IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXVIII, 1986, Numero 1, Pagina 5

 

 

Chernobyl
 
 
Dopo l’incidente di Chernobyl il mondo non sarà mai più come prima. Nella prospettiva storica Chernobyl sta con Hiroshima, ma con una nota in più, perché estende a un settore della vita sociale, e alla stessa vita quotidiana di ogni uomo, la minaccia che sinora sembrava profilarsi solo come fatto militare, e più precisamente come eventualità di una guerra atomica. L’umanità corre pericoli spaventosi, perfino quello estremo della sua autodistruzione, e non sa ancora che cosa fare per evitarli. L’assurdità della guerra atomica poteva far sperare, sia pure a torto, che il rischio fosse più teorico che reale, ma dopo Chernobyl questa speranza non ha più senso.
L’estensione del rischio atomico ai casi normali della vita, anche per eventi che si producono in paesi diversi dal proprio, è ormai un fatto provato. Ormai sappiamo che la minaccia non proviene solo dalla guerra, ma anche da attività che chiamiamo «pacifiche», e che, a ben vedere, non riguardano solo le diverse applicazioni della tecnologia atomica. In ultima istanza la minaccia sta nel fatto che lo sviluppo della potenza tecnologica dell’uomo (di per sé inarrestabile) perché costituisce una delle caratteristiche peculiari della specie umana, è giunto ormai sino ad un punto nel quale comincia già a mettere in pericolo gli equilibri fondamentali della sfera biologica e della sfera fisica, e dovrebbe pertanto essere sottoposto in quanto tale, e non solo per questo o quell’aspetto, e non solo paese per paese, ad un controllo politico efficace, ovviamente sul piano mondiale.
Che l’umanità sia ormai giunta a questo punto lo si sapeva già. Einstein aveva compreso subito che nell’era atomica non può più esserci salvezza per l’umanità senza un governo mondiale, cioè senza un modo nuovo di pensare e di agire. Si trattava però di una verità per pochi. Con l’incidente di Chernobyl, invece, questa verità per pochi si è trasformata in un fatto di grande risonanza che non potrà essere dimenticato, e quindi, potenzialmente, in una verità per tutti. Il nuovo modo di pensare e di agire — ormai invocato da molti, ma senza dargli alcun significato conoscibile, e senza prospettare alcuna forma effettivamente nuova di azione — si farà strada a fatica, con tempi lunghi, perché la ragione storico-sociale non procede per illuminazioni, ma per lente acquisizioni. Ma il suo sviluppo è certo, perché d’ora in poi basterà evocare il nome di Chernobyl per far emergere di colpo la coscienza dell’assurdità del vecchio modo di pensare e di agire, e dell’attuale organizzazione politica del genere umano.
 
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Per una piena cognizione delle cose bisogna riferirsi alle trasformazioni che subirà il processo politico. In questa contesto uno dei dati decisivi sta proprio nel fatto che tutti — tutti coloro che si trovano inseriti in qualche modo, anche minimo, nel circuito globale dell’informazione — sanno ormai che, in mancanza di controlli efficaci, l’evoluzione tecnologica minaccia la loro vita e soprattutto quella dei loro figli. Saranno, del resto, gli stessi fatti della vita quotidiana a riprodurre costantemente questa consapevolezza.
È dunque ragionevole pensare che la coscienza della necessità di questi controlli —pur in mancanza di una conoscenza adeguata della loro natura — condizionerà sempre più la lotta politica e la stessa formazione del consenso. A questo riguardo si può già dire che il consenso, pur essendo ancora manipolabile in ogni parte del mondo a causa della mancanza o delle imperfezioni della democrazia, non lo sarà mai più sino al punto da consentire la piena fiducia dei popoli per qualunque potere che non affronti, e non risolva, questo problema fondamentale per il destino dell’umanità.
È già chiaro sin da ora, d’altra parte, che i vecchi poteri (cioè l’espressione concreta del vecchio modo di pensare e di agire), non potendo difendersi con le risorse della conoscenza e della verità, si difenderanno, come hanno già cominciato a fare, con i mezzi più antichi della ragion di Stato: con il silenzio, con gli arcana imperii e con i simulacra libertatis (gli iura inana che «compensano i sudditi per ciò che loro si toglie di diritti e libertà mediante i fantasmi degli stessi»).
Si profila dunque una lotta nella quale si scontreranno direttamente la ragion di Stato (annidata nella sovranità assoluta degli Stati e nella loro subordinazione alla logica della potenza nei rapporti internazionali), e la ragione stessa dell’umanità (la ragion pratica assistita dalla ragione scientifica): una lotta che, pur essendo molto difficile perché esige che l’intera umanità si autoriconosca in un pensiero politico attivo, in una nuova ideologia, potrà essere vinta, perché non cesserà mai sino a che esisterà uno scarto tra la coscienza della necessità del controllo dello sviluppo tecnologico e il fatto della sua mancanza. Ed è umano sperare che la ragione non fallirà nell’assolvimento di questo compito, che è sostanzialmente quello di diventare padrona di sé stessa e delle sue opere.
La premessa indispensabile per la realizzazione di questo compito sta nell’assumerlo come proprio, cioè in un atto della volontà. Questa premessa vale anche per quanto riguarda la conoscenza. Ciò che bisogna tener presente è che, se manca questa volontà, finisce anche con l’oscurarsi, nella coscienza, la percezione dei termini reali del problema. Ne segue la convinzione che si tratta di una illusione, e con essa la presunzione di conoscere, sotto questo aspetto, il futuro, e di sapere, per scienza certa, ciò che è possibile e ciò che è impossibile. Contro questa presunzione va semplicemente osservato che la ragion pratica non è di necessità asservita ad alcunché che esista già, e che la ragione teorica non è tenuta a considerare a priori come naturale, e tanto meno come eterna, qualunque situazione che esista (ad esempio la presunta situazione di impossibilità) per il solo fatto che esiste.
 
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Il bisogno di pensare il nuovo e la diffusa incapacità di pensarlo davvero — cioè la ricaduta inconsapevole nel vecchio fanno sì che si ricorra ancora all’idea di accordi e regolamenti internazionali come mezzo per la soluzione del problema del controllo del processo tecnologico. Nel dibattito che si è sviluppato dopo l’incidente di Chernobyl nessuno è andato più in là, nemmeno coloro che, tenendo evidentemente conto dei limiti degli accordi internazionali, hanno evocato la necessità di istituzioni «sovrannazionali». Il fatto è che questo concetto vago, e comunque non precisato nemmeno in questa circostanza, non determina alcun obiettivo reale per l’azione politica, e la lascia pertanto ricadere nella routine del passato, alla quale si adattano naturalmente coloro che escludono la necessità di trasformare l’assetto politico del mondo. Siamo dunque ancora molto lontani dalla consapevolezza del fatto che, per guidare la transizione dalla situazione attuale (mancanza di controlli efficaci) ad una situazione nuova (controlli efficaci), bisogna conoscere non solo il punto di partenza, ma anche quello di arrivo. Solo così i primi passi, per piccoli che siano, sarebbero davvero passi avanti nella buona direzione.
A conferma della sterilità del dibattito che si è svolto sinora sta il fatto che, salvo rare eccezioni, non si è mai parlato di governo mondiale, nemmeno quando si trattava di impostare teoricamente il problema. Eppure la necessità di un governo mondiale è evidente. Basta, per convincersene, fare un piccolo esperimento mentale. Se supponiamo, ad esempio, che l’evento «incidente di Chernobyl» si sia verificato in un quadro politico già caratterizzato dall’esistenza di un governo mondiale, tra le cui competenze ci fosse quella del controllo del processo tecnologico (anche per assicurare la pace, ecc.), possiamo subito stabilire che qualunque decisione opportuna sarebbe stata possibile, ivi compresa quella, se necessaria, di sospendere il funzionamento di tutte le centrali nucleari esistenti nel mondo, e di bloccare la costruzione di nuove centrali. Ciò avrebbe richiesto provvedimenti nel settore dell’energia e qualche forma di compensazione per i paesi più danneggiati economicamente da una misura di questo genere. Ma per un governo mondiale questa non sarebbe stata una grossa difficoltà.
 
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Non occorre spendere molte parole per constatare che con l’attuale sistema internazionale non solo tutto ciò non è possibile (fatto che paralizza la volontà), ma non è nemmeno pensabile (fatto che paralizza il pensiero). Per controllare il processo tecnologico bisogna: a) prendere decisioni politiche mondiali che valgano per qualunque paese, mentre con l’attuale sistema internazionale si possono ottenere solo dei compromessi tra punti di vista precostituiti, perché in questo quadro il processo di formazione della volontà (e della stessa conoscenza dei fatti in questione) si arresta al livello nazionale; b) prendere decisioni rispetto allo sviluppo della potenza tecnologica dell’uomo, cioè rispetto a dati in costante evoluzione, mentre una conferenza internazionale può esaminare solo questioni relativamente statiche, identificabili in anticipo e ben circoscritte; c) prendere a livello mondiale decisioni che, anche quando riguardano casi singoli, mettono immediatamente in gioco lo sviluppo, la sicurezza e l’equilibrio del potere in ogni paese, cioè situazioni controllabili, con l’attuale sistema internazionale, solo dagli Stati come singoli, come detentori della facoltà di decidere in ultima istanza (sovranità assoluta, limite confederale nella cooperazione tra gli Stati).
L’idea di controllare il processo tecnologico con accordi internazionali è dunque una pura e semplice illusione. Detto ciò, va anche osservato che la difficoltà maggiore, per quanto riguarda la formazione di una conoscenza adeguata del problema, sta altrove. Quanto detto sul rapporto tra decisioni e meccanismi per prenderle è presente nella mente di molti, ma viene ricacciato nella sfera del semiconscio, o addirittura rimosso, perché non si vede come si possa giungere ad un governo mondiale. Questo è il vero tema da chiarire, e anche a questo proposito vale una premessa, questa: ciò che non esiste come schema nel pensiero non può esistere come fatto nella conoscenza. Kant diceva che «la ragione scorge soltanto ciò che essa stessa produce secondo il suo disegno».
Questo criterio si applica ovviamente anche al nostro caso. In effetti, si constata subito che chi usa come schema il federalismo può riconoscere nelle integrazioni regionali in corso (la più avanzata è quella europea) dei processi storici destinati anche a portare l’Europa, l’Africa, l’America latina, ecc. allo stesso livello politico già raggiunto dagli USA, dall’URSS, dalla Cina, dall’India, ecc. (Stato di grandi dimensioni con articolazione della sovranità). In questa ipotesi, un governo mondiale, fondato su pochi grandi pilastri continentali, è perfettamente pensabile. È altrettanto vero, d’altra parte, che chi usa come schema quello tradizionale della coincidenza di Stato e nazione (per diversi motivi: può credere che questo tipo di comunità politica non sia superabile, può non essersi posto il problema storico dell’evoluzione della dimensione degli Stati, e così via) è condotto naturalmente a pensare che un governo mondiale non è concepibile sia per la presunta impossibilità di trasferire una parte della sovranità da questi Stati a un governo mondiale, sia, e in ogni caso, per il loro grande numero, che non sembra compatibile con un governo comune.
 
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Questa analisi va controllata in un punto importante. Il punto è questo: se si interpreta in modo meccanico la distinzione tra sistema federale (nella prospettiva del governo mondiale) e sistema internazionale, risultano pensabili solo due situazioni: una nella quale esiste il supporto di potere necessario per prendere decisioni mondiali di grande rilievo, e una nella quale questo supporto di potere non esiste e quindi queste decisioni sono impossibili.
Le conseguenze di questa interpretazione meccanica (il cui errore sta nella equiparazione immediata di una tipologia con la realtà) sono gravi. È evidente, in primo luogo, che con questa interpretazione si vanifica, sul piano teorico, il problema della transizione (non ci sarebbe transizione, ma salto); e si ignora, su quello pratico, il fatto che il processo delle unificazioni regionali — che a un certo stadio del suo sviluppo non potrà non comportare la riforma e il rafforzamento dell’ONU — deve essere considerato come uno degli episodi del processo di unificazione mondiale. È d’altra parte evidente, in secondo luogo, che ignorando il problema della transizione si oscura la prospettiva delle situazioni di potere intermedie tra sistema federale e sistema internazionale.
A questo riguardo disponiamo per fortuna di un dato di valore sperimentale. La Comunità europea ha mostrato che un processo di unificazione di Stati, quando raggiunge lo stadio nel quale è chiaramente percepito dalla classe politica e dalla popolazione, fornisce un supporto di potere (generato dal cambiamento delle aspettative) che rende possibile la presa di decisioni unitarie che, pur essendo inferiori a quelle che potrebbe prendere un governo comune, sono tuttavia nettamente superiori a quelle di carattere internazionale, cioè ai puri e semplici compromessi tra i governi.
L’esempio della Comunità europea permette dunque di stabilire quale potrebbe essere il supporto di potere sufficiente per prendere le prime decisioni mondiali circa il controllo, sia pure parziale, di settori limitati del processo tecnologico. Permette anche, d’altra parte, di affermare che questo potere (già esistente in forma minima, pari alla coscienza minima dell’unità del mondo) si manifesterà in forma netta — anche mediante decisioni di questo genere — quando saranno riconosciuti come tali i fatti, già in corso, del processo di unificazione mondiale.
 
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Se consideriamo nel loro insieme le osservazioni fatte sinora, possiamo dire che dei tre fattori necessari per lo sviluppo della unità del mondo due sono già presenti. È presente, ormai da molto tempo, il primo, il fattore di base, la crescente interdipendenza dell’azione umana a livello planetario, che di per sé produce la necessità di una regolazione mondiale, cioè di nuove forme di statualità. È ormai presente, con l’incidente di Chernobyl, anche il secondo fattore, la leva politica da usare, che sta nella coscienza dell’unità di destino del genere umano e della necessità di decisioni politiche di portata mondiale. Manca ancora il terzo fattore, la coscienza del modo con il quale va usata questa leva.
I fatti di portata mondiale, che scavalcano anche brutalmente le nazioni, sono sempre più numerosi, ma le reazioni a questi fatti sono ancora puramente nazionali, nel senso preciso che cercano di provocare soltanto mutamenti della condotta del proprio governo nazionale. Ciò condanna i pacifisti, gli ecologisti, e moltissime altre persone, all’impotenza. L’elemento nuovo da introdurre è dunque una concezione, comune prima a molti e poi a tutti (una ideologia), che sposti la visione dal quadro nazionale a quello mondiale, e che, nel contempo, diriga l’azione non solo verso il miglioramento del proprio Stato, ma anche, e soprattutto, verso la creazione dei grandi poteri regionali, e del potere mondiale, di cui l’umanità ha bisogno per sopravvivere e prosperare.
Questa ideologia è il federalismo. È un dato di fatto che il federalismo è l’ideologia della messa in questione della sovranità esclusiva dello Stato nazionale e della ragion di Stato, alla quale si sono piegati il liberalismo, la democrazia e il socialismo. È altresì un dato di fatto che si deve al federalismo la scoperta della formula politica per associare le nazioni (l’allargamento dell’orbita del governo democratico da uno a più Stati). Il problema maggiore è dunque questo: lo sviluppo e la diffusione del federalismo, cioè l’aumento del numero delle persone capaci di una vera reazione politica mondiale ai fatti di portata mondiale.
 
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