IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XLI, 1999, Numero 3, Pagina 207

 

 

GLI USA
E LA NUOVA ANARCHIA INTERNAZIONALE
 
 
Con un appello firmato congiuntamente apparso sul New York Times (8 ottobre), il Presidente francese Chirac, il Primo Ministro britannico Blair e il Cancelliere tedesco Schröder si sono rivolti al Senato USA per chiedere la ratifica immediata del Trattato per il bando degli esperimenti nucleari, firmato nel 1996 dal Presidente Clinton. I firmatari dell’appello hanno sottolineato come «una bocciatura del Trattato da parte del Senato renderebbe vana ogni pressione sugli Stati che ancora esitano a ratificare. Questo rifiuto incoraggerebbe la proliferazione e susciterebbe profonde divergenze in seno alla NATO». In questo modo i tre Capi di Stato e di governo europei hanno riconosciuto al Senato americano il ruolo di arbitro del destino del mondo, dichiarando che essi, avendo già ratificato il Trattato, hanno fatto tutto quanto era in loro potere.
Ignorando l’appello dei tre leaders europei, il Senato ha votato contro la ratifica del Trattato. Come ha sottolineato il New York Times è la prima volta, dopo il voto che nel 1920 escluse gli USA dalla Società delle Nazioni, che il Senato sfida il potere del Presidente in materia di sicurezza e politica estera. La ragione di questo voto l’ha spiegata il Senatore Kyl intervenendo nell’acceso dibattito svoltosi al Senato USA: «La comunità mondiale, che non vuole che gli USA sviluppino un sistema di difesa contro i missili balistici, che non vuole che gli USA facciano qualcosa che richieda un qualche emendamento all’attuale trattato anti-missile, che vedrebbe con favore il disarmo totale nucleare e che ha accolto con favore la partecipazione dei rispettivi paesi al bando degli esperimenti nucleari dopo che i loro leaders hanno promesso che questo sarebbe stato un passo avanti verso il disarmo totale — ebbene queste persone, penso, non sono quelle da cui dipende la nostra politica di difesa. Il loro obiettivo non è il nostro. Noi abbiamo un obbligo, come leaders del mondo libero: quello di assicurare che il nostro deterrente sia sicuro ed affidabile. Gli altri non hanno questo obbligo. In questo senso possiamo trovarci a dover fare cose che essi non possono neppure sognare di fare, inclusi dei test per essere sicuri dell’affidabilità del nostro arsenale. Essi non devono preoccuparsi di ciò. Ma noi sì. Per questo francamente non mi preoccupo di quelli che nel mondo oggi ci chiedono di non fare questo, quello e quell’altro». Gli ha fatto eco il leader dei repubblicani, Senatore Lott, il quale ha invitato il Presidente e il Congresso a non sottovalutare il ruolo di controllo assegnato dai costituenti americani al Senato: «Il Senato non è stato creato per suggellare qualsiasi trattato».
Su di un punto Chirac, Blair e Schröder hanno ragione di preoccuparsi: l’importante dibattito che si è aperto in America sul futuro della sicurezza nel mondo, di cui la discussione del Trattato per il bando degli esperimenti nucleari in Senato è peraltro solo un aspetto, e forse nemmeno il più significativo, prelude forse ad una svolta nella politica estera e militare USA.
 
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Che significato ha per gli USA il Trattato per il bando degli esperimenti nucleari? Il dibattito in Senato e le testimonianze degli esperti ne hanno messo chiaramente in evidenza sia i vantaggi che i limiti. Ma a ben vedere si tratta di vantaggi e limiti più simbolici che pratici. Tre principi non sono infatti mai stati messi in discussione né dai sostenitori né dagli avversari della ratifica: mantenere intatta l’efficacia e la supremazia dell’attuale arsenale nucleare americano rispetto a quelli degli altri Stati; non escludere lo sviluppo di nuove armi nucleari con simulazioni virtuali; ribadire la sovranità nel decidere se e quando riprendere unilateralmente i test materiali. Il disaccordo si è invece manifestato sull’efficacia o meno del Trattato nell’impedire la proliferazione di «piccoli» ordigni nucleari. Su questo punto il dibattito ha però portato alla luce una dura realtà: è molto difficile impedire la proliferazione quando USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna, India e Pakistan ammettono di disporre annualmente di materiale radioattivo sufficiente per produrre migliaia di ordigni. Ed è altrettanto difficile confidare nel contenimento della proliferazione quando la sola garanzia credibile alle fughe di materiale radioattivo dalla Russia, che fatica a gestire il proprio arsenale, restano gli Stati Uniti, i quali si sono sobbarcati l’onere di acquistare parte della sovraproduzione nucleare russa, sufficiente per costruire ventimila ordigni per i prossimi vent’anni. Questo quadro incerto, unito alla preoccupazione di non riuscire ad arrestare la proliferazione missilistica, che nell’arco di qualche anno consentirà ad un numero crescente di paesi di disporre di vettori capaci di raggiungere il territorio degli Stati Uniti,[1] fa da sfondo alle decisioni che devono prendere il Congresso e l’Amministrazione americana nei prossimi mesi. Gli USA stanno discutendo oggi di progetti, come i test virtuali e una riedizione delle guerre stellari, che sembravano ormai appartenere ad una logica superata e che rischiano di aprire una nuova corsa al riarmo. Questi progetti sono contraddittori rispetto alla volontà espressa dal Presidente Clinton di rassicurare la comunità internazionale sull’intenzione degli USA di perseguire una politica di disarmo e di messa al bando degli esperimenti nucleari.
Perché gli USA dovrebbero adottare una linea politica così rischiosa per sé e per il mondo? Perché la politica americana oscilla sempre più fra retoriche affermazioni a favore dell’eliminazione su scala globale delle armi di distruzione di massa e una politica che de facto cerca di mantenere la superiorità USA?
Questa oscillazione è il risultato di due stati d’animo: il timore di entrare in una nuova era di anarchia nei rapporti internazionali e il desiderio di mantenere ancora a lungo la supremazia sul resto del mondo in campo scientifico, tecnologico e militare.
Il progetto di nuovo ordine mondiale degli anni Novanta auspicato dal Presidente Bush, che avrebbe dovuto basarsi sull’esercizio di una leadership mondiale degli USA con la collaborazione dell’URSS sotto l’egida dell’ONU, è svanito. Il crollo dell’URSS, il riaffacciarsi del nazionalismo, il coinvolgimento degli USA sul piano militare e finanziario in tutte le crisi del pianeta, ha mostrato la precarietà di un ordine basato su di un’unica potenza mondiale. Gli USA temono ora di dover fronteggiare una situazione in cui l’anarchia internazionale rischia di aggravarsi nella misura in cui la loro politica di sicurezza ed estera continua a basarsi su di una strategia superata.
Ma nello stesso tempo gli USA non vogliono rinunciare alla possibilità di conservare ancora per lungo tempo la forza soverchiante di cui dispongono in termini scientifici, tecnologici e militari rispetto al resto del mondo. Non a caso incomincia ad essere impiegato il concetto di deterrenza scientifica e tecnologica, in contrapposizione a quello più tradizionale di deterrenza nucleare. Il prezzo di questo calcolo sarebbe evidentemente costituito dall’abbandono della politica internazionalista americana, che ha contribuito alla nascita dell’ONU, all’avvio del Piano Marshall, alla creazione della NATO e delle principali organizzazioni mondiali, a favore di una politica se non isolazionista, unilateralista.
La nuova politica americana sembra dunque destinata a provocare delle conseguenze problematiche per gli stessi USA e per il mantenimento di un equilibrio mondiale stabile.
La prima conseguenza di una politica di deterrenza scientifica sarebbe per esempio costituita proprio dalla necessità di condividere a livello internazionale proprio quei dati e quelle conoscenze che gli USA vorrebbero non far cadere nelle mani di altri Stati. Come ha messo in evidenza nella sua testimonianza congressuale Stephen M. Younger, il direttore di Los Alamos, uno dei tre laboratori statunitensi che sovrintende il programma di monitoraggio dell’arsenale nucleare (Stockpile Stewardship Program), gli USA potrebbero e dovrebbero rimpiazzare le dimostrazioni di forza dell’epoca della guerra fredda, basate su test nucleari e lanci missilistici, con simulazioni al computer che dimostrerebbero ai potenziali avversari e alle rogues nations le capacità distruttive attuali e future dell’arsenale americano. Ma una simile politica, per essere efficace, implicherebbe una maggiore circolazione delle conoscenze scientifiche, e quindi un trasferimento automatico di dati scientifici e dei risultati delle sperimentazioni ad altri Stati, anche quelli potenzialmente nemici, che verrebbero messi in condizione di sfruttare il lavoro fatto dai laboratori americani senza doverne sopportare i costi (4,5 miliardi di dollari all’anno).[2]
D’altra parte, l’adozione di un sistema di difesa missilistico avrebbe come conseguenza quella di aprire una corsa al riarmo missilistico. Questo rischio è reale. Il Congresso e la Casa Bianca hanno infatti concordato un piano di sperimentazione di un sistema missilistico di difesa nazionale che dovrebbe incominciare ad essere operativo entro il 2003/2005 (dal costo previsto tra 18 e 28 miliardi di dollari). Ora, dopo trent’anni di rinuncia concordata con l’URSS a dotarsi di un simile sistema di difesa, gli USA sembrano intenzionati a sfidare Russia e Cina nell’intraprendere una nuova corsa agli armamenti, con l’argomento che oggi dispongono della tecnologia adeguata. Le obiezioni a questa decisione sono le stesse avanzate alla fine degli anni Sessanta, quando un analogo piano venne messo allo studio e poi accantonato. Allora quella rinuncia aprì la strada agli accordi sul contenimento della corsa agli armamenti. Oggi l’adozione di un sistema di difesa missilistico nazionale provocherebbe una reazione dagli sbocchi imprevedibili in quei paesi che hanno già avviato costosi piani di sviluppo di missili intercontinentali. Questi stessi paesi non potrebbero infatti accettare che i propri sforzi vengano vanificati da uno scudo difensivo che li priverebbe della possibilità di reagire se attaccati. Per sfuggire a questo ricatto sarebbero probabilmente indotti ad intensificare la loro produzione di armi e missili da lanciare simultaneamente in caso di conflitto per ingannare il sistema di difesa statunitense.
 
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Sbaglia chi pensa che quel che sta accadendo negli USA sia il frutto di un preciso disegno politico di qualche gruppo di potere che subdolamente sta prevaricando su coloro i quali vorrebbero che gli USA continuassero ad impegnarsi nell’evoluzione e nel governo delle organizzazioni internazionali rafforzando l’ONU e sostenendo i maggiori trattati internazionali. Il fatto è che in questo momento gli USA non hanno un disegno preciso. Essi stanno cercando di rispondere confusamente alle contraddizioni di un ordine che non è più bipolare, che non può essere monopolare, e che rischia di piombare nell’anarchia internazionale. Le posizioni assunte dai leaders repubblicani e democratici riflettono queste contraddizioni e l’incapacità di risolverle.
L’ala più conservatrice del partito repubblicano non ignora quanto il mondo sia cambiato rispetto ai tempi in cui il Senato negò la ratifica dell’adesione degli USA alla Società delle Nazioni. Eppure la tentazione di difendere innanzitutto gli interessi nazionali sta prevalendo. D’altra parte l’ala più progressista fra i democratici non è disposta a subordinare la politica commerciale americana alle decisioni di organismi internazionali. La politica USA sembra dunque guidata da un’irresistibile tendenza ad imboccare una strada che non porta né ad un’America né ad un mondo più sicuri.
Per i federalisti non si tratta di un fenomeno inspiegabile. E’ la ragion di Stato che, al manifestarsi dei primi sintomi dell’anarchia internazionale, tende a subordinare ogni scelta politica alla ricerca della sicurezza esterna fondata sulla massimizzazione della potenza di cui uno Stato già dispone o può disporre. Questa tendenza oggi può essere contrastata solo da un profondo mutamento dell’ordine internazionale che riequilibri il peso, il ruolo e le responsabilità degli USA nel mondo.
Ma un simile mutamento in ultima istanza non dipende più esclusivamente dagli USA. Esso può essere avviato solo consolidando dei poli regionali di stabilità nei vari continenti, come del resto era stato auspicato alla vigilia della creazione dell’ONU da parte degli stessi Americani. Al di fuori di questa prospettiva gli USA stessi rischiano di diventare un fattore di instabilità per il mondo intero.[3]
Da questo punto di vista le responsabilità dell’Europa sono enormi. La sua mancata unificazione è la causa principale dell’attuale involuzione della politica americana. Se esistesse già uno Stato europeo capace di assumersi le proprie responsabilità nel campo della politica estera e della sicurezza senza dover implorare il protettore americano di provvedere per loro nei momenti di crisi, gli Europei potrebbero alleggerire il peso della responsabilità degli USA, contribuendo alla nascita di un ordine mondiale multipolare più pacifico e più giusto, nel quale si potrebbe invertire la tendenza della politica americana ad accentuare gli aspetti militari della propria supremazia. Invece gli Europei, persino oggi che l’Unione è arrivata a dotarsi di una moneta unica e quindi dovrebbe assumere un atteggiamento più responsabile a livello internazionale, continuano a ragionare e ad agire come vassalli dell’alleato americano.
Ora che i rischi di un aggravarsi dell’anarchia internazionale, in passato mitigata dal governo russo-americano del mondo, incominciano a delinearsi, non c’è più tempo da perdere. I Capi di Stato e di governo, i parlamenti nazionali ed i parlamentari europei, almeno quelli fra loro cui sta davvero a cuore il destino dell’Europa e del mondo, devono uscire dall’ambiguità e dal velleitarismo nazionalista e rilanciare il dibattito costituente in Europa.
 
Franco Spoltore


[1] Si veda in proposito il rapporto del National Intelligence Council al Congresso, settembre 1999, «Foreign Missile Developments and the Ballistic Missile Threat to the United States through 2015».
[2] Si vedano in proposito due articoli dai titoli molto significativi di Lewis, Postol e Pike «Why National Missile Defense Won’t Work», in Scientific American, agosto 1999 e di Paine «A Case against Virtual Nuclear Testing», in Scientific American, settembre 1999.
[3] Si vedano in proposito la conferenza tenuta a New York City il 21 ottobre 1999 da Samuel Berger, Consigliere del Presidente Clinton per la sicurezza nazionale, su «American Power: Hegemony, Isolationism or Engagement», e l’articolo di Richard N. Haass apparso su Foreign Affairs nell’autunno 1999, «What to Do With American Primacy».

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