IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XLVIII, 2006, Numero 3, Pagina 155

 

 

Come rispondere alla crisi
dell’Unione europea
 
 
La crisi in cui è irretita l’Unione europea non dipende, come si ripete troppo spesso, dalla bocciatura del Trattato costituzionale da parte degli elettori francesi e olandesi, bensì dalla mancanza di progetti capaci di orientare il processo di unificazione verso il traguardo federale auspicato dai padri fondatori. Non sono mancati, anche in passato, momenti di involuzione e di crisi. Basti pensare ai tormentati anni Settanta quando il crollo del sistema monetario internazionale e la fluttuazione generalizzata dei cambi avevano bruscamente interrotto il processo di integrazione economica e avevano condotto sull’orlo del baratro i paesi più deboli. Ma allora la classe politica, incalzata anche dai federalisti, aveva saputo riprendere il cammino dell’unificazione proponendo nuovi traguardi (il Sistema monetario europeo, l’elezione a suffragio universale del Parlamento di Strasburgo, la moneta unica). Oggi è sul campo il Trattato costituzionale che però, quand’anche venisse approvato, non muterebbe di una sola virgola il quadro di potere europeo. Esso può essere considerato come il tentativo di adeguare le regole della cooperazione al quadro sempre più eterogeneo dell’Unione allargata, ma non prevede in alcun modo il superamento delle sovranità nazionali. Di fronte alle sfide di un assetto mondiale sempre più precario, l’obiettivo costituzionale ha sfiorato la mente dei governi e della classe politica, ma non basta usare la parola «costituzione» perché un insieme di principi e di regole diventi tale e costituisca perciò il fondamento di uno Stato. Solo l’obiettivo dello Stato federale europeo può oggi rilanciare il processo di unificazione.
La riluttanza della classe politica — dei governi, dei partiti, dei parlamenti — a compiere l’ultimo tratto di strada per fare dell’Europa un vero soggetto politico non deve sorprendere: gli Stati e i loro apparati lavorano quotidianamente per la conservazione delle istituzioni esistenti. Eppure ci si aspetterebbe un soprassalto di responsabilità di fronte a una situazione mondiale così problematica da far temere che il pianeta stia correndo verso il baratro. Le guerre in Medio Oriente, la proliferazione nucleare, il problema energetico, l’approfondirsi delle diseguaglianze, il terrorismo internazionale e tutti gli altri problemi irrisolti che si sono venuti accumulando nel corso del tempo, costituiscono i segnali di un crescente disordine che nessun paese — neppure gli Stati Uniti — è in grado, da solo, di arginare.
Se la creazione di uno Stato nuovo è l’impresa politica più difficile, è naturale che si manifesti una grande incertezza sulla strategia più efficace per portarla a termine. Anche nella costruzione dell’Europa si sono manifestate, e si manifestano tuttora, opinioni diverse sulle vie da percorrere. Il contributo che una rivista militante può offrire in questa difficile situazione, è la promozione di un ampio dibattito, aperto a tutte le voci, anche a quelle che non coincidono con il suo orientamento. Da questa esigenza è nata l’idea di un convegno internazionale, con la partecipazione di studiosi italiani, francesi e tedeschi, dedicato al tema «Building a European Federal State in an Enlarged European Union».
Promuovendo, insieme all’Università di Pavia e alla Fondazione Mario e Valeria Albertini, questo incontro, tenutosi il 20 febbraio 2006, Il Federalista si è proposto innanzitutto di sgomberare il campo dalla filosofia dei «piccoli passi» che non conduce più da nessuna parte, e di affrontare il problema dell’unità politica dell’Europa adottando un approccio realistico, che non consiste nell’accontentarsi di ciò che gli Stati sono disposti a concedere, bensì nel formulare proposte concrete circa gli obiettivi e i mezzi per conseguirli.
Le relazioni che pubblichiamo in questo numero della rivista affrontano molti problemi che hanno alimentato il dibattito europeo degli ultimi anni. A noi preme sottolineare alcuni aspetti cruciali che sono stati discussi sia nelle relazioni sia nel dibattito che ne è seguito. In particolare vogliamo attirare l’attenzione su cinque punti: a) la trasformazione dell’Unione europea, tuttora improntata alla logica comunitaria, in uno Stato federale è la premessa necessaria per consentire all’Europa di agire efficacemente sia al suo interno, sia in campo internazionale; b) il Trattato costituzionale elaborato dalla Convenzione si limita ad introdurre alcune modifiche nei meccanismi decisionali dell’Unione senza incidere in alcun modo sulle competenze essenziali che verranno ancora esercitate con il metodo intergovernativo; c) dopo l’ingresso nell’Unione di dieci nuovi paesi, e ancor più dopo l’ulteriore allargamento che è alle porte, non è pensabile riformare l’Unione trasformandola in una federazione a causa della visione spesso antitetica dei suoi membri; d) la sola via realisticamente percorribile è quella della creazione di un nucleo federale aperto, formato dai paesi disposti a cedere una parte della loro sovranità alle istituzioni europee.
Il problema cruciale è come giungere alla formazione di questo nucleo. Le proposte sul tappeto sono numerose. Quella più suggestiva suggerisce di rimettere mano al testo bocciato dagli elettori francesi e olandesi, di espungerne le parti più controverse, e di sottoporlo di nuovo alla ratifica dei 25 paesi con l’intesa che entrerebbe comunque in vigore nei paesi che l’avessero ratificato. Come ha sottolineato uno dei relatori, questa proposta non rappresenta un’opzione per il perseguimento di una reale unificazione politica in quanto non modifica la natura intergovernativa dell’Unione. Per questa stessa ragione, i paesi che avessero ratificato non possono costituire il nucleo federale di cui si avverte la necessità.
Questo può nascere solo da un patto stretto fra i paesi disposti a rinunciare subito, e non in un futuro indefinito, ad una parte della loro sovranità. Ma dal momento che, come ha scritto Spinelli, «l’Europa non cade dal cielo», occorre che qualcuno assuma l’iniziativa. Questa rivista ha più volte messo in luce come la responsabilità tocca in primo luogo ai paesi fondatori che con la loro tragica storia hanno prima messo a ferro e fuoco l’Europa, e poi hanno saputo trovare la volontà di avviare un nuovo ciclo di amicizia e di cooperazione che può essere definitivamente consolidato solo con la fondazione di uno Stato. Il richiamo alla responsabilità dei sei paesi fondatori — e in particolare di Francia e Germania — non deve essere inteso come la richiesta della creazione di un nucleo chiuso, bensì come una sollecitazione ad assumere l’iniziativa perché si realizzi la Federazione europea aperta a tutti gli Stati che vogliono aderirvi.
In politica non c’è cosa peggiore che indicare un obiettivo senza precisare, nel contempo, i mezzi per raggiungerlo e gli uomini o le istituzioni che devono farsene carico. Se la marcia dell’Europa è stata così lenta e tortuosa, e se oggi l’intero processo di unificazione rischia di incamminarsi in un vicolo cieco, dipende anche dal fatto che quasi nessuno indica con chiarezza il fine (lo Stato europeo) e i mezzi per raggiungerlo.
 
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