IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXVII, 1985, Numero 1, Pagina 50

 

 

Il costo della “non-Europa” e l’alternativa europea
 
MICHEL ALBERT
 
 
Vorrei anzitutto presentarvi le scuse del nostri colleghi francesi che non sono potuti venire a Roma perché riuniti con Maurice Faure per parlare anche loro del tema fondamentale di oggi: la preparazione del prossimo Vertice di Milano.
Per quanto mi riguarda, cercherò di illustrare la posta economica e sociale del Vertice da un triplice punto di vista: 1) la «non Europa» è in crisi molto più di quanto ci figuriamo in genere; 2) un’Europa unita oggi avrebbe tutte le possibilità di raccogliere «la sfida dell’avvenire», per riprendere il tema del Convegno; 3) a questo proposito e nella prospettiva del Vertice di Milano, la chiave dell’avvenire è a Roma.
1. Quando due anni fa, nella relazione che, con il mio collega James Ball, presentai al Parlamento europeo,[1] parlavamo del declino dell’Europa, dicevamo — ed era il titolo della prima parte della nostra relazione — «la non-Europa sulla strada della non-crescita» e l’espressione sembrava alquanto pessimistica. Molte persone dicevano che l’economia americana sarebbe ripartita e l’economia europea avrebbe seguito la locomotiva americana.
Osservo oggi che sono gli Americani a sottolineare il declino dell’Europa. L’anno scorso, nel 1984, due grandi riviste americane hanno dedicato il loro servizio principale al declino dell’Europa: «Newsweek» in aprile e «Time Magazine» in giugno.
A due anni dalla rimessa in moto dell’economia americana, vediamo che nel 1983 e nel 1984, per due anni, l’America ha avuto una crescita del 10% e l’Europa del 3%. Che significa ciò? Dobbiamo ricordare che negli anni ‘70 e fino al 1982 il ritmo europeo è stato più o meno uguale a quello americano. Per la prima volta, dalla fine della seconda guerra mondiale, c’è uno scarto di 3 a 1 fra la crescita degli USA e la crescita in Europa. Affermo e credo di poter dimostrare che questo fatto non è accidentale né casuale.
Si tratta dell’inizio di un’evoluzione a lungo termine che continuerà ad aggravarsi se non facciamo l’Europa. Infatti dal 1970 al 1983 la produzione industriale degli USA è aumentata di due volte rispetto a quella dell’Europa e quella del Giappone di tre volte. In vent’anni, dal 1963 al 1983, le esportazioni ad alta tecnologia sono aumentate negli USA una metà di più che in Europa ed in Giappone dieci volte di più che nella CEE. In altri termini, la CEE importa sempre più i prodotti del futuro ed esporta sempre più i prodotti del passato.
Del resto, non è necessario essere un grande economista per accorgersene! Siete andati tutti in un supermercato nel settore degli apparecchi domestici: ebbene, che l’Europa importi sempre più prodotti nuovi ed esporti sempre più prodotti vecchi, potete facilmente verificarlo andando in un grande magazzino in qualsiasi paese del mondo. I vecchi prodotti nel settore elettrodomestico hanno un colore bianco, li chiamano i prodotti bianchi, e sono l’aspiratore, il frigorifero, la lavastoviglie, la macchina lavatrice: questi prodotti sono europei e molto spesso italiani. Accanto ad essi, vedete i prodotti del futuro, non più bianchi ma bruni, come il televisore, il magnetoscopio, gli apparecchi fotografici, le cineprese, il personal computer (lo si dice in inglese e basta).
Questi prodotti sono ben di rado europei e quasi sempre giapponesi o americani: ogni volta che compriamo questi prodotti del futuro, creiamo posti di lavoro non in Europa, ma in America e in Giappone.
Questo regresso tecnologico, questo ristagno economico si manifestano peraltro con quello che va ormai definito il referendum quotidiano del risparmiatore europeo contro la «non-Europa». Perché il risparmiatore europeo vota ogni giorno contro la «non-Europa». Un banchiere me lo ha spiegato recentemente e mi ha detto che quando le persone vanno in banca per fare un investimento, si è presa l’abitudine di dire loro: «Naturalmente in dollari!». «Naturalmente in dollari», è la risposta. Il comportamento del risparmiatore europeo è comprensibile. Come ieri diceva il prof. Triffin, la cosa è intrinsecamente collegata allo scandalo monetario mondiale. Ma, attenzione, io non accuso affatto gli USA di questo scandalo. Chi determina questa folle salita del dollaro? Chi finanzia, per circa la metà, il deficit di bilancio ed il deficit esterno degli Stati Uniti? Siamo noi, cari amici, siamo noi della «non-Europa», che non abbiamo un comportamento europeo, siamo noi che manifestiamo il nostro europessimismo con il nostro comportamento di risparmiatori. I responsabili non sono gli Americani, ma siamo noi. Perciò non dobbiamo sorprenderci se ci troviamo in queste condizioni, sulla via della crisi, che ha due aspetti caratteristici: il primo è la fiscalità in Europa ed il secondo è la disoccupazione.
Abbiamo una crescita modesta perché — lo chiarirò tra poco — nella «non-Europa» non ci può più essere una crescita economica durevole, sana, generale: ci può essere soltanto un quasi ristagno. In questa situazione le spese pubbliche, in particolare le spese per la sicurezza sociale, sono legate all’invecchiamento della popolazione, invecchiamento che forse è una delle conseguenze dell’europessimismo e costa sempre di più alla collettività. Esso costituisce un fattore permanente di aumento delle spese pubbliche e quindi della fiscalità. Vi sono due cifre che non dobbiamo dimenticare: in Europa oggi, quando guadagniamo cento, versiamo cinquanta al fisco ed alla sicurezza sociale. I prelievi obbligatori, riferiti al prodotto nazionale lordo, ne rappresentano circa un terzo negli USA e in Giappone, mentre in Europa ne costituiscono la metà. Ci troviamo dunque in una situazione largamente comparabile a quella di tre aziende di uno stesso settore in concorrenza tra loro, di cui due hanno più o meno il 30-35% di spese generali, mentre la terza ne ha il 50%. Questa terza azienda è la «non-Europa».
Non sorprendiamoci quindi se siamo in fase regressiva e se affondiamo nel ristagno economico malgrado i cospicui vantaggi che l’America ci ha offerto negli ultimi due anni, grazie alla sua crescita sostenuta e all’enorme aumento del valore del dollaro, che apre le porte dell’America ai prodotti del resto del mondo, praticando la politica più antiprotezionistica che io conosca nella storia economica. Non so se il prof. Leontief, Premio Nobel, mi smentirà, ma quando rilevo che il rapporto fra le importazioni americane ed il prodotto interno lordo di quel paese è passato dal 10,1% nel 1982 al 12,7% nel 1984, devo constatare che un aumento di più di un quarto del coefficiente d’importazione è un fenomeno, a mio giudizio, unico nella storia economica per un paese di quella dimensione. Gli Americani ci hanno quindi aiutato molto a sviluppare la nostra economia e a crescere. Con tutto ciò, in due anni siamo riusciti soltanto a toccare il 3%, cioè 1’1,5% di media annua nella Comunità.
Ciò dimostra che siamo in crisi, ma non è questo il peggio. Il peggio è certamente la disoccupazione. Mentre il Giappone è tuttora in condizioni di pieno impiego e gli USA in dieci anni hanno creato circa venti milioni di posti di lavoro, l’Europa, che fino ad oggi era la patria della piena occupazione —ricordatevi che quindici anni fa o addirittura dieci anni fa in America c’era la disoccupazione ed in Europa no, noi eravamo la patria del pieno impiego — è divenuta il Sahara dell’occupazione. Ha distrutto tre milioni di posti di lavoro in dieci anni, come nel Sahel, dove l’acqua e l’albero si ritraggono dinnanzi al deserto.
E non è finita. Nel 1984 la disoccupazione nella Comunità era di circa l’11%, pari a 13 milioni di disoccupati. La linea di tendenza ci conduce verso il 15% di disoccupati, che nel 1990 dovrebbero essere 18 milioni. Purtroppo in questo settore gli economisti non si sono affatto sbagliati. Se la tendenza non si modifica, se noi popoli europei continuiamo ad accettare quello che deve definirsi lo sfruttamento dei popoli d’Europa da parte degli Stati Disuniti della «non-Europa», di fronte agli Stati Uniti d’America, continueremo ad aggravare le nostre condizioni critiche, in un momento — e sarà questo il secondo punto della mia esposizione — in cui avremmo ancora l’opportunità di raccogliere la sfida dell’avvenire.
2. Per acquisire la consapevolezza delle nostre capacità, bisogna anzitutto capire che quello che succede, cioè le difficoltà di cui parlo e che sono appena cominciate, non sono certo conseguenza di una sfortuna, di un destino fatale o di non so quale determinismo storico. Tutte queste difficoltà, tutte queste disgrazie, hanno un’unica e sola causa di cui siamo noi i responsabili: questa causa è essenzialmente la «non-Europa».
Vorrei dimostrarvelo parlandovi prima di tutto della crescita, poi dell’occupazione ed infine dello sviluppo scientifico e tecnologico.
Per quanto riguarda la crescita, tutti gli strumenti di politica economica sono tuttora confiscati dagli Stati, quegli Stati europei che sono ormai incapaci di promuovere una crescita sostenuta non inflazionistica e continua.
Consentitemi un’auto-citazione. Credo che il contributo scientifico principale della relazione che ho elaborato con James Ball per incarico del Parlamento europeo sulla base dei lavori compiuti dai servizi della Direzione generale II della CEE guidata da Mosca, sia fornito dal capitolo III, intitolato «L’impotenza degli Stati». Ve lo riassumo, perché lo ritengo importante.
Fin dall’inizio degli anni ‘70, cioè dall’inizio della crisi petrolifera, i quattro principali paesi della CEE hanno cercato di uscire dalla crisi e di rilanciare la crescita. Anche in questa occasione, gli Inglesi hanno «tirato per primi», gli Italiani hanno continuato e poi i Tedeschi hanno accettato, sollecitati dagli altri, di fare la politica della locomotiva in Europa nel ’78-’79. Quanto ai Francesi, hanno dovuto compiere ben due tentativi prima di capire che ormai la crescita non poteva più derivare dalle politiche nazionali.
Noi abbiamo fatto due esperienze analoghe all’inizio di ognuno dei due ultimi settennati presidenziali: nel 1974-’75 abbiamo fatto una politica di rilancio della crescita e così pure nel 1981-’82, la prima volta con Giscard D’Estaing e la seconda con Mitterrand.
In Francia, il Presidente della Repubblica è eletto a suffragio universale ogni sette anni, e ogni volta sembra che il Presidente eletto sia un uomo felice che vuole fare la felicità degli elettori e del popolo. Una nuova legge economica fa si che in Francia Papà Natale scenda dal caminetto ogni sette anni.
Allora succede la stessa cosa che abbiamo constatato nelle altre esperienze nazionali, quella inglese, quella italiana e quella tedesca, cioè si avvia un rilancio soprattutto tramite il consumo: si aumentano i salari e si aumenta il disavanzo. Con questa politica si ottiene una crescita più rapida di quella dei vicini, ma naturalmente accade che le esportazioni tendono a diminuire e le importazioni ad aumentare. Quindi, il paese europeo che vuole avere una crescita più rapida degli altri incappa nel deficit dei conti con l’estero, quale che esso sia. E quando si trova in questa situazione, Papà Natale cambia tenuta e diventa un gendarme; il che spiega il fatto che vi sono molte analogie, ad esempio, fra la politica economica seguita in Francia a partire dal 1983 e la politica economica che si era seguita, sempre in Francia, dopo il 1976, quando Giscard D’Estaing dovette chiamare Barre.
Le tecniche della gendarmeria superano le considerazioni ideologiche. Che ci si collochi a destra o a sinistra, bisogna pur ristabilire l’equilibrio dei conti con l’estero e per far questo bisogna agire da gendarme.
Bisogna soprattutto capire il motivo per cui nessun paese del Mercato comune può avere una crescita sensibilmente e durevolmente superiore alla media di quella degli altri. Esso dipende dal fatto che la CEE è una Comunità fatta solo a metà, e caratterizzata da due elementi, il primo dei quali è un grado molto elevato di interpenetrazione commerciale ed il secondo un grado molto basso di integrazione delle politiche economiche.
Infatti, per i quattro principali paesi della Comunità il coefficiente del commercio estero, cioè l’incidenza delle importazioni sul prodotto interno lordo è dell’ordine del 25-30%, e per i piccoli paesi, come il Belgio e l’Olanda, questa cifra supera il 50%. La metà degli scambi avvengono con gli altri paesi del Mercato comune (in Inghilterra non del tutto, ma il trend è verso l’aumento), il che significa che ognuno dei paesi membri del Mercato comune è molto sensibile alla sua bilancia commerciale con gli altri paesi, perché c’è una fortissima interpenetrazione commerciale. Di conseguenza, non appena in un paese c’è un tasso di crescita più elevato, questo paese rischia molto rapidamente di arrivare ad uno squilibrio esterno. Richiamo la vostra attenzione sul fatto che la Germania, che ha attualmente una crescita un po’ più forte degli altri paesi, non ne vuol più sapere di agire da locomotiva come aveva fatto nel 1978-1979, perché tale comportamento le è costato caro: sul piano politico, è costato la maggioranza al vecchio governo. Anche sul piano economico, non posso dimenticare che alla fine degli anni ‘70, momento in cui praticamente il marco tedesco si è trovato in condizioni di debolezza rispetto alle altre monete europee del serpente a motivo del differenziale di crescita e del conseguente disavanzo interno, il ministro francese dell’economia pronunziò le storiche parole «fortunatamente abbiamo il franco francese per sostenere il marco». Parole come queste si dimenticano difficilmente e non credo che la Germania oggi sia disposta a ricominciare questo giochetto della locomotiva.
Ecco la conseguenza della forte interconnessione commerciale, che pone i paesi della «non-Europa» in una logica di deflazione sterile. Nessuno di essi è più in grado di promuovere una crescita isolata. E tuttavia la Comunità non dispone degli strumenti necessari per compensare gli inconvenienti dell’interdipendenza commerciale con un’integrazione delle politiche economiche.
Infatti, non abbiamo una moneta comune e abbiamo un bilancio comune che è pari all’1% del prodotto interno lordo, e quindi ridicolmente inadeguato e male impiegato. Non abbiamo inoltre una politica comune per tutto ciò che riguarda il futuro ed in particolare per quanto riguarda la ricerca e lo sviluppo. Ma su questo tornerò in seguito.
La forte interpenetrazione commerciale spiega il grado di ricchezza al quale siamo giunti, poiché saremmo dei paesi semisviluppati se non avessimo creato il nostro Mercato comune. D’altro canto, la debole integrazione degli strumenti della politica economica spiega perché ci troviamo tutti in una logica di deflazione sterile nella «non-Europa», indipendentemente dai nostri propositi.
Quello che chiamiamo Mercato comune è comunque in realtà un mercato ben poco comune. Per meglio dire, è un mercato comune per i prodotti del popolo e un mercato niente affatto comune per i prodotti del principe, se è lecito usare il linguaggio di Machiavelli. Per i prodotti del principe, cioè per le commesse delle amministrazioni pubbliche, dei telefoni, delle ferrovie, e soprattutto della difesa, che rappresentano in totale il 15% del prodotto interno lordo della Comunità, i principi (cioè gli Stati) hanno detto a noi, popoli europei sfruttati dalla «non-Europa»: «Fate ciò che dico, ma non fate ciò che faccio». Il Mercato comune, cioè, va bene per i popoli, ma gli Stati vogliono conservare i loro poteri, continuare a praticare le politiche tranquille del protezionismo amministrativo.
Ciò spiega come il Mercato comune non sia comune che per i prodotti destinati al popolo e per i settori del passato. I nostri principi sono perfettamente d’accordo sulla collaborazione nei settori del passato, che sono quelli che creano dei fastidi: agricoltura, acciaio, carbone, costruzioni navali, tessili. Ma per quanto riguarda le cose del futuro, che sono gratificanti per gli uomini del palazzo e che fanno godere e sognare i popoli, non se ne parla neppure. Questi settori se li tengono per sé. Abbiamo così un mercato comune per i settori in cui questo è meno necessario, dato che è nei settori dell’avvenire che le economie di scala contano maggiormente.
Gli esempi sono innumerevoli e molti se ne trovano nel mio libro. Ma ce n’è uno che mi ha particolarmente colpito. Il Presidente del Parlamento europeo mi ha raccontato che aveva dovuto far mettere due telefoni nella sua macchina. Infatti, l’Europa è cosi bene organizzata, ha talmente il senso della buona gestione delle finanze pubbliche, delle nostre finanze, che il Parlamento europeo si sposta di volta in volta in tre capitali: Strasburgo, Lussemburgo e Bruxelles. Ebbene, sfortunatamente le norme telefoniche non sono uguali in Francia e nel Belgio, così che il Presidente del Parlamento europeo ha dovuto far installare due telefoni nella sua macchina: uno per Strasburgo, l’altro per Bruxelles e Lussemburgo. Ecco il simbolo della «non-Europa» nei settori dell’avvenire. Ecco la fonte dello sfruttamento dei popoli. Ecco come si fa a diventare un’ampia fabbrica di disoccupati. Ecco i costi di questa «non-Europa».
Ball ed io abbiamo potuto dimostrare, in base ai lavori della Commissione del Mercato comune, che ogni cittadino europeo lavora in media una settimana all’anno per mantenere i doganieri all’interno dell’Europa, alle frontiere interne della CEE. Il cittadino della «non-Europa» di oggi è quindi sfruttato dagli Stati che circondano i territori di cordoni doganali. Lungi dal proteggerci, questo stato di cose ci sfrutta. Il cittadino della «non-Europa» è sfruttato dallo Stato quasi come il servo medievale lo era dal suo signore. Paghiamo anche noi il nostro tributo. Propongo pertanto che si convertano i doganieri che sono di troppo nei poliziotti che non ci bastano: perché una delle conseguenze della «non-Europa» è la mancanza di poliziotti. La «non-Europa» non giova all’ordine pubblico. Dove vi sono disoccupati vi sono ladri e dove vi sono ladri ci vogliono poliziotti. Trasformiamo quindi i doganieri in poliziotti.
Ciò posto, le nostre possibilità sono ancora intatte — non per molto tempo ancora, ma per ora lo sono — nonostante gli sprechi legati alla natura stessa della cooperazione intergovernativa, dove qualsiasi cosa va negoziata nel corso di maratone incredibili. Si può misurare la capacità di un’Europa unita attraverso successi come quelli dell’Airbus, dell’Ariane, del Jet Torus, ecc. A tale proposito, per capire il divario esistente tra ciò che siamo oggi e ciò che saremmo, dal punto di vista economico e sociale, se fossimo uniti, riflettete un attimo su ciò che sarebbe l’economia degli USA se il loro territorio fosse spezzettato in dieci zone monetarie, con fondi ripartiti tra dieci Pentagoni ed un bilancio federale ridotto al livello di quello della CEE, cioè venti volte inferiore a quello attuale e dedicato per i due terzi all’agricoltura: certo in tali condizioni l’economia americana sarebbe meno atletica di quanto non sia oggi.
Ho detto atletica non a caso. Infatti, quando si pensa all’atletismo oggi si pensa anche agli USA, ai giochi olimpici di Los Angeles dell’anno scorso. Ebbene, a proposito dei giochi ho appreso una cosa che mi sembra molto indicativa delle possibilità che noi Europei avremmo se fossimo uniti. È un simbolo, una immagine che vi presenterò, ma che mi sembra molto significativa. Tutti hanno interpretato queste Olimpiadi come un trionfo degli Stati Uniti, che hanno ottenuto 174 medaglie. Ma c’è qualcuno in sala che sappia quante medaglie hanno conseguito i dieci paesi della Comunità nel loro complesso? Non lo sapevo neanche io, nessuno ha pensato a fare questa somma, tanto è carente lo spirito europeo. Se l’avessimo fatta, avremmo scoperto che abbiamo vinto 181 medaglie contro le 174 degli USA! Allora vedete, credo che in tali condizioni avremmo veramente torto di prendercela con gli altri. Se siamo in crisi, se non sfruttiamo le nostre possibilità, non dobbiamo prendercela con gli altri ma con noi stessi, con noi che possiamo risollevare la nostra crescita economica quando vogliamo. Credo di averlo dimostrato qui e con idee non solo mie, perché questo rapporto è stato esaminato da una commissione ad hoc del Parlamento europeo per ben quattro mesi. Possiamo risollevare la nostra economia, possiamo ricominciare a creare dei posti di lavoro in qualsiasi momento, a condizione di gestire la nostra politica economica in modo integrato, per fare intervenire quelli che con James Ball ho definito i moltiplicatori di efficacia comunitaria.
Ripeto, abbiamo ancora tutte le nostre possibilità, ma stiamo attenti: la cosa è urgente, il tempo stringe. L’urgenza è dovuta ad almeno quattro motivi: il primo è che per una volta la Francia non fa la parte dell’ultima della classe e quindi bisogna approfittarne, perché non accade tanto spesso. Certo, se non è la Francia a fare da freno è l’Inghilterra. Infatti, nelle cose europee la condotta dei Francesi e degli Inglesi è spesso abbastanza simile. Francia e Inghilterra non sono solo, come suole dire Spinelli, due antichi Stati nazionali quasi millenari, sono delle ex grandi potenze abituate a guardare il mondo a partire da centri come Parigi o Londra e a vedere le proprie colonie estendersi su tutto il mappamondo. Ciò ci ha dato un complesso di superiorità, complesso che non è stato favorito dalla decolonizzazione e che è stato oggetto di un transfert psicoanalitico su un certo numero di iniziative originali come il Concorde, altamente redditizie, come sapete. Siamo anche i soli paesi di media potenza che hanno cercato di crearsi una posizione nucleare autonoma e ci vantiamo di avere delle industrie nazionali dell’informatica, anche se si tratta di attività non competitive. Ci assomigliamo, e quindi, quando non è Parigi a fare l’allievo discolo, è Londra. Bisogna dunque approfittare della favorevole disposizione di uno dei due paesi. È questo oggi il caso della Francia: avete potuto constatare che Mitterrand ha svolto di recente un ruolo quanto mai positivo nelle questioni europee. Non si tratta di una condotta puramente politica e legata alla sua sola persona, ma di un’ampia evoluzione che interessa l’intera Francia.
Vi leggerò a questo proposito un breve testo scritto da un ex-ministro del Generale de Gaulle, Albin Chalandon, che è veramente uno degli uomini che rappresentano la continuità e la legittimità gaullista: «Il sentimento nazionale nato dalle lotte e dal sangue sparso per il predominio si è profondamente modificato. Tra i giovani sussiste solo la percezione di una differenza senza superiorità. I giovani francesi non credono più ad un destino originale ed insostituibile della nazione, testimone di una vocazione messianica (…). La nostra singolarità arrogante ed esclusiva si attenua (…). L’appartenenza alla Comunità europea si insinua nelle nostre abitudini di pensiero (…). Bisogna innanzitutto stabilire un minimo di potere politico europeo». Si tratta di un linguaggio abbastanza nuovo: stiamo attenti a non deluderlo!
Le cose si fanno urgenti: se la Francia ridiviene europea, comincio a preoccuparmi, come molti altri, dell’evoluzione della Germania. Il prof. Triffin ieri ha parlato dell’atteggiamento della Bundesbank a proposito dell’ECU. Temo inoltre che in Germania si faccia strada oggi una nuova tentazione che chiamerei la tentazione del nazionalneutralismo. Anche in questo caso, se questa tentazione si sviluppa, la colpa è nostra, è la colpa di non aver fatto l’Europa. Perché ricorderete a questo proposito quanto diceva Adenauer: l’Europa è indispensabile per ancorare la Germania alle democrazie occidentali.
C’è quindi urgenza e non soltanto per motivi politici, ma anche per motivi tecnici, che si riferiscono in particolare alla moneta. Volcker insiste nel dire che è inevitabile che i deficit della bilancia commerciale degli USA un giorno o l’altro provochino una crisi di fiducia nel dollaro, se non vengono ridotti. C’è ancora tempo, ma un giorno o l’altro questa crisi ci sarà se questi deficit continuano. E che ne sarà quel giorno del Sistema monetario europeo? Il prof. Triffin lo ha spiegato ieri: è chiaro che il Sistema monetario europeo rischia di esplodere.
La terza ragione dell’urgenza deriva dal fatto che per la prima volta dalle origini dell’integrazione comunitaria le imprese europee svolgono un ruolo veramente positivo in vista della costruzione europea, e questo è un fenomeno nuovo. Ieri è stato il prof. Majocchi a ricordarci come, quando De Gasperi formulò le sue proposte sulla CECA, la banca e l’industria italiane fossero contrarie. Lo stesso accadde in Francia e negli altri paesi, tranne che in Germania, dove l’industria era più forte.
All’origine della costruzione europea ci sono stati dei governanti, dei politici: ma la costruzione europea si è incagliata in seguito nelle secche della «non-Europa». Ed è molto interessante notare come le imprese dal canto loro comprendano invece la necessità dell’Europa e si sforzino di sostituire i politici. Sono le imprese che promuovono lo sviluppo dell’ECU privato, mentre gli istituti di emissione ed i governi frenano lo sviluppo dell’ECU pubblico. Sono le grandi imprese che hanno portato al successo il programma ESPRIT, intorno a quell’ammirevole commissario che è stato il visconte Etienne Davignon. Oggi c’è un uomo come il Presidente della Philips, Dekker, che non cessa di militare a favore dell’Europa: non parlo di Agnelli o di altri grandi capitani di industria italiani che lo hanno compreso da tempo. Il caso forse più esemplare è quello di un grande manager europeo che non appartiene all’Europa dei dieci, il Presidente della Volvo, Guyenhammar, il quale ha creato circa due anni fa un club di grandi industrie europee, da lui chiamato «Iniziativa europea», per promuovere un grande programma di lavori pubblici per migliorare le vie di comunicazione all’interno dell’Europa, programma che comprende il tunnel sotto la Manica ed il ponte tra la Sicilia e l’Italia. A questo riguardo, sta accadendo qualche cosa di nuovo e di importante. Quello che la filosofia illuminista del diciottesimo secolo ha fatto per rovesciare la feudalità — e noi siamo in regime feudale con tutti i nostri doganieri — quello che il romanticismo e il progressismo hanno fatto nel XIX secolo attraverso i movimenti nazionali, ebbene, sembra che oggi le imprese vogliano farlo per l’unità dell’Europa. Ma attenzione, con gli Stati non si ha mai fretta, perché essi hanno l’eternità di fronte a loro. Ma i capi di azienda e gli industriali non la pensano allo stesso modo: hanno fretta e, se un progetto fallisce, lo cambiano. È la prima volta che con questa forza e fino a questo punto fanno proprio il progetto dell’unità dell’Europa. Dunque l’emergenza è grande, e dobbiamo affrettarci, o sarà troppo tardi.
Per finire, c’è un quarto motivo di urgenza: vi sono i problemi sociali della «non-Europa». Quest’ultima, come ho già detto, si trova in una logica di deflazione sterile, in una logica di fabbricazione della disoccupazione, in una logica di moltiplicazione di fallimenti industriali. I nuovi poveri sono i poveri della restrizione dei regimi sociali e quindi sono i nuovi poveri della «non-Europa», poiché senza crescita non ci può essere sicurezza sociale durevole e, come abbiamo visto, non può esservi crescita sostenuta nella «non-Europa».
La «non-Europa» è quindi un pericolo per la sicurezza sociale. Non dimenticate che siamo i soli al mondo ad avere un regime di sicurezza sociale: gli Americani ed i Giapponesi non ce l’hanno. L’epoca del Mercato comune è la sola nella storia del mondo in cui siano esistiti sistemi di sicurezza sociale quali i nostri. lo mi preoccuperei molto per l’avvenire delle democrazie europee se i nostri sistemi di sicurezza sociale dovessero essere messi a repentaglio dalla mancanza di crescita e sin da ora osservo una tendenza, manifestatasi nelle ultime elezioni, alla sconfitta dei governi al potere, a motivo della crisi. La lezione delle elezioni è che in quasi tutti i casi la maggioranza ha perso, indipendentemente dal suo carattere di destra o di sinistra. L’opposizione ha vinto, perché i popoli cominciano veramente ad averne abbastanza. Probabilmente i nostri popoli, che non sono sciocchi, cominciano a capire, in modo ancora indistinto, tutto quanto ho cercato, forse troppo lungamente, di spiegarvi.
3. Giungo alla mia conclusione: oggi per me è chiaro che la chiave del futuro dell’Europa si trova a Roma.
lo sono tanto più lieto di constatarlo in questa sede dove il prof. Majocchi ha parlato ieri felicemente del ruolo svolto da alcuni francesi all’inizio della costruzione europea. Se dico che oggi la chiave del futuro dell’Europa si trova a Roma è perché la presidenza italiana del Consiglio europeo, che si chiuderà con il Vertice di Milano a fine giugno, avrà un ruolo decisivo da svolgere. Il fatto essenziale accaduto all’inizio del Vertice di Fontainebleau è che il «rapporto Dooge» non è stato adottato all’unanimità, ma a maggioranza: i membri del Comitato hanno deciso di rompere con la regola dell’unanimità e cioè con la regola della «non-Europa». Il secondo fatto è che i membri del Comitato hanno preso come base dei loro lavori il rapporto Spinelli. Per Milano si danno dunque due ipotesi: o la presidenza italiana gioca fino in fondo la carta dinamica dei sette paesi firmatari del «rapporto Dooge». Se ciò avviene, allora credo che possiamo sperare il meglio ed in particolare, signor Presidente Alvarez De Miranda, si conseguirebbe così la condizione indispensabile perché l’allargamento della Comunità, che è un dovere d’onore per tutti i democratici, non sia un imbroglio nei vostri confronti. Oppure, al contrario, si sotterrerà anche il «rapporto Dooge» dopo molti altri rapporti dello stesso genere (la «non-Europa» è un cimitero di rapporti eccellenti), ed allora non dovremmo stupirci se le disgrazie si abbatteranno su di noi. Allora, i più ricchi tra noi non mancheranno di preparare il tempo della loro pensione scegliendo tra la Florida e la California. Ma per un numero crescente dei più giovani, dei nostri figli, non ci sarà che la scelta fra la disoccupazione, la droga e l’euroterrorismo.
lo sono un ottimista. Non ho mai detto finora: questa è la nostra ultima occasione. Per la prima volta, ora, penso veramente che questa sia l’ultima spiaggia per noi. L’appello che vi lancio a nome dei miei figli è che il Presidente italiano del Vertice di Milano svolga il compito storico che l’Europa gli ha affidato e che è quello di un nuovo Spaak. L’Italia ci ha già fornito il nuovo Jean Monnet, che è Altiero Spinelli. Tocca a lei ora fornirci nel prossimo giugno il nuovo Spaak del nuovo Trattato di Roma, colui che avvierà un processo che Roma conosce assai meglio di qualunque altra parte del mondo: il Rinascimento, la rinascita dell’Europa.


[1] Pubblicata in italiano presso «Il Mulino» sotto il titolo Una sfida per l’Europa.

 

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