IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XLI, 1999, Numero 3, Pagina 145

 

 

Come l’Europa può aiutare gli Stati Uniti
 
 
Gli Stati Uniti sono stati nel passato un grande laboratorio sociale di sperimentazione di forme di convivenza civile che hanno radicato nel costume americano i valori della libertà e della democrazia con una saldezza che nessun’altra società occidentale ha conosciuto. Nella seconda guerra mondiale e nei primi decenni che l’hanno seguita essi hanno svolto la insostituibile funzione di baluardo di questi stessi valori contro la minaccia proveniente dall’Unione Sovietica. Essi hanno dato, fino ad un recente passato, un contributo storico di valore incalcolabile al processo di emancipazione del genere umano. Ma oggi è diventato impossibile sottrarsi alla constatazione che l’attuale egemonia mondiale degli Stati Uniti sta allontanando la società americana dai modelli di comportamento che ne hanno fatto la grandezza storica.
In verità la decadenza della democrazia negli Stati Uniti è un processo in corso da tempo. La contrapposizione all’Unione Sovietica, nel corso della guerra fredda, ha costretto gli USA a gestire uno schieramento di paesi che costituivano quasi la metà del mondo. Questo ruolo ha dato alla politica americana una sua indubbia grandezza, perché l’esercizio della leadership è sempre anche esercizio di responsabilità e, in quanto tale, mobilita energie e attrae consenso. Ma esso ha giocato anche un ruolo assai negativo perché, quando l’esercizio della leadership è troppo oneroso per le forze di un paese e troppo protratto nel tempo, esso ne logora inevitabilmente le risorse materiali e morali. E’ così che gli Stati Uniti sono stati spinti — in un modo sempre più palese con il passare dei decenni — sia ad accentrare le leve del potere e ad appesantire la loro struttura burocratica, parallelamente al potenziamento del loro apparato militare, che ad assumere in politica estera atteggiamenti sempre più scopertamente imperialistici, anche sostenendo e finanziando — in nome della difesa della libertà e della democrazia — regimi che della libertà e della democrazia erano la più patente delle negazioni.
 
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Tutto ciò non poteva non indebolire le radici stesse del consenso democratico degli Americani nei confronti della politica del loro governo. Questa tendenza si è peraltro fortemente aggravata con il crollo dell’Unione Sovietica. Il significato di questa svolta deve essere valutato sia dal punto di vista del confronto ideologico che da quello della situazione di potere. Con la fine della guerra fredda è venuto a mancare il nemico che aveva consentito ai successivi governi americani, anche se in modo sempre più debole e contraddittorio, di giustificare la propria politica estera e di mobilitare il consenso dei propri cittadini in nome del perseguimento di una grande missione morale. Agli Stati Uniti è rimasto il compito di guardiani dell’ordine mondiale e di soli responsabili del contenimento delle spinte alla disgregazione che si stanno ovunque manifestando. Si tratta di un compito dalle dimnensioni sterminate, per il quale le risorse di un solo paese, per quanto ricco e potente, sono del tutto insufficienti, e al quale quindi gli Stati Uniti sono costretti a rispondere intervenendo caso per caso nei diversi focolai di crisi, senza perseguire un disegno generale capace di indurre i cittadini americani e i governi dei paesi alleati a sentirsi coinvolti in un grande compito storico comune.
In queste condizioni, il solo possibile fondamento del consenso dei cittadini americani nei confronti del loro governo rimane il nazionalismo. Non per nulla sono andate facendosi strada negli ultimi anni nella società americana — anche se con una virulenza certamente non ancora tale da mettere concretamente in pericolo le istituzioni democratiche —atteggiamenti aggressivi e arroganti estranei alle tradizioni degli Stati Uniti, che stanno sostituendo quella forma ottimista ed aperta di «patriottismo costituzionale» che va sotto il nome di melting pot e che si identifica con la capacità della società americana di unire uomini e donne delle più diverse culture e provenienze in un unico popolo legato da un comune rispetto per le istituzioni democratiche del paese in cui vivono. E a questa tendenza si affianca quella, altrettanto pericolosa anche se condannata a rimanere minoritaria, alla fuga dalla responsabilità, cioè all’isolazionismo.
Si noti che a tutto ciò fa riscontro un progressivo cambiamento nei rapporti degli Stati Uniti con i loro alleati. Il cemento delle alleanze internazionali degli USA, che nella fase precedente era costituito proprio dal forte impegno comune per la difesa dell’Occidente dalla minaccia comunista, si è oggi ridotto ad essere il più fragile dei legami, cioè il rassegnato riconoscimento e la passiva accettazione della schiacciante superiorità militare della potenza egemone.
 
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Se l’evoluzione degli orientamenti dell’opinione pubblica negli Stati Uniti viene messa accanto al progressivo svuotamento delle istituzioni democratiche e alla sempre più accentuata crisi di consenso che si stanno manifestando negli Stati europei, riesce difficile sottrarsi all’impressione che il mondo industrializzato sia oggi coinvolto in un vero e proprio processo di degenerazione della qualità della convivenza civile. E questo in una fase nella quale nel resto del mondo acquistano un’importanza sempre più drammatica i grandi problemi della lotta contro i fondamentalismi religiosi e la disgregazione etnica dello Stato, della difficile democratizzazione della Cina, dell’emancipazione sociale del popolo indiano, della modernizzazione dell’Africa. Si tratta di problemi che dovranno essere affrontati in primo luogo dai popoli interessati, ma per la cui soluzione il mondo industrializzato potrebbe dare un aiuto — materiale e ideale —di enorme efficacia se soltanto i governi dei paesi avanzati potessero presentarsi al resto del mondo come centri di responsabilità, impegnati in un grande progetto per lo sviluppo economico e l’unità tra i popoli.
E’ doveroso sottolineare che, se oggi ciò non accade, non si devono certo mettere sotto accusa gli Stati Uniti. Il ruolo logorante di gendarme del mondo che è loro toccato in sorte non è certo il frutto di una scelta dei suoi governanti, ma il risultato inevitabile di una situazione internazionale nella quale in un mondo fortemente frammentato esiste una sola grande potenza, che dispone di enormi risorse finanziarie e di un imponente e moderno apparato militare. E’ questa la ragione per la quale nei numerosi focolai di crisi che si aprono continuamente in ogni parte del pianeta, l’intervento degli Stati Uniti viene invocato a gran voce, salvo divenire oggetto di aspre critiche non appena viene attuato. Ciò che non si deve dimenticare è che l’egemonia mondiale degli Stati Uniti continua pur sempre ad essere un esercizio di responsabilità; e che se questo esercizio di responsabilità assume forme brutali, ciò è soltanto la conseguenza della solitudine nella quale gli Stati Uniti vengono lasciati e della insufficienza delle loro pur imponenti risorse a far fronte ad un compito dalle dimensioni sterminate.
 
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Il problema è quindi quello della diffusione della responsabilità. E questo si identifica con quello della diffusione del potere, cioè della creazione di un mondo multipolare, nel quale le risorse disponibili nei paesi industrializzati possano essere usate per affrontare alla radice i problemi che sono la causa dei conflitti e non per arginare i conflitti (assai spesso senza riuscirvi) una volta che questi sono esplosi. Oggi esiste una sola regione del mondo nella quale può nascere una potenza democratica e dotata di un grande potenziale economico che potrebbe alleggerire gli Stati Uniti di una parte considerevole del peso delle loro responsabilità mondiali, e con ciò stesso creare un ordine assai più stabile e pacifico dell’attuale indirizzando — grazie alla regionalizzazione dell’influenza — l’impiego delle proprie risorse più sui problemi a medio termine dello sviluppo e della cooperazione che su quello a breve termine del contenimento dei conflitti regionali attraverso l’impiego della potenza. Questa regione è l’Europa. Essa ha sfruttato finora il quadro di sicurezza e di stabilità garantito dalla leadership americana per arricchirsi senza assumere responsabilità mondiali. Ma questa fase è giunta alla sua conclusione. La coincidenza di interessi a breve termine tra Stati Uniti ed Europa, che è stata il fondamento del processo di unificazione europea, è finita. L’Europa deve creare da sé il quadro politico indipendente al quale, nella fase precedente, suppliva la tutela degli Stati Uniti: cioè unirsi in uno Stato federale che sappia insieme svolgere un ruolo attivo e progressivo sullo scacchiere mondiale e fare da punto di riferimento per tutti gli altri processi — attualmente in corso — di unificazione regionale e di modernizzazione e democratizzazione degli Stati di dimensione continentale già esistenti.
Si tratta di un processo difficile e conflittuale. La cessione di sovranità e l’assunzione di responsabilità che esso comporta non possono avvenire senza traumi. Così come non evolveranno senza traumi i rapporti tra Europa e Stati Uniti. La nascita della Federazione europea significherà per gli Stati Uniti la perdita dello status di unica potenza mondiale e quella del privilegio di poter finanziare i costi dell’esercizio della propria egemonia con capitali altrui. Ma quelli che bisogna avere in vista non sono certo gli interessi immediati di qualche gruppo di potere dall’una o dall’altra parte dell’Atlantico, bensì il futuro congiunto dei popoli europeo e americano, e con essi dell’intera umanità. Questo dipende oggi in gran parte dalla capacità e dalla volontà degli Europei di aiutare, unendosi, gli Americani a liberarsi dai pesanti condizionamenti che sono loro imposti dal loro ruolo sulla scena mondiale e a ridare respiro e slancio alla loro democrazia.
 
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