IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXVII, 1985, Numero 3, Pagina 192

 

 

LE PROPOSTE DI DENUCLEARIZZAZIONE.
UNA VIAVERSO LA PACE?
 
 
Il recente «Trattato di Rarotonga» (agosto 1985), promosso da Australia e Nuova Zelanda, che sancisce la messa al bando delle armi nucleari in una vasta area del Pacifico meridionale, ripropone l’idea che la denuclearizzazione sia una delle strategie per avviarsi verso un mondo più pacifico e finalmente libero dalla minaccia nucleare.
Le proposte di denuclearizzazione hanno assunto dimensioni e significati diversi a seconda dei fini che si sono prefisse e si prefiggono, e a seconda dei soggetti che ne hanno preso l’iniziativa.
Alcune di esse riguardano l’opposizione all’uso, anche pacifico e civile, dell’energia nucleare e pongono l’accento soprattutto sul problema ecologico (un esempio è l’iniziativa del Greenpeace contro gli esperimenti nucleari francesi nell’atollo di Mururoa).
Altre mirano sostanzialmente a sensibilizzare e a coinvolgere direttamente l’opinione pubblica invitando i cittadini, o i loro rappresentanti a livello locale, a dichiarare zona denuclearizzata la propria città, o parte di essa, o addirittura la propria abitazione. Queste ultime iniziative sono in parte legate alla nascita del Movimento per la pace, alla continua ricerca di «strategie» e azioni che dimostrino il desiderio e la volontà di pace di tutti gli uomini. Esse, dunque, al di là di strumentalizzazioni o dichiarazioni velleitarie, possono considerarsi azioni di testimonianza che dovrebbero tener desta nell’opinione pubblica l’aspirazione alla pace.
Ben diverse implicazioni hanno, o dovrebbero avere, le proposte e i Trattati di denuclearizzazione che coinvolgono gli Stati e i loro governi, o addirittura interi continenti.
Bisogna anzitutto sottolineare che queste proposte hanno in fondo gli stessi scopi e rispecchiano la stessa logica del Trattato di non proliferazione, firmato nel 1968 da 82 paesi ed entrato in vigore nel 1970. Le zone denuclearizzate, cioè, sono considerate come un mezzo per frenare la proliferazione nucleare in senso «orizzontale», ossia per impedire l’estensione ad altri paesi della potenzialità nucleare.
Il misero fallimento del Trattato di non proliferazione dovrebbe perciò fornirci qualche strumento di riflessione sulla denuclearizzazione. Ciò che fa di esso una grossa mistificazione è stata l’illusione che le maggiori potenze nucleari, e in particolare USA e URSS, entrambi firmatari del Trattato, ne rispettassero le clausole che chiedevano l’interruzione di tutti i test nucleari, la cessazione della corsa agli armamenti e la promulgazione di misure efficaci in vista del disarmo nucleare. Durante i colloqui sulla non proliferazione, l’ambasciatore giapponese fece presente che se le potenze dotate di armi nucleari non avessero mantenuto i loro impegni, il Trattato avrebbe perso la sua «base morale»; e nel 1970, all’entrata in vigore di esso, il primo ministro britannico Wilson disse: «Sappiamo che ci sono due forme di proliferazione, quella verticale e quella orizzontale. I paesi che stanno ora impegnandosi a non possedere mai armi nucleari hanno il diritto di attendersi che i paesi che ne sono dotati rispettino la loro parte dell’accordo».
La corsa agli armamenti di questi anni non fa che dimostrare che quelle speranze erano veramente illusorie e rende sempre più chiaro che simili trattati implicano il riconoscimento del predominio degli Stati in possesso di armi nucleari.
Le stesse considerazioni valgono anche per le proposte di denuclearizzazione. D’altra parte, la loro storia ci permette di constatare che esse, lungi dal presentarsi come tentativi concreti di avviarsi verso un mondo più pacifico perché meno armato, sono state sempre subordinate alla logica della politica di potenza e al confronto fra le due massime potenze nucleari, USA e URSS.
Non è un caso che l’URSS abbia sostenuto soprattutto le proposte relative all’Europa centrale, al Mediterraneo e all’Asia, cioè alle aree di confronto diretto fra i due blocchi, nell’evidente tentativo di ridurre la presenza americana. D’altra parte gli USA hanno sempre ribadito che qualsiasi proposta non deve sovvertire l’equilibrio militare in atto ed hanno applicato questo irrinunciabile principio nel rifiuto, insieme alle potenze occidentali, del piano Rapacki (1958) per la denuclearizzazione dei territori di Polonia, Cecoslovacchia, Germania Est e Germania Ovest, e delle successive modifiche, fino al piano Gomulka del 1964. La loro accettazione avrebbe infatti indebolito la posizione militare americana in Europa, il cui fronte avanzato è costituito dalla Repubblica Federale Tedesca.
Tre anni fa (giugno 1982), la Independent Commission on Disarmament and Security Issues, un gruppo internazionale di funzionari o ex funzionari governativi costituitosi nel 1980 sotto la presidenza di Olof Palme, ha elaborato una nuova proposta per creare una zona denuclearizzata nell’Europa centrale relativamente alle armi da campo. Questo piano è stato interpretato come un tentativo di evitare le implicazioni e le strumentalizzazioni politiche che minavano la credibilità dei piani precedenti, in quanto si basa sulle caratteristiche di un certo tipo di armi nucleari piuttosto che sull’estensione territoriale. Esso infatti prevede la denuclearizzazione di una fascia larga 150 chilometri ai due lati del confine fra Germania occidentale da una parte e Germania orientale e Cecoslovacchia dall’altra, con la possibilità della sua estensione in senso verticale dall’estremo settentrionale all’estremo meridionale dei due blocchi. Ne risulterebbero così due vantaggi. Il primo riguarda il mantenimento dell’integrazione del resto della Repubblica Federale Tedesca nelle strutture difensive occidentali (i problemi posti da una Germania denuclearizzata, e quindi in un certo senso separata dal resto dell’Europa occidentale, sono sempre stati considerati rilevanti anche in relazione alla riunificazione tedesca). Il secondo riguarda il rafforzamento delle barriere contro lo scoppio involontario o accidentale di una guerra nucleare. La rimozione delle armi nucleari da campo, che potrebbero essere usate in una situazione disperata, contro un attacco convenzionale irrefrenabile, dando il via ad una escalation incontrollata, permetterebbe decisioni più ponderate per risolvere il conflitto prima che la situazione possa precipitare.
È significativo il fatto che della Commissione Palme facessero parte Cyrus Vance, ex segretario di Stato degli USA e Georgij Arbatov, membro del Comitato Centrale del partito comunista sovietico e che l’URSS abbia non solo approvato il piano, ma anche proposto l’estensione della fascia denuclearizzata. Ciò significa che esso non metterebbe in discussione gli interessi politici e strategici delle due superpotenze e il loro ruolo egemonico, e quindi non può essere presentato come un reale contributo alla evoluzione pacifica dei rapporti internazionali.
Ma la considerazione più importante riguarda il fatto che questa proposta, come del resto anche le precedenti, non prende assolutamente in considerazione il problema dell’autonomia dell’Europa.
Il vero problema dell’Europa, sia dell’Ovest che dell’Est, è l’accettazione di essere l’avamposto delle potenze egemoni e di svolgere un ruolo subalterno nelle relazioni internazionali.
Certamente la presenza delle armi tattiche e da campo rende più facile superare la soglia nucleare, e la strada verso cui bisogna avviarsi è senza dubbio la denuclearizzazione, ma essa va intesa come completa abolizione delle armi nucleari da tutto il territorio europeo. La possibilità che questa via sia imboccata è nelle mani dell’Europa occidentale, nella quale la realizzazione del processo di integrazione politica creerebbe i presupposti e le condizioni indispensabili per il rifiuto delle armi nucleari tattiche e da campo: l’acquisizione dell’indipendenza politica dagli USA e la conseguente autonomia difensiva. Un’Europa unita e indipendente avrebbe la possibilità e l’interesse a proporre un modello di difesa non aggressivo, sia per quanto riguarda le armi convenzionali (attraverso una difesa di tipo territoriale), sia per quanto riguarda le armi nucleari (deterrente anglo-francese stanziato su sottomarini), ottenendo il duplice scopo di denuclearizzare veramente l’Europa occidentale, senza però cedere a irresponsabili posizioni di neutralismo, che lascerebbero ancora più aperto il campo alle mire egemoniche mondiali delle superpotenze.
Questo potrebbe essere il primo passo, da una parte verso l’abolizione delle armi nucleari nell’Europa orientale, che verrebbe a perdere la posizione di avamposto della strategia militare sovietica nei confronti della potenza concorrente e dall’altra verso la instaurazione di rapporti meno tesi e rigidi e più evolutivi fra USA e URSS, da cui trarrebbe vantaggio non solo l’Europa, ma il mondo intero.
Il calo delle tensioni che si manifestano in alcune aree del mondo, infatti, non sempre fomentate apertamente, ma dietro le quali si scorge ogni volta l’ombra delle superpotenze, è la premessa indispensabile per evitare la proliferazione «orizzontale» e «verticale» delle armi nucleari e non viceversa. Un esempio ci è fornito dal Medio Oriente: un piano per la denuclearizzazione di quest’area, presentato nel 1974 dall’Iran, affiancato dall’Egitto, e accettato dall’Assemblea generale dell’ONU, è rimasto lettera morta per il rifiuto di Israele, allora in stato di belligeranza con l’Egitto. La stessa sorte ha subito una proposta relativa all’Asia meridionale, presentata dal Pakistan dopo l’esplosione dell’ordigno nucleare indiano, e sostenuta dagli USA, a cui si è opposta l’India, a sua volta appoggiata dall’URSS.
La via da percorrere per arrivare al disarmo mondiale, dunque, va ripensata, alla luce degli esempi e delle considerazioni fatte, non per rifiutare il concetto di denuclearizzazione tout court, ma per inquadrarlo in un piano strategico più globale e preliminare, che preveda la creazione di un ordine mondiale multipolare, senza il quale è facile, se non inevitabile, diventare strumenti della conservazione dello status quo, ossia di una situazione internazionale squilibrata e gerarchizzata.
 
Nicoletta Mosconi

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