IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXVII, 1985, Numero 2, Pagina 121

 

 

I PROCESSI DI INTEGRAZIONE IN AMERICA LATINA
 
 
Anche nell’America latina, quando si sono formati gli Stati nazionali, si è manifestata, come nell’Europa della Rivoluzione francese, una idea della loro unità, che, pur non avendo alcuna possibilità immediata di realizzazione, anticipava tuttavia, sul piano simbolico, l’avvenire. Nel 1815 Simón Bolivar aveva scritto: «È un’idea grandiosa quella intesa a fare di tutto il Nuovo Mondo una sola nazione, con un vincolo che leghi le sue parti tra di loro e con l’insieme. Avendo già un’unica origine, una sola lingua, gli stessi usi e costumi e la medesima religione, il Nuovo Mondo dovrebbe in conseguenza dotarsi di un unico governo che confederasse i vari Stati che via via si costituiranno»;[1] e anche se siamo evidentemente ancora molto lontani da questo obiettivo, possiamo ormai ravvisare i primi segni di un processo iniziale di unificazione.
Alla base di ciò ci sono lo sviluppo crescente, a livello planetario, dell’integrazione sovrannazionale dei comportamenti umani nei campi dell’economia, dell’informazione, ecc.; e. sul piano strettamente politico. la nascita del sistema mondiale degli Stati con la sua caratteristica (transeunte) del bipolarismo USA-URSS. In questo quadro, il prevalere degli USA e dell’URSS, e le conseguenze di questo fatto su tutti i paesi della Terra, hanno spinto i paesi latino-americani a cercare di emanciparsi dalla tutela degli Stati Uniti e ad avvicinarsi al cosiddetto Terzo mondo, nonché all’Europa.
Si riscoprono valori comuni, interessi comuni, si percepisce con il Libertador un destino comune e si osserva l’Europa per generare un movimento verso l’integrazione prima regionale e poi subregionale, che rende il dialogo tra le repubbliche più sostenuto, più fitto e che permette non solo di misurare le difficoltà dell’impresa, la notevole volontà politica richiesta, la necessità imperiosa di liberarsi da vecchie forme mentali e di affrontare i problemi con occhi nuovi, ma anche di capire che — per ogni paese o gruppo di paesi — è giunto il momento di assumere le proprie responsabilità anche a livello regionale e di esprimersi con una certa armonia.
La guerra delle Malvine, nonché la crisi imperante nell’America centrale fungono, sotto questo profilo, da rivelatrici di una netta evoluzione. L’evoluzione è manifesta ma non determinante nel caso delle Malvine. Il conflitto scoppia per l’azione dei militari argentini spinti con grande probabilità da una situazione interna che le repubbliche democratiche latino-americane non accettano né approvano. In questa fase la spinta di solidarietà verso l’Argentina è limitata, ma cresce successivamente in funzione dell’intervento inglese; una fibra latino-americana che sembrava assopita comincia a vibrare.
Circa l’America centrale, il fenomeno è diverso. I cinque paesi di quella regione[2] sopportano difficilmente l’aumento dei prezzi del petrolio, che mette in crisi le loro economie e compromette il loro sviluppo. Il Messico e il Venezuela, produttori di grezzo confinanti, decidono di ridurre la fattura petrolifera accantonando fondi che serviranno a finanziare progetti di sviluppo elaborati dagli stessi paesi beneficiari.[3] Successivamente, gli stessi Messico e Venezuela si uniscono al Canada e agli Stati Uniti per attuare un programma integrato di aiuti ai paesi dei Caraibi, al quale aderirà la Colombia il 15 marzo 1982, al momento della firma del documento a New York.
Uno slancio di solidarietà è stato avvertito nei confronti della rivoluzione sandinista in lotta contro la dittatura dei Somoza e l’attività diplomatica dei paesi del Gruppo Andino[4] e di altri paesi del continente ha certamente contribuito ad agevolare la transizione verso la libertà. In un secondo tempo Messico e Venezuela consentono le oil facilities di cui sopra e quindi con la Colombia prendono, assieme al Canada e agli Stati Uniti, un’iniziativa di natura panamericana. Ma la situazione nell’America centrale, ove una varietà di regimi politici convive difficilmente, si degrada di giorno in giorno e i paesi limitrofi prendono coscienza delle loro responsabilità regionali e decidono di agire non più nel contesto panamericano ma inquadrando la loro azione in una cornice puramente latino-americana. Nasce così tra la Colombia, il Messico, il Panama ed il Venezuela il Gruppo di Contadora[5] che, con alti e bassi ma con un’ammirevole perseveranza, cerca di superare le divisioni esistenti tra i paesi centro-americani per ottenere la riduzione degli armamenti e della presenza di «consiglieri» estranei alla regione, la ripresa degli scambi commerciali e, a più lungo termine, il ripristino degli sforzi volti a potenziare la cooperazione nei vari settori economici e industriali.
Il Gruppo di Contadora costituisce senz’altro il primo tentativo concertato, organizzato e sostenuto di aiutare i paesi vicini a ritrovare la via della pace nel subcontinente americano. Esso ha avuto, sin dalla sua creazione, l’appoggio della Comunità europea. Allargando l’orizzonte geografico a sud dell’istmo di Panama, assistiamo ad altri movimenti di solidarietà. All’interno del Gruppo Andino, Colombia e Venezuela uniscono gli sforzi per favorire il ritorno della democrazia in Equador, in Perù e in Bolivia, che organizzano elezioni libere nel 1979, nel 1980 e nel 1982. E in quella stessa America dove la presenza di alcune dittature aveva portato o comunque agevolato la proliferazione di altre dittature, l’avvento della democrazia nei tre paesi andini ha come effetto un soffio di libertà che riaccende il culto dei valori democratici, che infiamma i popoli e consente il ritorno della libertà in Argentina, in Uruguay e la restituzione del potere ai civili in Brasile. Cile e Paraguay rimangono i soli feudi dei militari nel 1985 e i dittatori si accorgono oramai che il loro tempo è contato.
Nello stesso modo in cui l’alba dell’800 annunciava la nascita delle repubbliche latino-americane, il tramonto del ‘900 equivale per loro alla riscoperta della libertà dopo lunghe parentesi di oscurantismo dittatoriale. Purtroppo gli effetti coniugati della gestione dei militari e della congiuntura internazionale fanno sì che le economie di tutti questi paesi si trovino in condizioni critiche e che i colossi del subcontinente americano, Argentina, Brasile e Messico, accompagnati dal Venezuela, abbiano un debito pubblico di svariate decine di miliardi di dollari, malgrado le loro eccezionali risorse naturali. Ed ecco che nella città colombiana di Cartagena un apposito gruppo dei paesi debitori dell’America latina viene creato per ricercare un dialogo con i paesi creditori.
Il dialogo trova anche nuove strutture tra America latina e Comunità europea: un accordo di cooperazione regionale viene firmato tra la Comunità e il Gruppo Andino, mentre ne esistono altri con il Brasile e con il Messico e un altro ancora è in preparazione tra la Comunità e l’America centrale a seguito della riunione ministeriale tenuta a San José di Costa Rica il 28 e il 29 settembre 1984.[6]
In questo scorcio di secolo e di millennio, l’America latina riscopre la libertà, torna verso la democrazia che avevano voluto i suoi padri fondatori e più che mai capisce che i suoi combattenti per la libertà andavano da un paese all’altro per mettere le loro spade al servizio di quell’ideale. Il bicentenario della nascita di Bolivar è stato solennemente celebrato il 22 luglio 1983, in una commovente seduta del Parlamento andino nell’emiciclo del Senato venezuelano. Il pensiero e l’opera del Libertador sono di perfetta attualità e devono servire di stimolo al necessario movimento orientato verso un’organizzazione più coerente e più efficiente del continente latino-americano. Ma come superare le spinte nazionalistiche, come cancellare gli strascichi di conflitti passati, come prevenire i pericoli ricorrenti di rivendicazioni territoriali lungo le frontiere? Lo abbiamo ricordato, l’America latina ha guardato verso l’Europa e ha seguito con entusiasmo la creazione e gli sviluppi delle tre Comunità europee, la fusione dei loro esecutivi, l’elezione del Parlamento europeo a suffragio universale diretto, il consolidamento della cooperazione politica tra gli Stati membri al di fuori dei settori coperti dai Trattati, i successivi allargamenti e gli sforzi miranti ad una unione politica.
I paesi medi e piccoli dell’America latina hanno scelto la stessa strada dell’integrazione subregionale, specie dopo un tentativo poco felice perché troppo ambizioso al livello regionale del continente. Nei primi cinque anni di attività del Mercato comune centro-americano alcuni risultati sono stati ottenuti nel campo economico ma, da allora, i Comitati ad alto livello per il rilancio, il risanamento, la ristrutturazione del Trattato generale d’integrazione si succedono senza esito positivo, e ciò non sorprende, data la situazione politica nella regione. In terra andina, i risultati raggiunti sono stati maggiori in campo politico, specie dopo l’uscita del Cile,[7] l’adesione del Venezuela ed il rilancio deciso nel 1979. Ma i cinque paesi, confrontati ai fenomeni ben noti della recessione economica, dell’inflazione, della disoccupazione, non sono riusciti a superare i riflessi puramente nazionali e a impostare un’azione comune volta a creare un’area che permetta a nuove industrie, razionali e redditizie, di impiantarsi e di svilupparsi usufruendo di un mercato unificato.
Eppure non sfugge a questi paesi andini, come non sfugge ai centro-americani e neanche all’Argentina, al Messico e al piccolo Uruguay, che ogni sforzo isolato è vano e che il mantenimento di focolai di tensione ha per unico e poco edificante risultato quello di consacrare somme ingenti all’acquisto di armi ogni giorno più sofisticate e micidiali, dopo aver distolto quei fondi dal loro naturale obiettivo, creare lavoro e prosperità. Solo il Brasile, quasi un continente per se stesso, potrebbe permettersi di ritardare le scadenze, laddove per gli altri, forse con intensità modulata, la sabbia scivola veloce nella clessidra.
L’America latina ha un suo posto da occupare nel mondo del 2000, che molto verosimilmente non conoscerà Stati isolati bensì gruppi regionali di Stati, organizzati secondo svariate formule volute dagli interessati stessi ma in grado di esprimersi e di negoziare con una sola voce, o per lo meno in perfetta armonia. I primi passi sono stati già compiuti, almeno sulla carta, e sul mosaico del continente si delinea, accanto ai tre grandi paesi, un’area centrale occupata dai cinque Stati centro-americani e forse dal Panama e un’area andina allargata al Cile, quando questo ritroverà la sua libertà.
Il Nuovo Mondo ha probabilmente capito che la Repubblica delle Repubbliche voluta da Bolivar non può essere costruita con un’associazione di Stati così dissimili tra di loro come quelli che la carta geopolitica ci mostra oggi. Senza perdere di vista l’obiettivo bolivariano, alcune tappe intermedie sono necessarie per fare sì che gli equilibri raggiunti con la nascita delle nuove repubbliche siano progressivamente sostituiti da altri equilibri più stabili e più duraturi. In questa prospettiva, tutto quanto è stato fatto fino ad oggi appare coerente ed opportuno. Si tratta di non fermarsi in mezzo al guado e di proseguire risolutamente sulla strada intrapresa pensando al terzo millennio, nella consapevolezza della nuova struttura che la società internazionale va assumendo.
Il ritorno generalizzato alla democrazia e i rinnovati tentativi d’integrazione che abbiamo ricordato vanno annoverati tra i fatti altamente positivi del ‘900 e richiedono da parte della Comunità europea ogni possibile aiuto e cooperazione, a cominciare dall’esempio concreto di realizzazioni sulla stessa via di una maggiore integrazione che essa deve compiere. Ma, al di là di ciò, richiedono anche una revisione profonda della condotta dei partiti democratici. Nonostante il loro internazionalismo, essi continuano a pensare e ad agire secondo il paradigma del potere nazionale, talvolta scambiando la crisi storica dello Stato nazionale con la crisi delle sue forme contingenti, senza tener conto del fatto che i grandi processi di integrazione regionale, e, in embrione, mondiale, costituiscono il solo terreno sul quale è possibile sia modificare la bilancia mondiale del potere (a vantaggio della libertà di tutti i popoli), sia sviluppare la democrazia con l’affermazione della democrazia internazionale.
 
Armando Toledano Laredo


[1] Simón Bolivar, Lettera dalla Giamaica, 6 settembre 1815.
[2] Costa Rica, Guatemala, Honduras, Nicaragua e Salvador.
[3] In base all’accordo firmato a San José, Costa Rica, il 3 agosto 1980.
[4] Bolivia, Colombia, Equador, Perù e Venezuela.
[5] Dal nome di una piccola isola messicana ove i rappresentanti dei quattro paesi si riuniscono per la prima volta.
[6] Hanno partecipato a questa riunione — indetta e richiesta dai paesi latino-americani — i cinque paesi dell’America centrale, i quattro paesi del Gruppo di Contadora, la Comunità europea e i due paesi candidati all’adesione, Portogallo e Spagna.
[7] Il Cile, paese fondatore del Gruppo andino istituito dall’Accordo di Cartagena nel 1969, ne è uscito il 30 ottobre 1976, dopo tre anni di dissensi con gli altri paesi membri a seguito del colpo di Stato militare.

 

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