IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XL, 1998, Numero 3, Pagina 219

 

 

ERNESTO ROSSI E IL MANIFESTO DI VENTOTENE
 
 
    Solo recentemente il federalismo è diventato in Italia una concezione politica largamente diffusa e condivisa. E ciò è certamente un effetto del successo dell’unificazione europea e del movimento di idee che l’ha ispirata. Ma nel corso del XIX e di gran parte del XX secolo il federalismo è rimasto sostanzialmente estraneo alla cultura italiana, che, come quella dominante nel resto del continente europeo, ha subìto l’influenza del modello politico dello Stato francese, cioè della «repubblica una e indivisibile».
    Nel periodo tra la rivoluzione francese e la seconda guerra mondiale, il federalismo non divenne mai un principio di azione politica, né riuscì a incidere sul movimento storico nel continente europeo, se non in un piccolo Stato come la Svizzera, la quale adottò il modello costituzionale degli Stati Uniti d’America. Essa, grazie alla posizione marginale e al ruolo neutrale che aveva nel sistema europeo degli Stati, era rimasta al riparo dagli effetti accentratori determinati dai conflitti di potenza. In conseguenza di ciò, è riuscita a mantenere fino ad oggi una forma di organizzazione dello Stato, articolata su due livelli di governo (quello federale e quello cantonale) indipendenti e coordinati. Tuttavia, la corrente più profonda della storia favoriva l’affermazione del principio opposto: quello dello Stato unitario e accentrato.
    Ma il punto di vista federalistico consentì di individuare i limiti dell’organizzazione dell’Europa in Stati nazionali. Nella cultura politica italiana il federalismo di Carlo Cattaneo è stato il punto di vista di un pensatore solitario, rimasto ai margini del moto risorgimentale. Egli aveva visto, come altri nel secolo scorso (per esempio Constantin Frantz in Germania o Pierre-Joseph Proudhon in Francia), gli aspetti negativi della formula politica dello Stato nazionale unitario. Aveva intuito il rapporto profondo che esiste tra la guerra e la sovranità assoluta degli Stati, tra l’anarchia internazionale e il prevalere all’interno degli Stati di tendenze accentratrici, militaristiche e autoritarie. Di conseguenza, aveva contestato la pretesa dello Stato unitario di presentarsi come la forma più elevata di organizzazione politica.
    Durante la rivoluzione del 1848, come avvenne sempre a partire dalla rivoluzione francese ogniqualvolta l’Europa fu scossa da una grave crisi di carattere rivoluzionario o bellico, emerse l’esigenza di riorganizzare il continente su basi democratiche e da diverse parti (per esempio Considérant, Hugo, Lamartine, Ruge) fu alzata la bandiera degli Stati Uniti d’Europa. Cattaneo fu tra i primi a usare questa formula nelle Memorie sull’Insurrezione di Milano del 1848. «Avremo pace vera egli scrisse a conclusione del saggio, quando avremo gli Stati Uniti d’Europa»[1].
    La conoscenza dei meccanismi istituzionali dello Stato federale offrì a Luigi Einaudi un criterio per mettere in luce i limiti della Società delle Nazioni e per indicare nella Federazione europea l’unica reale alternativa alla guerra. La prima guerra mondiale segna l’inizio di una nuova fase della storia dell’Europa nel corso della quale comincia a manifestarsi la crisi della formula politica dello Stato nazionale e la decadenza del sistema europeo degli Stati. Con Einaudi si fa strada un’idea nuova, che attribuisce alla crisi dello Stato nazionale la causa della guerra e indica un’alternativa precisa: gli Stati Uniti d’Europa.
    In effetti, lo Stato nazionale aveva garantito il progresso dell’Europa finché era stato in grado di controllare lo sviluppo della produzione industriale, che tendeva a intensificare e a moltiplicare le relazioni economiche e sociali tra gl’individui e a unificarle su spazi sempre più vasti. Con l’estensione delle relazioni di produzione e di scambio al di là dei confini degli Stati, le singole società sono uscite dal loro originario isolamento e sono diventate sempre più strettamente interdipendenti. Si è formato così un sistema economico-sociale di dimensioni mondiali, il mercato mondiale, dal quale dipendono tutti gli uomini e tutti i popoli per il soddisfacimento dei loro bisogni. Di fronte a questa tendenza, la formula politica dello Stato-nazione è entrata in decadenza. Alla radice della crisi dello Stato nazionale c’è la contraddizione tra l’internazionalizzazione del processo produttivo e la dimensione nazionale del potere politico. Di conseguenza, a causa della frammentazione dell’Europa in molti piccoli Stati, che frenavano lo sviluppo delle moderne forze produttive, la potenza tendeva a emigrare verso gli sterminati spazi degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, dove la tendenza all’allargamento dei rapporti di produzione e di scambio non incontrava ostacoli.
    Secondo Einaudi, la prima guerra mondiale deve essere interpretata alla luce del concetto di crisi dello Stato nazionale e dell’esigenza di unità dell’Europa. «La guerra presente», egli scrisse nel 1918, «è la condanna dell’unità europea imposta con la forza da un impero ambizioso, ma è anche lo sforzo cruento per elaborare una forma politica di ordine superiore»[2]. In altri termini, la guerra fu l’espressione negativa del bisogno di unità dell’Europa e la ricerca dello spazio vitale da parte della Germania fu il tentativo di assecondare con mezzi violenti la spinta delle forze produttive, che imponevano un’economia, una società e uno Stato di dimensioni europee.
    L’alternativa democratica e razionale all’imperialismo tedesco era rappresentata, secondo Einaudi, dalla Federazione europea, che avrebbe permesso di unificare l’Europa attraverso la via del consenso, con «la spada di Dio», anziché con quella «di Satana», come disse nel memorabile discorso del 27 luglio 1947 all’Assemblea costituente[3]. Nell’epoca della crisi dello Stato nazionale, l’alternativa di fronte alla quale si trovano gli Stati non è tra l’unità o la divisione, ma tra due diverse forme di unità: l’impero o la federazione.
    Nello stesso tempo, Einaudi considera la Federazione europea come un’alternativa ai limiti della Società delle Nazioni. Questa organizzazione internazionale era stata creata per garantire la pace, ma era del tutto inadeguata allo scopo, perché priva di un potere proprio, capace di limitare la sovranità degli Stati. Avendo individuato il vizio radicale dell’organizzazione, Einaudi formulò lucidamente, in due articoli pubblicati sul Corriere della sera nel 1918[4], la previsione che essa non avrebbe eliminato la divisione, i conflitti e la guerra tra gli Stati. E la seconda guerra mondiale confermerà puntualmente questa previsione.
    Altri autori, come Giovanni Agnelli e Attilio Cabiati in Italia, Lord Lothian in Inghilterra, Jacques Lambert in Francia, Clarence Streit negli Stati Uniti, formularono analoghe critiche alla Società delle Nazioni nel periodo tra le due guerre mondiali, basandosi sulla teoria dello Stato federale. Resta il fatto che Einaudi fu capace di individuare i limiti della Società delle Nazioni quando questa istituzione era ancora allo stadio di progetto.
    Questi scritti, che Einaudi, sotto lo pseudonimo di Junius, raccolse nel 1920 nel volumetto intitolato Lettere politiche[5], pubblicato da Laterza, non ebbero alcuna influenza sul dibattito politico-culturale del primo dopoguerra e furono dimenticati dallo stesso autore.
    Quando, durante la seconda guerra mondiale, le Lettere politiche di Junius caddero per caso nelle mani di due antifascisti, Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, confinati nell’Isola di Ventotene, apparvero come una rivelazione. Quelle pagine (insieme con alcuni libri di Lord Lothian e di Lionel Robbins, le personalità di punta della scuola federalista, sviluppatasi in Inghilterra negli anni ’30) costituirono il punto di partenza delle riflessioni che portarono all’elaborazione del Manifesto di Ventotene.
    Ciò che unisce questi due personaggi non è semplicemente l’antifascismo. E’anche l’insoddisfazione per le concezioni politiche tradizionali, che avevano rivelato la loro inadeguatezza a contrastare il fascismo. Di qui la ricerca di nuove formule politiche.
    Il grande merito di Rossi è stato quello di aver fatto circolare la letteratura federalista a Ventotene. Essendo professore di economia, era stato autorizzato a corrispondere con Luigi Einaudi, il quale aveva fatto pervenire a Ventotene alcuni preziosi libri federalisti del tutto sconosciuti alla cultura politica italiana. Qui risiedono le fonti ispiratrici del Manifesto di Ventotene.
    La grandezza di questi uomini sta nell’aver visto, al di là delle apparenze, la linea evolutiva profonda della storia contemporanea. Nel momento in cui Hitler dominava l’Europa, dopo aver piegato la Francia, e muoveva all’attacco dell’Unione Sovietica, questi pensatori solitari, meditando nell’isolamento del confino sull’assetto che l’Europa e il mondo avrebbero assunto dopo la tragedia della guerra, ebbero la forza intellettuale di lanciare l’idea degli Stati Uniti d’Europa.
    Non è possibile fare in questa sede un esame approfondito del Manifesto di Ventotene. Mi limiterò a enucleare i concetti essenziali, che mi sembra segnino la novità del documento, che rappresenta una vera e propria svolta nella letteratura federalista: il passaggio dalla riflessione teorica al programma di azione.
    Per quanto riguarda i fondamenti teorici della concezione politica del Manifesto, il concetto di crisi dello Stato nazionale occupa una posizione centrale. Scrive Colorni nella prefazione: «Si fece strada, nella mente di alcuni, l’idea centrale che la contraddizione essenziale, responsabile delle crisi, delle guerre, delle miserie e degli sfruttamenti che travagliano la nostra società, è l’esistenza di Stati sovrani, geograficamente, economicamente, militarmente individuati, consideranti gli altri Stati come concorrenti e potenziali nemici, viventi gli uni rispetto agli altri in una situazione di perpetuo bellum omnium contra omnes»[6]. Questo concetto permette di rileggere in una nuova prospettiva la storia contemporanea. Su questa base, gli autori del Manifesto approfondirono l’analisi delle cause dell’imperialismo e del fascismo, i cui elementi essenziali erano già presenti nelle opere dei loro maestri. Ciò che scatenò questi fenomeni fu la fusione di Stato e nazione. Essa creò una miscela esplosiva che sviluppò tendenze autoritarie all’interno dello Stato e aggressive sul piano internazionale. La spiegazione dell’aggressività dello Stato è collocata nel contesto della teoria della ragion di Stato, la quale attribuisce, in ultima istanza, alla sovranità statale e all’anarchia internazionale la causa dell’imperialismo e della guerra. La causa più specifica dell’imperialismo dell’epoca delle guerre mondiali è individuata nella crisi del sistema europeo degli Stati. Essa è determinata dalla crescente interdipendenza delle economie nazionali, che spinse ciascuno Stato a cercare di indebolire i propri vicini con il protezionismo e ad allargare lo spazio economico sottoposto al controllo di ciascuno di loro, e scatenò la guerra per l’egemonia continentale da parte della Germania.
    Per quanto riguarda il fascismo, esso è definito come il punto di arrivo dell’evoluzione storica dello Stato nazionale, l’espressione delle tendenze bellicose e autoritarie latenti nella sua struttura chiusa e accentrata e diventate virulente con l’esasperazione della lotta di potenza in Europa. Sul piano economico-sociale, il fascismo si configura come la risposta totalitaria e corporativa al ristagno economico di un mercato, le cui dimensioni sono inadeguate allo sviluppo delle moderne tecniche produttive, alla disgregazione della società, degradata a terreno dello scontro tra interessi corporativi, al bisogno di eliminare ogni divisione sociale, che indebolisce la capacità di difesa dello Stato, e all’esigenza di adattare il sistema produttivo agli imperativi di un’economia di guerra.
    Ma il Manifesto di Ventotene assume un significato veramente innovatore sul terreno dell’azione. Il federalismo assume così il carattere di un criterio di conoscenza e di azione, che ispira un nuovo comportamento politico e una lotta politica autonoma.
    L’autonomia della visione federalistica della politica e della storia rispetto a quella delle altre correnti politiche consentì di considerare la Federazione europea come una vera e propria alternativa politica al sistema degli Stati nazionali e come l’obiettivo prioritario di un nuovo programma politico, cui si ispira un nuovo movimento, organizzato unicamente per perseguire quell’obiettivo. Su questo terreno Spinelli si spinse più avanti lungo la nuova strada che Einaudi aveva cominciato a percorrere. L’esame del suo apporto permette di illuminare i due maggiori limiti del federalismo di Einaudi. Innanzi tutto, per quest’ultimo il federalismo restò una concezione accessoria al liberalismo, un semplice schema istituzionale capace di proteggere i valori e le istituzioni democratico-liberali dalle conseguenze dell’anarchia internazionale. Inoltre, non si trova nelle opere di Einaudi nessuna proposta politica per tradurre in realtà il disegno federalista. Sono questi anche i limiti della concezione del federalismo di Ernesto Rossi, la quale, nel complesso, era più vicina a quella di Einaudi che a quella di Spinelli. E ciò spiega perché Rossi, che pure era stato tra i promotori della fondazione del Movimento federalista europeo, abbia abbandonato l’impegno federalista dopo la caduta della Comunità europea di difesa (1954).
    Spinelli ha sviluppato una teoria dell’azione democratica per unificare un insieme di Stati, intesa come un nuovo settore del pensiero federalista. Gli orientamenti fondamentali sui quali ha basato la sua azione sono: a) l’attualità della lotta per la Federazione europea, b) la priorità della Federazione europea rispetto a qualsiasi altro obiettivo politico, c) lo spostamento sul piano internazionale della linea di divisione tra forze del progresso e forze della conservazione.
    a) Nel Manifesto di Ventotene c’è un atteggiamento diverso da quello di coloro che, in precedenza, avevano scelto il federalismo per definire la loro posizione verso il potere, la società e il corso della storia, ma si erano limitati a denunciare la crisi storica dello Stato nazionale, collocando la Federazione europea in un futuro indefinito, senza elaborare un preciso programma di azione. L’ispirazione politica di questo documento si basa su un’idea centrale, quella dell’attualità della Federazione europea, un obiettivo politico, che non è solo necessario ma è anche diventato possibile nel nuovo contesto storico creato dalla seconda guerra mondiale. La previsione che vi è formulata è che la guerra avrebbe fatto maturare le condizioni oggettive dell’unificazione europea, facendo evolvere la crisi storica dello Stato nazionale in crisi politica, e avrebbe aperto così la strada all’iniziativa federalista. «L’ideale di una Federazione europea, preludio di una Federazione mondiale», si legge nella prefazione, «mentre poteva apparire lontana utopia ancora qualche anno fa, si presenta oggi, alla fina di questa guerra, come una meta raggiungibile e quasi a portata di mano»[7]. La Federazione europea, intesa come tappa sulla via della Federazione mondiale, è l’obiettivo di una battaglia immediata e concreta, guidata da un movimento creato appositamente per condurre questa battaglia.
    b) La seconda novità consiste nella priorità strategica della lotta per la Federazione europea rispetto alla lotta per il rinnovamento dello Stato nazionale. Ciò che accomuna i partiti, che si ispirano alle ideologie liberale, democratica, socialista e nazionale, è la priorità che essi attribuiscono al miglioramento della situazione del loro Stato e la convinzione che la pace è la conseguenza automatica dell’affermazione rispettivamente dei principi della libertà, dell’uguaglianza, della giustizia sociale e dell’indipendenza nazionale. La specificità del punto di vista federalistico consiste nel rovesciamento di quest’ordine di priorità. Nel Manifesto si legge: «Il problema che in primo luogo va risolto e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in Stati nazionali sovrani... Chi voglia proporsi il problema dell’ordinamento internazionale come quello centrale dell’attuale epoca storica, e consideri la soluzione di esso come la premessa necessaria per la soluzione di tutti i problemi istituzionali, economici, sociali che si impongono alla nostra società», deve «di necessità considerare da questo punto di vista tutte le questioni riguardanti i contrasti politici interni e l’atteggiamento di ciascun partito, anche riguardo alla tattica e alla strategia della lotta quotidiana»[8].
    Il fatto è che chi si occupa solo del rinnovamento nazionale non interviene sulla causa dei conflitti internazionali, dell’imperialismo e della guerra. A causa dell’anarchia internazionale, l’indipendenza nazionale tende a convertirsi in nazionalismo, la libertà tende a essere sacrificata all’esigenza di accentrare il potere e di privilegiare la sicurezza militare, le spese militari sono un’alternativa alle spese sociali. Tutto ciò illumina la mancanza di autonomia della politica interna e l’illusione della riforma dello Stato nazionale, ormai superato da processi che lo trascendono.
    Di conseguenza, «se la lotta restasse domani ristretta nel tradizionale campo nazionale, sarebbe molto difficile sfuggire alle vecchie aporie»[9]. Poiché le forze politiche tradizionali perseguono la riforma dello Stato nazionale, rimangono prigioniere di questa istituzione, ne subiscono la decadenza e si collocano quindi sul terreno della conservazione.
    c) Ne deriva quindi, in terzo luogo, lo spostamento del centro della lotta politica dal piano nazionale a quello internazionale. Tende cioè ad affermarsi una nuova linea di divisione tra le forze del progresso e quelle della conservazione, come si legge nel Manifesto di Ventotene.
    «La linea di divisione tra partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa quelli che concepiscono come fine essenziale della lotta quello antico, cioè la conquista del potere politico nazionale — e che faranno, sia pure involontariamente, il gioco delle forze reazionarie, lasciando solidificare la lava incandescente delle passioni popolari nel vecchio stampo, e risorgere le vecchie assurdità — e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido Stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopreranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale»[10].
    Nell’epoca della crisi dello Stato nazionale e dell’internazionalizzazione del processo produttivo, lo scontro tra le forze del progresso e quelle della conservazione non si svolge più sul terreno nazionale tra i principi della libertà e della dittatura o tra quelli del socialismo e del capitalismo. Chi sceglie di impegnarsi sul piano nazionale, anche se il suo obiettivo è di realizzare più democrazia o più socialismo, si pone sul terreno della conservazione, perché la sua azione politica consolida gli Stati nazionali. Di conseguenza, l’obiettivo da perseguire innanzi tutto da parte di chi vuole promuovere il progresso è l’impegno per superare la divisione dell’Europa e del mondo in Stati sovrani. L’epoca sovranazionale della storia fa emergere una nuova linea di divisione tra le forze politiche e sociali: quella tra nazionalismo e federalismo.
 
***
 
    Il contributo di Ernesto Rossi al Manifesto si limita a una parte del terzo e ultimo capitolo, intitolato «Compiti del dopoguerra. La riforma della società»[11]. Questi sono i principali contenuti: innanzi tutto c’è una severa polemica contro il comunismo, che, statizzando l’economia, crea nuovi privilegi, attraverso la concentrazione del potere nelle mani del partito unico; si sottolinea che il compito delle politiche sociali è quello di correggere le distorsioni del mercato, attraverso interventi dello Stato nell’economia; la nazionalizzazione dei più potenti gruppi economici, le cooperative, l’azionariato operaio e la riforma agraria sono indicati come i principali strumenti della lotta contro i monopoli e la grande proprietà fondiaria; si insiste sulla lotta a ogni forma di corporativismo, anche a quelle di carattere sindacale, che perpetuano i privilegi delle categorie più potenti a scapito del resto della società; si propone l’istruzione gratuita e obbligatoria per i giovani più dotati, la garanzia a tutti del minimo sociale, senza ridurre però lo stimolo al lavoro e al risparmio, l’abolizione del Concordato tra Stato e Chiesa e l’affermazione della laicità dello Stato. In queste pagine sono contenuti in nuce i temi che egli svilupperà nei suoi libri e nella sua attività politica e culturale dopo la guerra e che lo renderanno un personaggio universalmente noto in Italia.
    Un altro dei temi ricorrenti negli scritti di Rossi, che è stato trasfuso nel Manifesto grazie all’intervento di quest’ultimo, anche se è sviluppato nella prima parte (che è stata scritta da Spinelli), è la critica del nazionalismo. L’apporto specifico di Rossi sta nella polemica di stampo illuministico contro il dottrinarismo e le mistificazioni del nazionalismo, che nascondono i privilegi delle classi politiche dominanti e delle caste militari e burocratiche.
    Come risulta dal suo più importante lavoro sul federalismo, Gli Stati Uniti d’Europa[12], pubblicato a Lugano nel 1944 con lo pseudonimo di Storeno, Rossi concepisce la concezione federalistica della politica come una tecnica costituzionale di organizzazione del potere, che permette di eliminare i conflitti armati tra gli Stati che hanno stipulato il patto federale. Più specificamente, la Federazione, sottraendo agli Stati membri la sovranità militare, acquisisce il potere di impedire la guerra entro i propri confini. In questa prospettiva, egli illustrò con esemplare chiarezza l’incompatibilità dell’organizzazione dell’Europa in Stati nazionali con i principi della libertà, della democrazia e del socialismo. E’ da ricordare soprattutto la prima parte di questo saggio, che resta di grande attualità. Essa riguarda le conseguenze della pace armata e mette in evidenza come la divisione dell’Europa in Stati sovrani costituisca un ostacolo insormontabile alla piena realizzazione degl’ideali della libertà e dell’uguaglianza.
    Inteso in questi termini limitativi, il federalismo si configura nel pensiero di Rossi come il completamento logico di un liberalismo radicale o di un liberal-socialismo e non come un criterio di azione politica autonomo. Essendo strettamente legata alla soluzione del problema della guerra, l’adesione di Rossi al federalismo ha motivazioni molto più deboli di quelle di Spinelli. La conseguenza pratica di questa posizione teorica sarà l’abbandono del Movimento federalista europeo dopo il fallimento della Comunità europea di difesa (30 agosto 1954), cioè quando, a causa dell’attenuazione del conflitto Est-Ovest, il pericolo di una terza guerra mondiale cominciò ad allontanarsi.
    A partire dal 1954, quando ritenne che l’attualità della Federazione europea fosse tramontata, Rossi si impegnò per il rinnovamento dello Stato italiano, un obiettivo che il Manifesto di Ventotene aveva definito come illusorio e condannato all’insuccesso.
    Per quanto riguarda la politica estera dell’Italia, ispirandosi al modello della Confederazione elvetica, egli propose la scelta neutralistica[13]. Si tratta in realtà di una scelta impossibile, in considerazione della posizione strategica che l’Italia occupa nel Mediterraneo, e rinunciataria rispetto al grande disegno federativo dell’Europa, inteso come avvio di un grande processo di pacificazione tra Stati, prima tappa dell’unificazione del mondo. Considerato retrospettivamente, il recente ingresso di tre paesi neutrali (Finlandia, Svezia e Austria) nell’Unione europea, mostra quanto fondata sia la critica alla posizione neutralistica di Ernesto Rossi. Da una parte, la dissoluzione del blocco comunista (un evento cui ha contribuito la Comunità europea) ha determinato l’esaurimento del neutralismo (cui anche la Svizzera dovrà, prima o poi, rinunciare). D’altra parte, l’adesione dei paesi neutrali all’Unione europea segna la vittoria della prospettiva dell’unità europea sul neutralismo.
In politica interna egli profuse ogni energia contro il malcostume amministrativo, i monopoli, lo strapotere della Chiesa. Egli non si rese conto che lo strapotere dei monopoli e della Chiesa era una conseguenza della crisi dello Stato nazionale, dunque dell’incapacità di quest’ultimo di far prevalere gl’interessi generali contro quelli particolari espressi da questi centri di potere. In altri termini egli non capì fino in fondo la rilevanza della Federazione europea per la soluzione dei maggiori problemi del nostro tempo, compresa la realizzazione delle riforme che più gli stavano a cuore. Per i federalisti è del tutto evidente che uno Stato come quello europeo sarebbe dotato del potere e dei mezzi per far valere una legislazione antimonopolistica e per arginare l’invadenza della Chiesa nella sfera della politica.
    Una pagina del Diario europeo di Spinelli illustra questi limiti della concezione politica di Rossi. E’ il 1954, dopo la caduta della Comunità europea di difesa e della prospettiva di istituire una Comunità politica europea la sopravvivenza del Movimento federalista europeo è in pericolo. Rossi con generosità si preoccupa del futuro di Spinelli. Conosce Mattei e vuole proporgli di assumere Spinelli all’ENI. Ma Spinelli rifiuta: «Rossi... ama molto l’ENI», egli annota, «questo gran corpo nazionale del petrolio italiano. Scrive continuamente in sua difesa contro il pericolo che le ricerche petrolifere e lo sfruttamento del petrolio italiano vadano a finire in mano agli Americani. lo l’ho ringraziato, ma non ho accettato. Non credo alla bontà della nazionalizzazione del petrolio italiano. Del Viscovo, che è nell’ufficio studi dell’ENI, mi ha narrato quali porcherie si combinano in questo grande trust statale. Ed è naturale che sia così. Una grande impresa nazionalizzata può essere un elemento di moralizzazione nella vita economica di un paese, solo se si può essere sicuri che essa sarà amministrata con criteri di moralità pubblica che oggi esistono forse in Inghilterra, ma non certo in Italia. Da noi essa è una fonte di mangerie senza fine, soprattutto da parte del partito governante e dei suoi clienti... E’ strano che Rossi, federalista, non sappia fare queste pur semplici considerazioni sulla inanità di certi atti sovrani dei nostri attuali Stati europei. Ma il federalismo di Rossi è stato sempre frutto di quel modo superficiale di pensare che Hegel chiama räsonnieren. Non ha mai nemmeno sospettato che potesse essere un canone di interpretazione della politica»[14].
    Quest’ultima frase sottolinea la radicale differenza tra Spinelli e Rossi. L’idea che il federalismo sia un canone di interpretazione della politica illumina l’innovazione di Spinelli, che mira a dare al federalismo piena autonomia rispetto al pensiero politico tradizionale. La grandezza di Spinelli sta in una fortissima concentrazione di pensiero, nell’indomita volontà di ricominciare sempre anche dopo le più brucianti sconfitte, di mantenere in ogni momento l’obiettivo della Federazione europea come scelta politica prioritaria. Non aver mai abbandonato, anche nei momenti più difficili, l’impegno per la Federazione europea, intesa come alternativa al regime degli Stati nazionali, gli consentì di sapere in ogni momento che cosa bisognava fare per avvicinare la morte degli Stati nazionali. Il suo obiettivo rimase sempre quello di dare alla concezione federalista della politica la stessa autonomia di giudizio che hanno le ideologie liberale o socialista.
    Di solito, chi fa la scelta di impegnarsi nella politica sceglie di migliorare la situazione del proprio paese e, a questo scopo, sceglie un partito e un’ideologia come contesto della propria azione. Invece Spinelli, pur essendo italiano, non considerava l’Italia come una realtà da accettare acriticamente, né considerava le ideologie esistenti come i soli schemi entro cui limitare i propri progetti politici. Egli ha cercato continuamente di sottrarsi al condizionamento nazionale e a quello delle ideologie tradizionali. E’ un atteggiamento vicino a quello scientifico, che consiglia di scegliere i mezzi più efficaci rispetto al fine che si è deciso di perseguire. Ed è nello stesso tempo un atteggiamento, per certi aspetti, ascetico, in quanto ha comportato la rinuncia ai benefici derivanti dall’occupazione del potere. Poiché l’obiettivo era, e continua ad essere, quello internazionale, egli ha rifiutato la nazione e i partiti come ambito della propria azione politica e ha fondato un movimento sovranazionale. Ha impostato una lotta politica per un potere che non esiste, ma che deve essere creato. Di qui la straordinaria concentrazione di pensiero e di azione per compiere un cambiamento rivoluzionario: organizzare una lotta politica e un movimento per un potere che non esiste, ma che deve essere creato ex novo. E’ questa la grande innovazione di cui siamo debitori a Spinelli: avere introdotto un nuovo comportamento politico.
    Spinelli non è stato un utopista, come molti continuano a sostenere. All’epoca della CED egli riuscì a convincere De Gasperi che non era possibile costituire un esercito europeo senza un governo europeo. De Gasperi, a sua volta, convinse Schuman e Adenauer. In conseguenza di ciò fu convocata l’Assemblea ad hoc, un termine anodino per definire un’assemblea costituente, che lavorò sei mesi ed elaborò un progetto di costituzione che aveva forti elementi federali: oltre a costituire un centro di potere europeo (l’esercito europeo), sottoponeva quest’ultimo al controllo di un Parlamento europeo eletto a suffragio universale. Era in definitiva una tappa fondamentale sulla via della costruzione di uno Stato europeo.
    Dunque la CED era un obiettivo concretamente realizzabile. E’ ragionevole formulare l’ipotesi che, senza la morte di Stalin e la sua conseguenza, il disgelo, la CED sarebbe stata approvata. E’ l’ipotesi che con straordinaria tempestività formulò Spinelli il giorno stesso della morte di Stalin. Leggiamo che cosa annota sul suo diario il6 marzo 1953: «L’evento più importante di oggi è la morte di Stalin. Nell’interesse della costruzione dell’unità europea sarebbe stato bene che Stalin fosse vissuto ancora un anno... La morte di Stalin può significare anche la fine del tentativo attuale di unire l’Europa»[15]. E’ da ricordare comunque che quattro dei sei Stati-membri della Comunità europea l’avevano già ratificata.
    Così Mitterrand il 24 maggio 1984 in un discorso al Parlamento europeo aveva espresso la propria adesione al progetto di Trattato di Unione europea che Spinelli aveva proposto e fatto approvare al Parlamento europeo. Si trattava di un progetto di riforma della Comunità che, pur contenendo elementi federali, non avrebbe istituito immediatamente uno Stato federale europeo. Analogamente la Comunità politica europea, che affiancava la CED, non era una federazione, ma rappresentava tuttavia un passo decisivo sulla via della Federazione europea. Nel 1954 fu la Francia ad affossare la CED e con essa la Comunità politica europea. Nel 1985 fu la Gran Bretagna a far fallire il progetto di Unione europea.
    A conclusione di questo intervento che si propone di esaminare il contributo di Ernesto Rossi al Manifesto di Ventotene voglio ricordare quanto Spinelli dichiarò nel corso di un’intervista raccolta da Gianfranco Spadaccia, pubblicata su Astrolabio il 26 febbraio 1967 pochi giorni dopo la morte di Ernesto Rossi, circa il proprio contributo e quello di Rossi alla battaglia federalista. Mi pare si tratti di un giudizio tutto sommato molto equilibrato: «Rossi da solo non avrebbe promosso la battaglia federalista», disse Spinelli, «però senza Rossi il federalismo non avrebbe la fisionomia che ha avuto»[16].
    Spinelli è stato il fondatore di un nuovo movimento politico, Rossi ha contribuito a definirne il carattere. Come Mosé, sono scomparsi entrambi prima di giungere alla terra promessa. Spetta a noi portare a conclusione il cammino che è stato intrapreso e che ci è stato indicato dai suoi iniziatori lungo la linea che essi hanno tracciato.
 
Lucio Levi
 
 


[1] C. Cattaneo, Dell’insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra. Memorie, Milano, Feltrinelli, 1973, p. 244.
[2] L. Einaudi, «La Società delle nazioni è un ideale possibile?», in La guerra e l’unità europea, Bologna, ll Mulino, 1986, p. 27.
[3] Ibid., p. 48.
[4] L. Einaudi, «La Società delle nazioni è un ideale possibile?» e «Il dogma della sovranità e l’idea della Società delle nazioni», in op. cit., pp. 19-36.
[5] Junius, Lettere politiche, Bari, Laterza, 1920.
[6] A. Spinelli, Il Manifesto di Ventotene, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 31.
[7] Ibid., p. 33.
[8] Ibid., pp. 48 e33.
[9] Ibid., p. 47.
[10] Ibid., p. 50.
[11] Ibid., pp. 51 e segg.
[12] Storeno, Gli Stati Uniti d’Europa, Lugano, Nuove Edizioni di Capolago, 1944, ripubblicato in L’Europe de demain, a cura del Centre d’action pour la Fédération européenne, Neuchâtel, Baconnière, 1945.
[13] E. Rossi, «Alleanza atlantica o neutralità?», in Il Ponte, XX, 1964, n. 4.
[14] A. Spinelli, Diario europeo. 1948-1969, Bologna, Il Mulino, 1989, vol. I, pp. 213.
[15] Ibid., pp. 167-68.
[16] G. Spadaccia, «Ernesto Rossi. La battaglia federalista (a colloquio con Altiero Spinelli)», in L’Astrolabio, V, 1967, n. 8, p. 29.

 

 

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