effetti dell’appartenenza inglese alla Comunità e sulle cause capaci di spiegare l’atteggiamento di reticenza diffuso nell’opinione pubblica e nella classe politica di questo paese.[2]
Northedge individua così cinque fattori che possono giustificare questo atteggiamento: « In primo luogo, almeno per due secoli la Gran Bretagna è stata la potenza marittima per eccellenza, capace di proteggere il suo sparso impero e il suo commercio mondiale con una flotta pari, fino al 1921, al complesso delle altre due flotte più forti. La Gran Bretagna aveva, come potenza navale e commerciale di primo rango, interessi troppo estesi per essere confinati in Europa (...). In secondo luogo, a memoria d’uomo, il governo di Westminster ha sempre lavorato per la divisione, e non per l’unità dell’Europa. La tradizionale politica inglese verso l’Europa, naturale per una piccola isola separata da un continente turbolento, era l’equilibrio di potenza, ovvero l’organizzazione di coalizioni internazionali contro lo Stato più minaccioso dell’epoca, la Francia di Luigi XIV e di Napoleone, la Germania del Kaiser e di Hitler. L’unificazione dell’Europa non poteva costituire un progetto caro agli Inglesi, in quanto l’Europa unita sarebbe stata in grado di disarmare le proprie forze terrestri per investire i risparmi conseguenti nella potenza marittima, mettendo così in pericolo l’indipendenza della Gran Bretagna (...). Il fatto che dal 1918 in poi molti progetti di unificazione europea abbiano avuto la loro origine in Francia rappresenta una terza ragione per spiegare la mancanza di entusiasmo inglese in proposito (...). In quarto luogo, la Gran Bretagna ha avviato alla fine della seconda guerra mondiale un programma di ricostruzione economica e sociale (...). La ricostruzione implicava la creazione di un nuovo sistema di servizi sociali per proteggere i disoccupati, i malati e in generale i socialmente deboli; implicava inoltre la garanzia della piena occupazione e il passaggio sotto la mano pubblica di settori chiave dell’economia come strumento per raggiungere questi obiettivi (...). Infine, vi era il problema della sovranità. Gli Inglesi hanno trovato più difficile della maggior parte dei popoli accettare l’idea che la sovranità può essere suddivisa, mantenendone una parte in patria e trasferendone il resto a Bruxelles o in altro luogo ».[3]
Il ruolo particolare dell’Inghilterra è stato sottolineato soprattutto da Dehio,[4] che ha messo in evidenza come la storia del sistema europeo degli Stati, da Carlo V alla seconda guerra mondiale, sia stata caratterizzata dalla continua alternanza di fasi di equilibrio o di tentativi egemonici, sempre frustrati dalla coalizione degli Stati minacciati nella loro indipendenza dalla potenza egemone. In questa coalizione un ruolo decisivo spettava all’Inghilterra che, in quanto potenza insulare, poteva garantire la sua assoluta sicurezza con la disponibilità di una flotta adeguata, senza dover ricorrere all’esercito permanente e all’accentramento amministrativo – i principali strumenti con i quali fu costruito lo Stato assoluto del XVII e XVIII secolo. L’Inghilterra ha potuto sviluppare così pienamente la rivoluzione liberale, ma a questo fine ha dovuto battersi volta a volta contro la potenza più forte del continente, e in particolare contro la Francia.
Per quanto riguarda il quarto motivo indicato da Northedge, è vero che in Gran Bretagna, nell’immediato dopoguerra, la costruzione del Welfare State è avanzata più rapidamente che non sul Continente. È pur vero che la filosofia dominante del Trattato di Roma è sostanzialmente liberista. Ma da questo non segue che nel quadro della progettata Unione europea si debba necessariamente realizzare un livellamento verso il basso delle conquiste sociali già realizzate da qualche Stato membro. In realtà, con la costruzione dell’Unione europea, dotata di poteri di governo efficaci nel campo economico e monetario, si determinerebbe una situazione del tutto nuova per quanto riguarda gli Stati moderni, in quanto le politiche tipiche del Welfare State – sanità, tutela dei disoccupati, degli anziani e degli invalidi, istruzione – rimarrebbero di competenza dei livelli inferiori di governo (gli Stati membri), mentre l’Unione avrebbe la responsabilità di definire le linee generali della politica economica (il piano europeo di sviluppo) e di attuare una redistribuzione delle risorse al fine di garantire condizioni di partenza simili anche per le aree più deboli. Nel quadro dell’Unione risulterebbero quindi compatibili scelte diverse per quanto riguarda il livello di protezione sociale e, d’altra parte, ogni Stato dovrebbe finanziare il proprio sistema con imposte nazionali, in quanto non disporrebbe più della sovranità monetaria. In questo modo si potrebbe realizzare un risanamento del Welfare State, che ha visto una degenerazione assistenzialistica dovuta al fatto che, al fine di acquisire consenso, la classe politica può aumentare le prestazioni pubbliche ricorrendo al finanziamento monetario dei disavanzi, senza dover procedere ad un contestuale inasprimento delle imposte. E, nello stesso tempo, i cittadini dell’Unione, voting with the feet,[5] potrebbero scegliere il paese la cui combinazione di livelli di prestazioni sociali e di imposizione meglio corrisponde alle proprie preferenze, realizzando così le condizioni concorrenziali tipiche di uno Stato federale.
Per quanto riguarda infine il dogma dell’intangibilità della sovranità assoluta dello Stato, è chiaro che esso può essere più facilmente superato in quei paesi in cui la sovranità « fu in un momento o in un altro espropriata nel corso della seconda guerra mondiale. Una volta che la sovranità è stata persa, è meno difficile assuefarsi all’idea di perderla di nuovo. La Gran Bretagna, invece, è rimasta una virgo intacta durante la seconda guerra mondiale ».[6] Viene qui implicitamente messo in evidenza quel fattore di unità dell’Europa che Albertini ha definito ‘il declino della sovranità nazionale’[7] e che si esprime nel fatto che i paesi europei non sono più in grado di far fronte efficacemente ai due compiti fondamentali di ogni Stato: la promozione dello sviluppo economico e la garanzia della sicurezza per i propri cittadini.
In effetti, gli Stati europei, incapaci di provvedere autonomamente alla propria difesa, si sono affidati alla protezione americana nel quadro dell’alleanza atlantica. Ma « le teorie positive dell’alleanza dimostrano che i suoi membri hanno un forte incentivo a limitare l’offerta del bene pubblico difesa prima che sia stato raggiunto il livello desiderabile di produzione per l’intero gruppo (dal momento che i costi marginali per un paese sono maggiori dei benefici marginali per il paese stesso). Tuttavia, il modello riconosce che gli aumenti opportuni nella produzione del bene pubblico difesa possono essere realizzati sostituendo un’unione all’alleanza. In questo modo è possibile richiedere alle varie parti dell’unione di contribuire nella misura necessaria sulla base del loro interesse comune. Nel caso della Comunità europea, l’analisi implica che un’unione politica europea è il mezzo per conseguire l’obiettivo di un livello ottimale di difesa europea ».[8] Su questa base, Hartley sostiene l’inefficacia di ogni tentativo di conseguire una struttura difensiva ottimale a livello europeo in un quadro confederale. « Senza una agenzia centrale incaricata di prendere le decisioni in materia di difesa tenendo conto delle esigenze di sicurezza collettiva della Comunità, ogni sforzo da parte della CEE di ridistribuire gli oneri militari difficilmente modificherebbe gli incentivi per ciascun paese di scegliere la combinazione di spesa militare e di forze che massimizza i benefici nazionali ». Si può procedere soltanto sulla strada della standardizzazione degli armamenti, che da un lato ridurrebbe il costo complessivo della difesa in misura significativa (in uno studio citato da Hartley si stima che la duplicazione degli sforzi nel settore militare fra i paesi europei ha un costo pari a 4,4 miliardi di dollari, a prezzi 1975) e d’altro lato costituirebbe un forte incentivo allo sviluppo tecnologico dell’industria europea: ma anche questo obiettivo non è facilmente conseguibile, in quanto « le proposte per il varo di un’agenzia centralizzata per le commesse pubbliche in questo settore implicano un grado di unità politica che è possibile soltanto nel lungo periodo ».
Anche se i problemi della politica estera e della difesa non rientrano nelle competenze della Comunità definite ai sensi del Trattato di Roma, si è nel tempo sviluppata una prassi di coordinamento dell’attività dei paesi europei in questi settori nel quadro della c.d. cooperazione politica. Ma « il sistema della cooperazione politica europea è ancora ben lungi dal penetrare in quell’area essenziale della politica estera rappresentata dai problemi della difesa militare e della sicurezza ».[9] E, più in generale, come osserva Morgan, « la cooperazione politica, nonostante la sua definizione pretenziosa, rimane essenzialmente un sistema di coordinamento diplomatico fra i ministri degli Esteri dell’Europa occidentale (...) ed è ancora molto lontana dall’obiettivo ambizioso di creare l’Unione europea, che i governi della Comunità si sono proposti fin dal 1972 ».
E di fatto l’Unione europea, che il declino della sovranità nazionale rende storicamente possibile, non è stata ancora realizzata, anche se il tentativo di fondarla è attualmente in corso in seguito all’iniziativa del Parlamento europeo. E l’assenza di un’Unione compiuta è il motivo di fondo per cui le politiche che la Comunità gestisce risultano inadeguate per promuovere lo sviluppo economico e garantire così il superamento del divario che sempre più si allarga fra l’Europa da un lato e gli Stati Uniti e il Giappone dall’altro. È quindi opportuno che, anche in Gran Bretagna, queste politiche siano poste in discussione, mettendone in evidenza sia gli aspetti negativi che quelli positivi – anche se questi vengono troppo spesso sottostimati.[10]
La conclusione generale che emerge da questo dibattito è che, pur ponendosi soltanto dal punto di vista dell’interesse inglese, in Europa devono essere sviluppate nuove politiche e devono essere rafforzate le politiche già esistenti. Infatti, « gli Stati membri non saranno in grado di controllare la stagflazione e di rimettere in ordine le loro economie accoppiando la stabilità dei prezzi con la piena occupazione e con uno sviluppo equilibrato se essi non doteranno la Comunità di strumenti efficaci, come un Fondo comune di riserve, e di mezzi finanziari adeguati per la politica industriale comune »:[11] si tratta, in altre parole, di portare a compimento l’Unione economico-monetaria.
Il raggiungimento di questo obiettivo presuppone tuttavia la fondazione dell’Unione europea, perché è impensabile che le decisioni di grande rilievo, che sono indispensabili per conseguire l’Unione economico-monetaria, possano essere assunte senza una effettiva partecipazione delle forze politiche e sociali e senza una adeguata capacità di governo a livello europeo. È quindi giusto che anche in Gran Bretagna il dibattito in corso sulla riforma delle politiche comuni si colleghi sempre di più al dibattito, non ancora pienamente sviluppato, sulla riforma delle istituzioni. E opportunamente Pinder, dopo aver ricordato il contributo dato dai federalisti inglesi intorno agli anni ‘40, e dopo aver rilevato che una teoria federalista oggi dovrebbe mostrare « quali strumenti minimi siano necessari per la gestione dell’economia nella Comunità nello stadio attuale di integrazione dei mercati, quali cambiamenti minimi siano necessari nelle istituzioni comunitarie per assicurare l’uso adeguato di quegli strumenti, e in quali condizioni si possano trasferire alla Comunità gli strumenti e si possa realizzare la riforma istituzionale », conclude affermando che « una di tali condizioni è una chiara riflessione su questo tema. Si deve sperare che gli intellettuali inglesi siano capaci di emulare, sotto questo profilo, i loro predecessori di quarant’anni fa ».[12]
 
Alberto Majocchi


[1]Su questo punto si veda, in questo numero della Rivista: C. Kimber, La nascita di Federal Union, pp. 206-213.
[2]Cfr. R. Jenkins (ed.), Britain and the EEC, Macmillan, London, 1983; A.M. El-Agraa (ed.), Britain Within the European Community. The Way Forward, Macmillan, London, 1983.
[3]Cfr. F.S. Northedge, Britain and the EEC: Past and Present, in R. Jenkins, cit., p. 20.
[4]Cfr. L. Dehio, Gleichgewicht oder Hegemonie, Scherpe, Krefeld, 1948.
[5]Questa espressione, che indica come i cittadini possano scegliere localizzazioni diverse tenendo conto anche delle scelte che si manifestano attraverso il bilancio pubblico, è stata inizialmente introdotta da C.M. Tiebout, « A Pure Theory of Local Government Expenditure », in Journal of Political Economy, ottobre 1956.
[6]Cfr. F.S. Northedge, cit., p. 24.
[7]Cfr. M. Albertini, L’integrazione europea e altri saggi, Il Federalista, Pavia 1965, p. 89.
[8]Cfr. K. Hartley, EC Defence Policy. in A.M. El-Agraa, cit., pp. 306 segg.
[9]Cfr. R. Morgan, Political Cooperation in Europe, in R. Jenkins, cit., pp. 238-240.
[10]Per un’efficace ed analitica valutazione di questi aspetti positivi si veda, in particolare: A.M. El-Agraa, Has Membersbip of the EEC Been a Disaster for Britain?, in A.M. El-Agraa, cit., pp. 319 segg.
[11]Cfr. J. Pinder, History, Politics and Institutions of the EC, in A.M. El-Agraa, cit., p. 37.
[12]Cfr. J. Pinder, The Political Institutions of the EEC: Functions and Future, in R. Jenkins, cit., p. 227.

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