IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXVII, 1985, Numero 2, Pagina 127

 


JONATHAN SCHELL E IL PROBLEMA DELL’ABOLIZIONE DELLE ARMI NUCLEARI
 
 
Secondo un cliché comune, gli intellettuali europei sarebbero fondamentalmente degli ideologi, inclini a ragionare per categorie interpretative assai generali, che possono anche raggiungerevette di astrazione del pensiero assai elevate, ma che risultano, poi, inadeguate a tradurre tutto ciò in proposte concrete, in obiettivi immediati di azione politica. Gli intellettuali americani — sempre secondo quel cliché —sarebbero, invece, fondamentalmente dei pragmatici, più inclini a circoscrivere il problema, a isolarlo dal contesto generale per trovare subito una soluzione soddisfacente, anche se non ottimale: piuttosto che una generale ma astratta soluzione ne preferirebbero una provvisoria ma concreta.
Jonathan Schell è un intellettuale la cui linea di pensiero oscilla perennemente tra questi due modelli. Sa essere un ‘europeo’ quando traccia il quadro generale dei problemi ed imposta la questione; sa essere un ‘americano’ quando indica quella che a lui sembra l’unica strada percorribile già oggi, nell’immediato. Naturalmente non è detto che in lui questi due modelli riescano sempre a fondersi: forse non è così o non lo è ancora, ma è indubbio, tuttavia, che la presenza, alternativa e discontinua, di questi due ‘stili’ diversi è già un grosso merito, se non altro perché può facilitare un dialogo costruttivo con quegli intellettuali europei (i federalisti in particolare) che hanno sempre cercato di saldare il rigore teorico nell’analisi con l’indicazione delle condizioni politiche che rendono possibile una soluzione.
L’ultima opera di Schell è The Abolition (New York, Alfred A. Knopf, 1984), ma i concetti basilari della sua filosofia politica, relativamente al problema nucleare, sono contenuti nel suo libro precedente, The Fate of the Earth (trad. it. Il Destino della Terra, Milano, Mondadori, 1982). Per una maggiore comprensione di quanto seguirà sintetizziamone, qui di seguito, i punti principali.
1. Il pericolo che l’umanità si estingua non sta in questa o quella circostanza politica, ma nell’aver raggiunto ormai un certo livello di conoscenze riguardanti l’universo fisico. Da quando l’uomo è riuscito ad attuare la conversione della massa in energia, secondo la nota formula einsteiniana E = mc2, si è ritrovato tra le mani una forza immensa, mai conosciuta prima, «la forza dalla quale il sole trae la sua energia». Da quel momento i piccoli esseri umani che liberarono «la forza fondamentale dell’universo» vivono e vivranno per sempre un pericolo mortale: l’autoestinzione della propria specie.
Il pericolo nucleare — sostiene Schell — non consiste nel fatto che certe nazioni dispongono di armi nucleari, ma nel fatto che l’umanità nel suo complesso possiede, ormai una volta per tutte, la conoscenza necessaria per produrle. Non tornerà più un momento in cui l’auto-estinzione sia al di fuori della portata della nostra specie.
2. L’invenzione delle armi nucleari ha tolto significato alla guerra quale mezzo per regolare i conflitti tra gli Stati. Da quando l’uomo si è fatto più forte della natura, la violenza non può più assumere la forma della guerra perché quest’ultima non può più conseguire ciò che conseguiva in passato (l’esaurimento di uno dei due contendenti e la vittoria dell’altro). La violenza non può più portare alla vittoria o alla sconfitta, non può più conseguire dei fini, non può più essere guerra. Pertanto, la guerra non ha più senso alcuno, non c’è alcun bisogno di ‘abolire la guerra’ tra le superpotenze: la guerra è già morta perché non è più una scelta possibile. Infatti si può scegliere solo tra pace e annientamento.
3. Viviamo in un mondo dominato dal sistema delle sovranità che sta alla terra come una fabbrica inquinante sta all’ambiente. Non è vero che le superpotenze posseggano le armi nucleari al solo scopo di prevenirne l’impiego e di preservare così la pace. Le armi nucleari servono essenzialmente a difendere gli interessi nazionali, cioè a conservare e perpetuare il sistema delle sovranità nazionali. Nel mondo pre-nucleare le nazioni garantivano la propria sovranità minacciando (o ricorrendo a) la guerra. Oggi ricorrono alla minaccia dell’estinzione.
4. Utilizzando Clausewitz («Non è mai possibile separare la guerra dai rapporti politici; e se ciò in via del tutto ipotetica potesse in qualche modo avvenire, tutti i fili dei vari rapporti risulterebbero in qualche modo interrotti, e allora avremmo davanti a noi una cosa senza senso e senza oggetto»), Schell sostiene che, con l’avvento delle armi nucleari, la violenza della guerra (che è il mezzo) è separata dai suoi obiettivi politici (che ne sono il fine): l’olocausto nucleare sarebbe un fine politico privo di senso alcuno.
Ne deriva che oggi siamo in presenza di una scissione tra violenza e politica. Questo divorzio, fondato sul progresso irreversibile della conoscenza scientifica, non solo è definitivo, ma deve applicarsi a tutto il campo della politica. Il nuovo compito politico è edificare un mondo non basato sulla violenza. Questo compito si articola in due obiettivi fondamentali: da una parte salvare il mondo dall’estinzione eliminando le armi nucleari; dall’altra creare uno strumento politico mediante il quale si possano prendere quelle decisioni che gli Stati sovrani prendevano un tempo ricorrendo alla guerra.
5. Nel nostro mondo le armi nucleari (in quanto non usate) hanno già rinunciato per metà al loro tradizionale ruolo militare. Sono armi psicologiche, il loro vero bersaglio è la mente degli avversari. Il loro destino — se il sistema della deterrenza funziona — è di arrugginire nei silos. Ma dobbiamo procedere oltre, dobbiamo rendere le armi completamente astratte: trasformarle da oggetti in un pensiero nella nostra mente. Dobbiamo distruggerle e passare così al sistema della ‘deterrenza perfetta’, cioè un sistema in cui il deterrente è dato dalla consapevolezza che, in un mondo disarmato, riarmarsi significherebbe l‘estinzione. Pertanto, il nuovo principio strategico sarebbe: il deterrente è la conoscenza. Il pericolo nucleare è nato nella conoscenza e nella conoscenza deve rimanere.
Le conclusioni di The Fate of the Earth sono assai esplicite: rinunciare alle armi, sia nucleari che convenzionali, abbandonare la sovranità nazionale e trovare un sistema politico che, sostituendo gli attuali meccanismi di decisione politica, sia in grado di risolvere pacificamente le dispute internazionali. Si tratta indubbiamente di un libro ricco di analisi e di riflessioni assai interessanti, con un ‘pathos’ che traspira da ogni pagina e che si chiude con un grosso interrogativo: qual è lo strumento politico che, oggi, occorre ‘inventare’ per impedire che le tensioni internazionali possano sfociare nell’olocausto nucleare?
Nel suo ultimo libro, The Abolition, Jonathan Schell costruisce quella che a lui pare una possibile risposta concreta. Ciò che colpisce maggiormente in questo suo ultimo lavoro è il taglio netto che dà ad alcune posizioni ideologiche precedentemente assunte (ad esempio, sul tema dell’abbandono delle sovranità nazionali), come pure la rinuncia ad uno stile più analitico, più problematico, a tutto vantaggio di un argomentare assai ‘concreto’, tutto preso dall’ansia di trovare una soluzione praticabile da offrire, oggi, ai potenti della Terra.
È opportuno, ancora una volta, riassumere i tratti salienti di quest’ultimo libro per poter tracciare, alla fine, un bilancio complessivo dell’opera di Schell.
1. Il punto di svolta radicale nel suo pensiero avviene proprio sul tema della sovranità nazionale — a dimostrazione del fatto, se ce ne fosse ancora bisogno, che il punto-chiave è proprio questo — con l’accettazione delle tesi ufficiali del ‘realismo’ politico corrente, secondo il quale deve ritenersi assurdo l’abbandono della sovranità.
Schell individua in Albert Einstein il capofila della corrente culturale e politica che sostiene la necessità storica dell’abbandono delle sovranità nazionali a favore di un governo mondiale, unica garanzia di una pace universale. La proposta di Einstein sarebbe però una formula astratta, quasi una formula scientifica: con la sua scienza egli ha cambiato il mondo ed ora vuole cambiarlo ulteriormente attraverso una proposta politica. Ma — aggiunge Schell — la politica è diversa dalla scienza, ha tempi diversi, l’abbandono delle sovranità nazionali non è per l’oggi e, soprattutto, le sovranità non sono in crisi. Bisogna, pertanto, accettarle, almeno per un tempo indefinito.
Il dato attuale, dal quale occorre partire, è il seguente: l’esistenza delle sovranità nazionali (= possibilità teorica di usare le armi) unita all’esistenza delle armi nucleari (impossibilità di usarle ai fini della guerra) ma solo per l’olocausto, hanno posto le basi di un nuovo sistema: quello della deterrenza nucleare. Egli utilizza, così, l’impostazione di Bernard Brodie, considerato uno dei fondatori della strategia nucleare americana, basata appunto sulla deterrenza.
2. Con il sistema della deterrenza nucleare il mondo è cambiato. Oggi l’alternativa non è più tra conflittualità degli Stati e governo mondiale, perché con la deterrenza il conflitto è prevenuto, quindi è evitato, mentre i contrasti vengono congelati (the freeze), sospesi o differiti oppure ancora passano al campo economico, culturale o delle sommosse interne, rivoluzioni locali comprese. Dunque il compito della deterrenza non è quello di regolamentare i conflitti o di sanzionarne gli esiti, bensì di prevenirli.
Da questo punto di vista, allora, mentre le ipotesi della guerra e del governo mondiale (la ‘libertà selvaggia’ e lo ‘stato civile’, per dirla con Kant) sono dei mezzi per regolamentare i conflitti, quindi sono strumenti di mutamento, la deterrenza nucleare, al contrario, favorisce lo stallo (stalemat), favorisce lo status quo, la conservazione dell’esistente. Però il merito della deterrenza nucleare — secondo Schell — è che, grazie ad essa, si dà già il passaggio ad un mondo in cui l’uso della forza per regolare i conflitti internazionali è perduto. Non siamo ancora allo ‘stato civile’, ma la ‘libertà selvaggia’ non c’è più, definitivamente: siamo in un deterred state, cioè in una situazione in cui i contrasti tra Stati sovrani non sfociano più, grazie alla deterrenza nucleare, in conflitti armati, ma vengono differiti, sviati verso altre forme di confronto, ecc. Le armi nucleari hanno tolto la spada della guerra dalle nostre mani: non possiamo abolire la guerra perché le armi nucleari lo hanno già fatto per noi. La questione si sposta da come abolire la guerra a come andare avanti in un mondo in cui la guerra è già abolita. La deterrenza, pertanto, non è una continuazione dell’anarchia internazionale (la ‘libertà selvaggia’) in cui la guerra è ancora possibile, ma un nuovo sistema per tirare avanti in un mondo senza guerra.
Occorre ancora aggiungere che Schell riconosce in tutta franchezza che la scelta della deterrenza mostra che l’obiettivo principale è il mantenimento della sovranità. Ma su questo ritorneremo più avanti.
3. Schell, però, a differenza di Brodie, si rende conto che, con la deterrenza, c’è una disparità obiettiva ed enorme tra i fini e i mezzi. Se il fine è la stabilità, la difesa dello status quo, ed il mezzo è, ogni volta, la minaccia dell’olocausto, si rischia di arrivare ad una situazione insostenibile: ogni minimo attentato alla stabilità internazionale richiede la minaccia dell’olocausto nucleare! Ed allora si domanda se non esiste un altro mezzo per preservare la stabilità con meno rischi.
Rivelando un ‘realismo’ spinto fino agli estremi dell’irrealtà, Schell sostiene che, innanzitutto, bisogna accettare il mondo così com’è, senza la pretesa di cambiarlo. Si rende conto di fare una professione di fede conservatrice, ma, dice, è il prezzo che dobbiamo pagare di fronte al pericolo nucleare. Ciò non significa che i popoli sottomessi ad una grande potenza non debbano lottare per la propria libertà in omaggio al principio dello status quo: significa solo che non possono contare su un aiuto militare esterno.
In secondo luogo, e qui si arriva finalmente al nocciolo della sua proposta, occorre passare dall’ipotesi di armi offensive a quella di armi difensive. La chiave di volta di tutta l’operazione consisterebbe nell’entrare in un accordo che abolisca le armi nucleari e le sostituisca con scudi difensivi: sottolineare la somiglianza di questa ipotesi con la politica dell’attuale amministrazione americana ci sembra d’obbligo, anche perché è lo stesso Schell che ci ricorda che la proposta di Reagan dello scudo spaziale andrebbe anche bene purché i tempi dell’operazione fossero invertiti: prima occorrerebbe abolire le armi nucleari (offensive) e poi costruire quelle difensive.
Schell si spinge, addirittura, a sostenere che questo sistema di armi puramente difensive non avrebbe bisogno di un controllo internazionale: la garanzia che il sistema funzioni sarebbe data dalla consapevolezza che una rottura dell’accordo non andrebbe a vantaggio di qualcuno, ma spingerebbe tutte le nazioni nel baratro. Infatti in questo nuovo mondo della deterrenza senza armi (perfect deterrence) la sicurezza e la deterrenza sarebbero date dalla capacità di tutte le nazioni di riarmarsi entro brevissimo tempo. Se, ad esempio, l’accordo fosse violato, l’aggressore avrebbe un vantaggio immediato, ma saprebbe che la rappresaglia scatterebbe comunque, anche dopo parecchie settimane, perché la conoscenza dell’arma nucleare è data una volta per sempre. Si domanda Schell: se il Giappone avesse conosciuto l’arma nucleare nel ‘45, avrebbero gli USA rischiato New York e Chicago per Hiroshima e Nagasaki? Con l’abolizione delle sole armi nucleari si otterrebbe così sia l’allontanamento a tempo indefinito dell’olocausto sia la salvaguardia delle sovranità nazionali garantite dalle sole armi convenzionali.
4. La parte finale del discorso di Schell è tutta dedicata alla procedura da seguire per arrivare ad un mondo privo di armi nucleari. Il negoziato va impostato prima sull’obiettivo, quale esso sia: la stabilità degli attuali arsenali, le armi spaziali (evidentemente Schell le ritiene esclusivamente armi difensive), la riduzione degli armamenti, ecc. Una volta determinato l’obiettivo il negoziato va portato sulla diverse tappe, tenendo presente che, nelle varie tappe: a) la deterrenza funziona sempre; b) occorre introdurre il principio di non usare per primi l’arma nucleare (no first-use). Quest’ultimo principio, unito a quello di ottenere una deterrenza non basata sulle armi, può creare le basi per un disarmo nucleare completo. La soluzione della questione nucleare avviene, pertanto, in due fasi: a) accordi tra le potenze per fissare lo status quo e abolire le armi nucleari. In questa fase le controversie tra le nazioni non verrebbero affrontate e risolte, ma solo soppresse o differite; b) al riparo dal rischio nucleare, tutte le principali questioni del mondo verrebbero affrontate con mezzi nuovi e non violenti, nuovi sistemi decisionali verrebbero scoperti e collaudati di conseguenza. In conclusione, il mondo della deterrenza senza armi non è un mondo senza frontiere, anzi queste, lungi dallo sparire, diverrebbero sacrosante. Il mondo sarebbe così bloccato in unità immutabili entro le quali i popoli sarebbero isolati, nell’impossibilità di conquistare gli altri, ma al riparo dalle conquiste altrui.
Ci siamo dilungati in una dettagliata esposizione delle tesi di Schell per tre motivi di fondo. Il primo sta nel fatto che il lavoro di Schell rappresenta un serio tentativo di superare l’attuale sistema di deterrenza basato sulle armi nucleari con uno non basato sulle armi nucleari e questo tentativo viene condotto all’insegna del ‘realismo politico’ (almeno, questo è l’intento). Il secondo sta nel fatto che questo contributo è tutto interno alla cultura di importanti ambienti intellettuali e dell’establishment americano: e ciò non è di poco conto, soprattutto per gli Europei. Il terzo sta nel fatto che alcune delle argomentazioni di Schell sono presenti anche nel dibattito europeo: ad esempio, considerare l’arma nucleare come arma psicologica, che non verrà mai usata, oppure l’accettazione — scontata — delle sovranità nazionali o, ancora, il voler risolvere tutto con negoziati tra le potenze. È utile, pertanto, mostrare a quali conclusioni si arriva necessariamente partendo da certe premesse.
Sottolineata, perciò, l’importanza in sé del lavoro di Schell, va detto, però, che il suo tentativo di elaborare un sistema di deterrenza non basato sulle armi nucleari non ci sembra riuscito, sia per errori nell’impostazione del problema, sia per contraddizioni interne al sistema di pensiero che lo sorregge, sia per le conclusioni veramente ‘fideistiche’, così poco in sintonia con il ‘realismo’ delle premesse.
Francamente occorre dire che The Abolition rappresenta un passo indietro rispetto alle posizioni assunte in The Fate of the Earth ed è difficile capire i motivi del capovolgimento di alcune valutazioni. Un bilancio critico della sua opera ci sembra che possa così articolarsi.
a) Secondo Schell tutto ha inizio con l’invenzione dell’arma nucleare. A partire da quel momento, tutto cambia: la guerra non ha più senso, c’è solo la possibilità dell’olocausto, bisogna allora eliminare le armi nucleari. Certo, l’arma nucleare non è solo un’arma un po’ più micidiale delle precedenti: è indubbiamente un qualcosa di diverso che rende irrazionale e contraddittoria l’idea stessa del suo uso. Ma irrazionale non significa, in questo caso, irreale. E non bisogna dimenticare che cosa è già stata la guerra nel passato, con l’estinzione di intere popolazioni del pianeta, come gli Indiani e gli Indios d’America (in causa è il passaggio dalla spada all’arma da fuoco), o con i grandi massacri degli inermi a causa della indistinzione tra teatro di guerra e parte restante del territorio (Prima e specialmente Seconda guerra mondiale) e guerre ‘locali’ successive). E che dire se, un giorno, la diabolica mente umana giungesse a superare anche l’arma nucleare, escogitando nuove armi capaci di annientare solo l’avversario, senza correre il rischio di annientare l’intera specie umana?
Qui sta, a nostro avviso, l’errore di impostazione di Schell. Infatti, il problema non è l’arma nucleare (o domani un’altra superiore ad essa), il problema è: c’è la possibilità della guerra (o dell’olocausto) non perché ci sono le armi, ma ci sono le armi perché c’è ancora la possibilità della guerra, cioè c’è ancora nel nostro mondo la possibilità che gli Stati facciano ricorso ad essa come extrema ratio. E a nulla vale dire, come sostiene Schell, che con l’avvento dell’arma nucleare la guerra non ha più senso, perché la perdita di senso non equivale, da sola, alla sua scomparsa. Infinite volte, e in fondo sempre, gli uomini agiscono irrazionalmente, senza istituzioni razionali. Il problema-chiave è, dunque, la possibilità della guerra, non l’esistenza delle armi, che è una chiara conseguenza di questa possibilità.
Ora, la possibilità della guerra (o dell’olocausto) è, a sua volta, la conseguenza della sovranità esclusiva degli Stati e ciò costituisce il vero nocciolo del problema della pace e della guerra. Non è un caso, infatti, che, proprio su questo punto, Schell fa la vera scelta politica che determina, poi, tutto il resto. Accettando la sovranità degli Stati come un dato immutabile, è costretto, in conseguenza, a tentare la quadratura del cerchio del disarmo generale senza controllo internazionale, per rifugiarsi nella speranza — questa sì veramente irrealistica — che il vero deterrente sia la semplice conoscenza del nucleare.
b) Le armi nucleari aboliscono la guerra, come dice Schell? Certo, siamo d’accordo nel dire che con le armi nucleari si combatterebbe una guerra diversa da quelle che per millenni hanno combattuto gli uomini, una guerra in cui alla fine non ci sarebbe più un vincitore ed un vinto, ma tutti sarebbero perdenti, anzi sterminati. Ma che senso ha dire che non c’è più guerra, ma solo olocausto? Muta forse il problema? Cambia forse qualcosa sapere che non moriremo più a causa di una guerra, ma a causa di un olocausto nucleare?
A nostro avviso questa distinzione tra guerra ed olocausto (anche se, per alcuni aspetti, concettualmente corretta), utilizzata in questo modo rischia di creare confusione, anzi di alimentare una illusione assai diffusa e cioè che, grazie alle armi nucleari ed alla deterrenza, non ci saranno più conflitti armati tra le potenze. Anche qui siamo in presenza di un errore di impostazione, un errore che deriva dalla credenza che il problema della guerra stia nell’esistenza delle armi. Infatti, se è vero che non sono le armi a creare la possibilità della guerra, il logico corollario è che non può essere l’invenzione di un’arma particolare (quella nucleare) ad eliminare quella possibilità. Certo, l’arma nucleare) nella misura in cui pone il problema dell’estinzione del genere umano, pone anche il problema dell’abolizione della guerra. Ma — attenzione — lo pone soltanto, non lo risolve di per sé.
Circa due secoli fa Immanuel Kant aveva impostato il problema in maniera corretta. Aveva detto che sarebbe stata la guerra, per la sua tendenza sempre più distruttiva, a porre fine a se stessa, provocando «dopo tentativi dapprima imperfetti», il superamento della «libertà selvaggia» degli Stati con una «federazione di popoli». Quindi, l’arma nucleare pone il problema del superamento della guerra, ma la soluzione non sta, ancora una volta, nell’arma, nella sua abolizione (Schell), bensì nel superamento delle sovranità nazionali esclusive, nel potere di proibire la guerra, nella creazione della federazione mondiale (Kant), perché è solo abolendo le sovranità nazionali esclusive che è possibile abolire la guerra (e quindi le armi).
c) Schell sembra essere ben cosciente del fatto che il problema-chiave sia proprio la sovranità. In modo assai lucido, in The Fate of the Earth dice che l’umanità è sempre vissuta in un sistema di sovranità, «la cui caratteristica principale è data dal legame strettissimo e indissolubile tra sovranità e guerra… Senza sovranità i popoli sarebbero incapaci di organizzarsi in modo da poter preparare e portare la guerra ad altri popoli». Ed aggiunge ancora «che il legame tra sovranità e guerra è implicito addirittura nella definizione di sovranità: uno Stato è sovrano in quanto ha il diritto e il potere di entrare in guerra per difendere o perseguire i propri interessi» (pag. 248). Ma in The Abolition si dimentica di tutto ciò. In diverse pagine traspira quasi un certo fastidio nei confronti di chi sostiene che occorre superare il sistema delle sovranità se si vuoi bandire per sempre la guerra. Dice che il mondo, nel suo insieme, intende preservare la sovranità degli Stati, anche a rischio della propria sopravvivenza, come se ci si potesse aspettare che un bel giorno, d’improvviso, gli Stati decidessero d’abbandonare spontaneamente la propria sovranità! Il passaggio da un sistema di Stati indipendenti e sovrani ad un sistema federale di Stati non è mai spontaneo né indolore, ma è il frutto di una dura lotta politica che può avere successo solo se questo passaggio è dettato da profonde ed impellenti ragioni storiche e politiche (la pace e la salvezza del genere umano forse non lo sono?), e se esiste un movimento politico che si fa portatore di queste aspirazioni.
È veramente singolare dover ricordare queste cose ad un intellettuale degli Stati Uniti d’America, uno Stato che oggi non ci sarebbe se, due secoli fa, la parte più lungimirante del popolo americano non avesse optato, con la Convenzione di Filadelfia del 1788, per l’abbandono della sovranità da parte dei tredici Stati a favore della loro unità federale. Schell conosce queste cose certamente meglio di noi, come pure mostra di conoscere Alexander Hamilton, tant’è che ne cita un passo assai famoso, proprio quello che questa stessa rivista riporta in copertina da venticinque anni («Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l’esperienza accumulata dal tempo»); ma poi se ne dimentica, peccato.
Certo, il problema del passaggio da un sistema di Stati sovrani alla loro unità federale non si può porre in modo uniforme e contemporaneamente per tutti i paesi del mondo. È un problema enorme ed in questa sede non può essere trattato: ci limitiamo, pertanto, a fare le seguenti osservazioni conclusive.
Innanzitutto l’abbandono della sovranità nazionale esclusiva presuppone la crisi storica e politica degli Stati, senza di che è improponibile. E questo è un fatto che, in questa seconda metà del XX secolo, riguarda in primo luogo gli Stati europei, la cui crisi storico-politica si accompagna ad una interdipendenza economico-sociale sempre più profonda (nascita della CEE). L’unificazione federale dell’umanità può cominciare solo in Europa, la zona del mondo che ha visto la nascita, l’apogeo ed il crollo dello Stato-nazione e che, proprio per questo, unificandosi, può lanciare al mondo intero un messaggio di portata storica enorme, indicando la strada per la sua unità. Pertanto, per gli Europei questo è un obiettivo che si pone già in termini di lotta politica.
Per altre aree del mondo il problema si pone invece in termini diversi, perché l’interdipendenza economico-sociale non è ancora sufficientemente sviluppata, gli Stati nazionali sono ancora un’acquisizione troppo recente e rappresentano ancora la conquista dell’indipendenza (paesi del Terzo mondo). Per altre ancora, addirittura, il problema non si pone affatto, perché gli Stati non sono ancora storicamente in crisi (USA e URSS): e questo spiega perché in queste aree del mondo il problema non è sentito né a livello di opinione pubblica né a livello dei ceti dirigenti o intellettuali. Ciò non toglie, però, che non si possa già sin da ora pensare ed agire: a) in termini di unificazione regionale — sia pure ai primi stadi di sviluppo — in tutti i paesi che non posseggano già (come USA, URSS, Cina e India) una dimensione multinazionale e/o multistatale; b) in termini di politica estera in tutti i paesi, ivi compresi gli USA. È un fatto che un Americano, come ogni altro uomo, può sostenere o contrastare il rafforzamento dell’ONU in questioni concrete, come ad esempio la creazione di una Autorità internazionale dei fondi marini («Convenzione sul diritto del mare», Giamaica, 10-12-1982, sottoscritta finora da circa 140 Stati, per lo più del Terzo mondo, ma apertamente osteggiata dagli USA, che dovrebbe gestire nell’interesse dell’umanità intera tutte le ricchezze dei fondi marini ed i loro sottosuoli al di là delle giurisdizioni nazionali. Così come un Americano, come ogni altro uomo, può sostenere o contrastare l’unificazione europea e le altre unificazioni regionali.
Per un Americano si tratta della scelta, già effettiva, tra una politica imperialistica (divide et impera) e una politica di sostegno di tutti i germi di unificazione mondiale già attivi. Ed è ragionevole pensare che solo un mondo che cominci a prendere coscienza di essere avviato verso l’unità politica (un governo mondiale basato su grandi governi regionali) potrebbe trovare l’orientamento morale e la capacità politica indispensabile per risolvere i problemi maggiori del nostro tempo, che non consentono di dividere le questioni della sicurezza da quelle dello sviluppo economico e civile di tutti i paesi. È questa l’ipotesi che noi vorremmo discutere con gli intellettuali americani.
L’America del Nord non vive certamente una crisi della sovranità, è un paese dalla potenza politica, economica e militare enorme, che domina, in modo diretto o indiretto, la metà del mondo (se non di più). Mancano, pertanto, le basi per una politica di rinuncia a parte della sovranità nazionale. E questo spiega perché intellettuali come Schell, inizialmente forse favorevoli alla idea del world government, finiscano poi per ripiegare sull’accettazione del mondo delle sovranità, visto che non si presentano ai loro occhi strade praticabili. Ma è anche vero che gli intellettuali americani possono già fare scelte concrete contro la politica imperialistica del divide et impera che la debolezza dell’Europa divisa scatena fatalmente negli USA.
L’orientamento culturale verso il cosmopolitismo ed il governo mondiale, un tempo consistente (fino al 1945) negli USA — non a caso proprio nello Stato nato dal superamento delle sovranità — sopravvive oggi come tendenza sicuramente minoritaria. Ciononostante è ancora presente e può essere rafforzata.
La debolezza del federalismo nella cultura americana contemporanea è un fatto grave per tutto il mondo: deve dunque essere posta all’attenzione degli intellettuali americani. L’intellettuale è uno studioso che filtra ed elabora gli stimoli, le suggestioni e le idee che provengono dalla società. L’intellettuale medio si limita, generalmente, a rielaborare le idee dominanti della sua epoca ed ha ragione Marx a dire che «le idee dominanti sono le idee della classe dominante».
Ma il vero compito dell’intellettuale è la ricerca della verità, anche e soprattutto quando questa verità va contro le idee dominanti ed i potenti della Terra. E la verità è che, per quanto si possa dibattere la questione, non è possibile parlare di pace duratura, di disarmo generale definitivo, se non si parte dalla rinuncia alle sovranità nazionali esclusive a favore di una unità federale dei popoli, oggi in Europa, domani in altre aree regionali e infine nel mondo.
 
Antonio Longo

il federalista logo trasparente

The Federalist / Le Fédéraliste / Il Federalista
Via Villa Glori, 8
I-27100 Pavia