IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXVII, 1985, Numero 1, Pagina 71

 

 

Il ruolo costituente del Parlamento europeo
 
ALTIERO SPINELLI
 
 
Dopo le relazioni precedenti, che hanno mostrato !e ragioni per cui è necessaria l’Europa, non vorrei spendere più nemmeno una parola per apportare altra acqua a questo mulino, ma vorrei partire da una fotografia della situazione attuale della Comunità.
Noi abbiamo, da 33 anni ormai, un embrione di unità europea, che si esprime, essenzialmente, nelle 4 istituzioni della Comunità e in tutti i regolamenti e le direttive comunitarie attualmente in vigore.
C’è una sensazione diffusa che il numero e il peso dei problemi — non solo economici, ma anche politici — in comune, vanno crescendo. Un numero crescente di paesi ha aderito o si prepara ad aderire alla Comunità europea. Eravamo 6 all’inizio, poi siamo diventati 9, poi 10, presto saremo 12. Abbiamo una congiuntura politica ed economica — sulla quale si è soffermato Albert — che permette, in questo momento e per un breve periodo a venire, di prendere delle decisioni che mettano le cose in movimento nella direzione giusta. Eppure, dinnanzi ai nostri occhi si manifesta, direi quasi impudicamente, la incapacità crescente di questa Comunità di essere all’altezza della situazione.
Le decisioni assai spesso non vengono prese, o vengono rinviate a tempo indefinito. Quando sono prese, sono prese tardivamente. In genere sono insufficienti, e prese sempre al livello più basso possibile quando i problemi avrebbero bisogno di una risposta più vigorosa e più precisa; e quando si è presa una decisione, anche se per caso è sbagliata, diventa impossibile correggerla perché si resta prigionieri di quello che si è deciso.
A tutto ciò c’è una risposta corrente e comune (la sentite dire dai giornalisti, dagli uomini politici, dai ministri): purtroppo manca la volontà politica europea.
Ed è chiaro che nell’accezione più elementare del termine, una volontà politica europea significa che, se per affrontare un problema si riuniscono degli Europei di paesi differenti, di lingue differenti, di culture, e in particolare di culture politiche, differenti, essi sono capaci di trovare un linguaggio comune e delle formule comuni.
Vorrei rapidamente passare in rassegna le 4 istituzioni nelle quali si esprime, o si dovrebbe esprimere, la volontà comune europea.
Consideriamo dapprima la Corte di giustizia, la Commissione e il Parlamento.
La Corte interpreta il diritto comunitario. La Commissione ha l’iniziativa legislativa ed ha il compito di amministrare gli affari comuni. Il Parlamento ha il compito di elaborare e formulare orientamenti politici comuni, di esprimere un parere sulle proposte di legge e di dare un giudizio sul bilancio.
Si noti che tutte e tre queste istituzioni non sono composte di dottrinari federalisti che, appunto, ignorano ogni altro problema e sono concentrati solo sulla volontà di costruire la Federazione europea. Esse sono bensì composte da giudici, da politici e da amministratori che costituiscono la norma nei nostri paesi.
Ma c’è una caratteristica comune a queste tre istituzioni: coloro che ne fanno parte non devono rappresentare il loro governo, non devono far valere il punto di vista nazionale, ma hanno il compito di elaborare un diritto europeo, degli orientamenti politici europei e di occuparsi dell’amministrazione da un punto di vista europeo.
L’esperienza dimostra che questi europei, che pure si rinnovano periodicamente, sono capaci di mettere l’obiettivo europeo al di sopra dell’obiettivo nazionale.
Non dico con questo che scompare completamente dalla coscienza di ciascuno la prospettiva nazionale, ma, malgrado tutte le difficoltà dovute alle loro diverse origini e alle differenze di linguaggio, essi riescono a sviluppare una volontà comune europea, e ciò avviene da 33 anni.
Molte volte si potrà dire che una certa decisione è sbagliata, si potrà criticarla, ma sicuramente non si potrà dire che una qualsiasi decisione è stata presa o non è stata presa perché si voleva perseguire un interesse nazionale o un insieme di interessi nazionali.
Tutto ciò non sarebbe possibile se non esistesse, nei nostri paesi, una diffusa coscienza che bisogna costruire l’Europa.
Ma c’è una quarta istituzione, il Consiglio, il quale è composto dai rappresentanti dei governi, cioè degli Stati.
Si deve dire subito che è naturale che in una struttura come la Comunità, che è un insieme di Stati e di cittadini, ci sia un organo in cui gli Stati sono rappresentati come tali.
Ciò che non è naturale, e che costituisce il fatale errore commesso da Monnet quando ha pensato alla formula con cui costruire l’Europa, è il ruolo del Consiglio — Monnet aveva pensato che la Commissione avrebbe amministrato, che il Parlamento avrebbe espresso opinioni, ma che l’organo che avrebbe veramente deciso, e che di volta in volta avrebbe delegato funzioni alle altre istituzioni, sarebbe stato il Consiglio dei ministri nazionali. Ora, questo Consiglio, a differenza delle altre tre istituzioni, non è capace di sviluppare con continuità una politica europea.
Non dico che manchi nel suo seno la consapevolezza che esiste realmente il problema dell’unificazione europea. Anzi questa consapevolezza c’è, ed è la ragione profonda per cui anche dopo ogni fallimento, dopo ogni delusione, i governi nazionali cercano di nuovo di affrontare insieme i problemi comuni.
Tuttavia, poiché il Consiglio dispone del potere di decidere, ed è di per sé incapace di decidere con continuità, esso è la causa della paralisi della Comunità.
Si deve tenere presente che il Consiglio è composto da ministri nazionali le cui decisioni sono strettamente condizionate dalle amministrazioni nazionali di questo o quel settore, e in generale dal Ministero degli esteri.
In questa situazione è abbastanza evidente che non si possono fare passi avanti senza una riforma; e se è vero che una riforma deve partire da quello che esiste, che non può fare tabula rasa, è anche vero che essa deve andare oltre le strutture attuali, e in un modo abbastanza radicale.
Nel 1980, in fondo, ci si è resi conto della necessità che bisognava finalmente cercare di mantenere l’impegno che era stato iscritto nei Trattati e poi ripreso e riaffermato nel Vertice della fine del 1972 a Parigi: che bisognava cioè negli anni 80 costruire l’Unione europea.
Questa necessità di arrivare ad una vera unità politica è stata sentita contemporaneamente dal Parlamento europeo per iniziativa mia, e dai governi europei per iniziativa di Genscher e Colombo.
Le due iniziative avevano lo stesso obiettivo: proporre una unione politica.
Il metodo seguito da Genscher e Colombo, e poi dal Consiglio, è stato quello di convocare una conferenza diplomatica e di stipulare accordi fra i governi, con il risultato che a poco a poco tutta la sostanza che era inizialmente nelle buone intenzioni dei due uomini politici si è andata diluendo, è andata scomparendo: e tre anni dopo non era rimasta che una dichiarazione in cui si diceva sostanzialmente che il Consiglio non riusciva ad affrontare tutti i problemi che doveva affrontare, e che pertanto bisognava affidargliene altri ancora, aggiungendo a quelli originari anche quelli della cooperazione politica e della sicurezza, e invitandolo nello stesso tempo ad essere più efficace.
Contemporaneamente il Parlamento ha cominciato a lavorare e, con un dibattito che è durato 3 anni, che è passato attraverso riunioni di commissioni, riunioni di gruppi, dibattiti in assemblea plenaria, si è andata manifestando la consapevolezza, da parte di tutti i paesi e di tutti i gruppi politici, che bisognava realizzare una riforma assai profonda. Non si trattava di modificare questo o quel dettaglio, ma, partendo dall’esistente e considerandolo come acquisito, anche se suscettibile di trasformazione, di creare un Trattato nuovo, una Unione nella quale la Commissione fosse un vero governo, il potere legislativo fosse condiviso da Parlamento e Consiglio e non ci fosse più il diritto di veto. Abbiamo ammesso che, nel corso di un periodo transitorio, quando un governo crede che sia in gioco un interesse vitale, esso disponga di un veto sospensivo. Ma abbiamo posto delle condizioni: la prima era che il veto doveva essere chiaramente motivato; la seconda era che la fondatezza del veto dovesse essere riconosciuta anche dalla Commissione, perché non esiste soltanto l’interesse vitale di questo o quel governo, ma anche l’interesse vitale dell’Unione. Quando viene fatto valere l’interesse vitale dell’Unione si deve procedere a una seconda lettura, ad una rielaborazione, cioè sostanzialmente rimeditare tutto.
Per superare gli ostacoli escogitati dai governi con gli accordi di Lussemburgo, abbiamo stabilito che Parlamento e Consiglio devono avere delle scadenze, un termine entro cui bisogna discutere, trascorso il quale il silenzio equivale ad acquiescenza. In questo modo si è obbligati a decidere. È per questa ragione che anche oggi nella procedura di bilancio, dove l’inerzia equivale ad approvazione, si decide sempre in tempo utile, sia in Consiglio che in Parlamento.
Abbiamo rafforzato i poteri della Corte e, in particolare, abbiamo introdotto una clausola secondo la quale fra gli obblighi dell’Unione c’è anche la tutela dei diritti civili fondamentali, che sono oggi formulati chiaramente nei documenti approvati dal Consiglio d’Europa, che sono ratificati da tutti i singoli Stati, e debbono far parte delle strutture dell’Unione. Noi siamo oggi in una strana situazione in cui, se per caso in un paese si violano dei diritti fondamentali, la Comunità non può intervenire. Se in un paese si abolisce la democrazia e viene instaurato un regime autoritario, la Comunità non può dire niente. Dal Consiglio d’Europa lo si può espellere, come si è fatto con la Grecia quando era nelle mani dei colonnelli, ma la Comunità dovrebbe subire in silenzio questa situazione. Nel progetto di Trattato questo stato di cose è stato corretto.
Abbiamo poi definito meglio le competenze dell’Unione in modo da renderla veramente capace di agire.
E abbiamo infine introdotto dei meccanismi che consentono alle istituzioni dell’Unione di assumere nuove funzioni, rendendole così dinamiche.
Crediamo in questo modo di aver definito una struttura che ha degli elementi di efficacia, degli elementi di democraticità, capace di coagulare intorno a sé una forza politica crescente, che le consenta di estendere, quando è necessario, le proprie funzioni; e ciò a differenza delle strutture attuali, le quali hanno sì certe funzioni, ma anche freni così numerosi e così forti da costringerle a retrocedere a poco a poco, e a rimettere in mano a istanze nazionali quello che si era inizialmente messo in mano alle istituzioni comunitarie.
Ora, questo sistema deve essere capovolto per poter passare progressivamente ad un’azione comune.
Bisogna precisare che il progetto del Parlamento non è una perfetta costituzione federale; certo, esso contiene parecchi tratti federali, ma rimane sostanzialmente una struttura pre-federale, che però ha due vantaggi su qualunque altro progetto alternativo esistente.
In primo luogo esso è dotato di un dinamismo che porta al suo potenziamento: l’effetto-motore è stato rafforzato ed è più forte dell’effetto-freno, che è stato notevolmente ridotto, a differenza di quanto accade nelle Comunità attuali. In secondo luogo, esso è nato dal consenso di una forte maggioranza delle principali forze politiche presenti nel Parlamento. Ciò è importante perché le forze politiche avevano alle loro spalle la più alta formula di legittimazione che esiste nei nostri paesi, cioè l’elezione diretta dei cittadini.
E bisogna aggiungere che il loro consenso è stato un consenso maturato, non una improvvisazione dell’ultimo momento: si è trattato di un lavoro cui hanno partecipato, in misura diversa, centinaia di deputati diversi, perché ad ogni tappa si sono tenuti approfonditi dibattiti generali. Dico quindi che le principali forze politiche hanno mostrato di volere consapevolmente questo progetto.
Ciò è avvenuto talvolta anche a prezzo di ribellioni a indicazioni e pressioni in senso contrario che venivano dalle macchine politiche nazionali. Voglio a questo proposito ricordare, perché ha un merito speciale, il gruppo conservatore inglese, che, avendo ricevuto l’ordine di astenersi dal voto finale, ha protestato, ha chiesto e ottenuto libertà di voto, dopo di che, con sorpresa di coloro stessi che l’avevano chiesta, è risultato che la maggioranza era per il Trattato e che coloro che si astenevano o votavano contro rappresentavano una minoranza. Ciò mostra come anche in Inghilterra forse le cose vanno diversamente da come vuole far credere l’establishment politico dei due maggiori partiti. Così, nel febbraio dell’84, abbiamo avuto il voto finale e, mentre tutti gli scettici dicevano che avevamo fatto un buco nell’acqua e che nessuno si sarebbe occupato del progetto, tre mesi dopo Mitterrand ci ha annunziato che la Francia abbandonava la politica che aveva tradizionalmente seguito dal tempo di de Gaulle, contraria a qualsiasi misura di carattere sovrannazionale, che essa riprendeva il cammino di Schumann, che avrebbe sostenuto il progetto e avrebbe proposto una conferenza per realizzare un Trattato per l’Unione politica. Due mesi dopo, la nuova presidenza irlandese costituiva il Comitato Dooge, composto da rappresentanti personali dei capi di Stato e di governo. Questo Comitato ha redatto un rapport intérimaire nel quale riprendeva le idee del Trattato ritraducendole in termini di orientamenti generali.
Aveva ragione Andreotti nel recente discorso al Parlamento europeo, quando ha detto che quel Comitato non avrebbe mai potuto fare il rapporto che ha fatto se non ci fosse stato il progetto del Parlamento.
Il rapporto Dooge propone che si convochi una conferenza che si ispiri allo spirito e al metodo del progetto del Parlamento europeo.
Nel frattempo si sono tenuti dei dibattiti in cinque Parlamenti, e in quattro di essi (Italia, Germania, Belgio e Olanda), l’orientamento è stato molto favorevole. Ostile invece in Danimarca.
Nel marzo avremo il rapporto finale del Comitato Dooge, e a giugno avremo la discussione nel Consiglio.
A nome del governo italiano, il ministro Andreotti ha dichiarato che la presidenza italiana farà il possibile per arrivare ad una decisione, perché a giugno si fissi la data della conferenza per il Trattato dell’Unione politica.
Il Parlamento europeo non ha assistito passivamente a tutto questo. Quando i governi hanno cominciato a rispondere alle esigenze e alle proposte che esso aveva avanzato, ha chiesto, e chiederà in ogni occasione, che a giugno si convochi la conferenza o si decida di convocarla; che essa inizi, se è possibile, con tutti i governi, o comunque con quelli che sono disposti a cominciare a lavorare sulla base di un mandato preciso; che il progetto del Parlamento sia posto sul tavolo della conferenza, la quale deve proporre, nella misura in cui lo ritiene necessario, eventuali modifiche, rispettandone lo spirito e il metodo. Il documento, poi, dovrà essere riesaminato dal Parlamento con appropriati metodi di conciliazione, fino a che si giunga ad un testo comune, cui abbiano dato il loro consenso la conferenza a nome dei governi, e il Parlamento europeo a nome dei cittadini europei.
Questa è la richiesta dalla quale dipende ogni ulteriore sviluppo del progetto.
Un’altra domanda che dovremo fare è che Spagna e Portogallo, che stanno per essere ammessi nella Comunità, non siano tenuti fuori da questa elaborazione; essi dovrebbero perciò, senza troppi indugi, trovando i modi appropriati, partecipare tanto ai lavori della conferenza quanto ai lavori del Parlamento europeo.
Il Parlamento ha fatto queste richieste perché non basta che i governi comincino a prendere sul serio quello che esso ha fatto: da un punto di vista formale, di diritto internazionale, questo progetto di Unione europea nasce come Trattato, che deve essere assunto dai singoli governi i quali, a loro volta, devono presentarlo, per ratifica, ai Parlamenti nazionali; quanto al contenuto, esso è la Costituzione di un corpo politico, e di un corpo politico democratico. In quanto Trattato, dunque, deve essere discusso e accettato in una conferenza di rappresentanti dei governi; in quanto Costituzione, esso deve essere elaborato e votato dal Parlamento europeo.
Ma oltre a questa motivazione giuridica, ce n’è una politica più profonda. Teniamo presente, e lo abbiamo visto dagli esempi passati, che una conferenza diplomatica fa emergere in modo naturale punti di vista nazionali, e quindi punti di vista riduttivi. Ciò accade perché una conferenza diplomatica è composta da persone che hanno il compito esclusivo di affermare un punto di vista nazionale, e quindi di ricercare il compromesso tra il proprio punto di vista nazionale e quello degli altri, non di elaborare un atteggiamento comune. Nell’ambito del Parlamento, per la sua struttura, per il fatto che, se è vero che i deputati sono eletti nei vari Stati nazionali, è anche vero che ci sono gruppi politici trans-nazionali, c’è un dibattito trans-nazionale, ci sono voti trans-nazionali, emerge in modo abbastanza naturale un punto di vista sovrannazionale. Perciò è indispensabile che, nella elaborazione definitiva del Trattato di Unione, il Parlamento europeo sia presente.
Questa necessità non è basata su considerazioni astratte, ma deriva da pericoli concreti, da reazioni di rigetto che sono già in opera nel Comitato Dooge e nei ministeri nazionali.
Il Quai d’Orsay, ad esempio, non è affatto soddisfatto della politica di Mitterrand, e ha cercato di resistere quando Faure, nel preparare il rapporto, ha dichiarato che bisogna ispirarsi allo spirito e al metodo del progetto del Parlamento europeo.
Sappiamo tutti, inoltre, che la politica del governo italiano è molto impegnata in senso europeo. Consiglio però di andare ad informarsi a proposito del documento che la direzione degli affari politici sta preparando come commento al progetto di Trattato. Si vedrà che anche lì c’è una volontà riduttiva, la tendenza a svuotare il progetto di una parte del suo contenuto.
Il governo tedesco, infine, è stato il primo che ha manifestato il suo accordo con la posizione di Mitterrand e lo ribadisce ad ogni occasione. Ma sappiamo che nell’Amministrazione, nella Banca centrale, ci sono forti resistenze a dare veri poteri legislativi al Parlamento, a sviluppare troppo l’unione monetaria e via dicendo.
In genere tutte queste tendenze agiscono silenziosamente. Si prende a pretesto la necessità di trovare l’accordo di tutti i membri della Comunità e si finisce per adeguarsi a quelli che chiedono di meno.
Si propone quindi di preparare una conferenza con un mandato che in fondo non impegni, non ponga alcun genere di condizioni.
Potete immaginare che cosa sarebbe successo, quando è nata la CECA, se Schumann avesse semplicemente proposto di mettere sotto un controllo comune il mercato del carbone e dell’acciaio. Tutti avrebbero risposto affermativamente, e il Mercato comune si sarebbe ridotto a 6 rappresentanti nazionali che si sarebbero limitati a stare a vedere che cosa succedeva. Schumann invece ha proposto che si mettesse il mercato del carbone e dell’acciaio sotto il controllo di un’autorità separata dagli Stati nazionali e dai governi nazionali, e ha dichiarato di essere disposto a cominciare con chi lo avesse voluto. È stata questa la condizione preliminare perché si potesse cominciare. Dopo, sono arrivate le ulteriori adesioni.
Il secondo obiettivo a cui tende questa azione di rigetto è di ridurre il progetto del Parlamento ad uno studio preliminare, da mettere sotto una campana di vetro, per poi lavorare come se si dovesse reinventare l’ombrello e ricominciare da capo, affidando tutto a diplomatici riuniti in una conferenza. La conseguenza sarà certamente una ennesima applicazione del metodo intergovernativo.
Bisogna perciò vegliare. L’obiettivo verso cui dirigersi deve essere questo: che la conferenza lavori sul progetto del Parlamento, e che il Parlamento sia associato a condizioni di parità all’elaborazione e all’approvazione del testo definitivo. Sono parole che si trovano anche in un discorso della presidenza italiana al Parlamento europeo. lo spero che il Parlamento europeo ad aprile sappia esprimersi con forza e con energia in questo senso. Il suo presidente è consapevole dell’importanza del problema e ha lavorato molto in questi mesi, in tutte le capitali, presso tutti i governi, per ottenere i necessari consensi. Per questo, possiamo contare che ci sarà una forte presa di posizione da parte di questo organo. Ottima è l’idea di cui so che vi state occupando, di fare una grossa manifestazione a Milano. lo non so se questa sarà l’ultima occasione per l’Europa. Ho l’impressione di sì, ma non ne sono sicuro. Quando penso al problema dell’unità europea, non posso fare a meno di rievocare la novella di Kafka nella quale egli racconta di un uomo che vuole entrare in un grande palazzo. Il portone è aperto, egli domanda al portiere se si può entrare e il portiere dice di no. E per tutta la vita egli domanda al portiere se si può entrare e il portiere dice di no. Quando alla fine sta morendo, il portiere comincia a chiudere il portone. E allora lui, prima di morire, chiede: «Ma quella porta per chi era aperta?». Il portiere risponde: «Era aperta per te» e chiude la porta. Si doveva entrare, non si doveva chiedere. Questa è la situazione in cui ci troviamo.
Vorrei che queste mie parole fossero intese come un grido di allarme contro un pericolo insidioso e grave che minaccia la più importante iniziativa che i cittadini, attraverso il loro Parlamento, hanno preso dopo la prima elezione, e confermato dopo la seconda.

 

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