IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXVIII, 1986, Numero 1, Pagina 12

 

 

Unione europea: un personaggio in cerca d’autore*
 
GIULIO ANDREOTTI
 
 
 
Per le considerazioni che mi accingo a svolgere ho scelto un titolo volutamente provocatorio.
lo credo, infatti, che, nell’attuale fase della costruzione europea, il compito principale cui siamo tutti chiamati è di dare vita a quel concetto di Unione che non da oggi batte alle nostre porte e che chiede di essere interpretato per quello che vuole essere e non per quello che ciascuno di noi preferirebbe che fosse.
L’esercizio presuppone molto impegno, ed è reso ancora più arduo dal fatto che lo stesso personaggio deve essere interpretato ormai da ben dodici attori. È comprensibile, quindi, che vi siano differenze di accenti e di intonazioni, riflesso di specifiche realtà nazionali che sarebbe troppo semplicistico ignorare.
Meno comprensibile sarebbe, però, se una sensibilità eccessiva per questi elementi di specificità finisse per prevalere sulla prospettiva di un’Europa dove tutti i popoli, senza perdere la loro identità, possano ritrovare la loro dimensione comune.
 
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In un saggio sul modello costituzionale americano e i tentativi di unità europea, Altiero Spinelli, la cui fede nel federalismo non ha bisogno di essere dimostrata, ricorda il giudizio dell’economista inglese Josiah Tucker il quale, scrivendo nel 1786 sulla esperienza nordamericana, sosteneva che «quanto alla futura grandezza dell’America ed all’idea che essa possa mai diventare un possente impero sotto una sola testa…, questa è una delle utopie più folli e più visionarie che mai sia stata immaginata da scrittori di romanzi…»!
Giudizio per lo meno avventato: infatti, esso è stato contraddetto dalla storia. Gli Stati americani, che Tucker condannava ad essere «disuniti fino alla fine dei tempi», hanno invece saputo interpretare al meglio il ruolo che ad essi assegnava la storia. Il loro esempio rimane valido anche per noi europei; ma resta il fatto che il Congresso, cui aderirono le tredici ex-colonie britanniche, continuò fino al 1787, cioè fino alla proclamazione della Costituzione da parte di Washington, a prendere le sue decisioni ricorrendo alla regola dell’unanimità.
Non voglio addentrarmi qui in una valutazione dei risultati cui è possibile giungere attraverso l’approccio federalista o quello che lo stesso Spinelli definisce l’approccio funzionale, basato cioè sulla creazione, volta per volta, di autorità sopranazionali. Del resto, l’integrazione europea, quale si è andata sviluppando a partire dal Trattato di Roma, consente una sintesi, forse ancora imperfetta, ma sufficientemente efficace, dei due orientamenti: sì che ci è oggi possibile, dopo le indicazioni che il Parlamento europeo ci ha fornito con il progetto di Trattato sull’Unione europea, dopo il rapporto del comitato Dooge ed in adempimento delle decisioni adottate al Consiglio europeo di Milano, proporci in termini concreti l’obiettivo della costruzione dell’Unione europea.
 
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Il personaggio da interpretare — dicevo — è dinanzi a noi, e non da oggi. La sua prima incarnazione risale al preambolo stesso del Trattato di Roma, laddove è consacrata la determinazione dei sei paesi fondatori della Comunità «a porre le fondamenta di un’unione sempre più stretta fra i popoli europei».
Sappiamo tutti — e spesso per sofferta esperienza personale — da quale teatro di macerie e di lutti si è levato quell’impegno. Basta ripercorrere con la memoria gli anni trascorsi dalla fine della seconda guerra mondiale per renderci conto dei benefici che il processo di integrazione ha apportato all’Europa. E non parlo solamente di benefici materiali, misurabili cioè in termini di benessere economico e di stabilità sociale, per quanto rilevanti essi possano essere — e siano in effetti — stati.
lo non so (perché la Storia non è fatta di ipotesi) se, senza la spinta all’integrazione che ha animato i governi ed i popoli d’Europa, la nostra porzione di continente sarebbe riuscita comunque a sottrarsi alla tradizione di rivalità, troppo spesso sfociate in conflitti, che l’ha caratterizzata anche in epoche recenti. Constato soltanto che fra integrazione e conflitti vi è incompatibilità assoluta e che l’affermarsi della prima nell’ambito europeo ha comportato il declino irreversibile dei secondi.
Né mi è dato sapere se le Nazioni europee, isolatamente prese, sarebbero riuscite, in così breve volgere di tempo, a guadagnarsi tutt’intero il prestigio che si è conquistata nel mondo l’Europa comunitaria ed a suscitare le stesse aspettative che tanti paesi terzi ripongono ormai nella Comunità europea.
Certamente, e apro qui una breve parentesi, non dobbiamo dimenticare il ruolo che l’Italia ha svolto nel dopoguerra nel forgiare l’idea d’Europa quale oggi la intendiamo: perché è ad Alcide De Gasperi che va il merito di avere immesso il nostro paese nell’avventura europea, di avere compreso, cioè, che la composizione del secolare antagonismo franco-tedesco attraverso la messa in comune delle risorse carbo-siderurgiche, forniva l’occasione storica — un’occasione unica — per dare all’integrazione un respiro amplissimo, non limitato a due paesi ma a misura continentale.
Proprio per questa ragione, noi, eredi di De Gasperi, abbiamo oggi, davanti alla storia, una responsabilità enorme: quella di non lasciare che altri distorcano l’idea originaria di un’Europa intesa come patria comune e come scelta di civiltà.
Non vi è alcun orgoglio «di parte» in questa mia ultima affermazione. Quello europeo non è il solo polo di civiltà al mondo. È, però, un polo di civiltà fondamentale ed irrinunciabile, anche perché, tra l’altro, si è nutrito attraverso i secoli degli apporti spirituali e culturali provenienti dalle altre grandi civiltà, con le quali l’Europa non ha mai sfuggito il contatto, che anzi ha favorito e sempre attivamente ricercato.
Una scelta di civiltà, proprio perché tale, non è reversibile: si tratta di una scelta che coinvolge, in primo luogo, un modo di vivere e di pensare, una scelta, cioè, che, indipendentemente dalle forme che può assumere, comporta un modo di essere necessariamente globale. Discende da questa concezione il corollario che non è certo attraverso progetti più o meno fantasiosi di Europa «a geometria variabile» che possiamo attenderci di dare risposta ad esigenze il cui soddisfacimento richiede invece l’apporto di tutti.
 
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Vorrei fare un’altra considerazione che nasce da un episodio recente. La scorsa settimana si è svolta a Lussemburgo la seconda Conferenza fra i paesi della Comunità europea e quelli centroamericani. Era una riunione progettata da tempo, che non avevamo potuto tenere durante il nostro semestre di Presidenza, tutto preso dai problemi del terzo allargamento, e che, tuttavia, noi italiani desideravamo particolarmente.
A sollecitare questa riunione eravamo stati indotti dal ricordo dell’enorme favore con il quale i nostri partners centroamericani avevano accolto lo scorso anno l’incontro di San Josè di Costarica.
Ebbene, ciò che mi ha soprattutto colpito la settimana scorsa a Lussemburgo è stato l’effetto, direi, unitario che la prospettiva della riunione con la Comunità ha prodotto sulle posizioni dei nostri amici centroamericani.
Non è un mistero per nessuno che in quella tormentata regione non è facile superare le tensioni, che derivano sostanzialmente da situazioni di squilibrio economico e sociale interno, ma che condizionamenti internazionali possono certamente rendere ancora più gravi. Non doveva, dunque, stupirci il fatto che, alla immediata vigilia della Conferenza di Lussemburgo, permanessero tra gli interlocutori centroamericani contrasti anche profondi su taluni aspetti dei loro rapporti.
Certamente nel corso della Conferenza non è stato compiuto un miracolo; ma resta il fatto che i paesi centroamericani e quelli del Gruppo di Contadora sono riusciti, proprio a Lussemburgo, a definire fra di loro una base di intesa, che ha consentito la firma dell’Accordo di cooperazione economica e dell’Atto finale. Si è trattato di atti importanti, perché prevedono, fra l’altro, la istituzionalizzazione delle consultazioni politiche a livello ministeriale con la Comunità europea.
 
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I paesi terzi, dunque, guardano al rapporto con noi europei come ad un elemento capace di rafforzarli al loro interno; ed io mi chiedo quanto possa contribuire a questo positivo sviluppo la circostanza che questi stessi paesi si trovino di fronte ad un interlocutore che ritengono autorevole, capace anche di contribuire, sempre che lo voglia, ad allentare le tensioni nelle varie aree del mondo. Ho fatto poc’anzi un esempio — ma molti altri ve ne sarebbero — di quella che viene comunemente, ma efficacemente, chiamata la «domanda d’Europa». Una domanda di cui noi stessi, forse, sottovalutiamo l’intensità, ma che c’è e chiede risposta, e che, sommata a quella che sale dall’interno dei nostri stessi popoli, costituisce un richiamo permanente ad avanzare con coraggio e convinzione sulla strada intrapresa. Perché nulla è più sterile dell’atteggiamento di chi, accontentandosi dei successi ottenuti, non sa e non vuole darsi ragione dei cambiamenti necessari, che continua a considerare inutili, se non, addirittura, perniciosi. Senza contare, poi, il fatto che, il più delle volte, lo stare fermi su certe posizioni non aiuta a conservarle o a rafforzarle, anzi determina arretramenti che è poi difficile poter recuperare.
Nel caso dell’Europa, questi cambiamenti vanno in un’unica direzione: quella del completamento dell’integrazione politica ed economica.
 
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L’Europa comunitaria non è una monade, non è una struttura isolata, chiusa alle influenze del mondo circostante, nel quale, anzi, essa è inserita.
Non è difficile constatare — e non dovrebbe essere difficile trarre da una siffatta constatazione le conclusioni più adeguate — che le sollecitazioni provenienti dall’esterno dell’edificio comunitario vanno tutte nel senso di una accentuazione della sua dimensione unitaria. Del resto questa esigenza sa anche manifestarsi in concreto. Basta pensare al contributo che i paesi europei hanno dato, in stretto collegamento con l’alleato americano, alla preparazione del Vertice di Ginevra attraverso l’apporto di valutazioni e di proposte dirette a favorire il dialogo ed il recupero della fiducia fra le due grandi potenze, ma anche a far valere, in quel contesto, l’esigenza di tenere nel dovuto conto gli interessi più squisitamente europei.
Certo, il peso che l’Europa può esercitare, tenute presenti soprattutto le sue dimensioni economiche, non è di poco conto; ma molto maggiore esso potrebbe essere se l’Europa rafforzasse ulteriormente l’unicità della sua proiezione esterna attraverso il consolidamento, nel quadro dell’Unione europea, dei meccanismi della Cooperazione politica europea.
Questi meccanismi vanno svincolati dalla originaria impostazione di collaborazione intergovernativa che non garantisce una unicità di comportamenti fra i singoli paesi membri, e va altresì realizzata la loro estensione agli aspetti politici ed economici della sicurezza.
Ma nella previsione del prossimo Consiglio europeo, è bene mettere subito i punti sulle i; perché non è possibile limitarsi a discutere e, eventualmente, ad approvare un Trattato che, in qualche modo, codifichi il meccanismo della Cooperazione politica europea, e che viene pomposamente definito un Trattato sull’Unione, senza poi affrontare il problema di fondo del divenire della Comunità in tutti i suoi aspetti. Rischieremmo, altrimenti, di premiare il momento della cooperazione intergovernativa su quello dell’integrazione. In ogni caso il governo italiano, forte del sostegno del Parlamento, non potrebbe accettare a Lussemburgo una impostazione così riduttiva, che già respingemmo decisamente a Milano.
 
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L’ampiezza dei problemi con i quali ci troviamo a dover fare i conti nella società di oggi, ma ancor più in quella di domani, richiede, d’altra parte, un impegno in termini di risorse, sia umane che materiali, che i singoli paesi europei difficilmente sarebbero in condizione di assumere.
La situazione nel campo della ricerca e dello sviluppo tecnologico è, a questo riguardo, emblematica.
La differenza fra le spese per la ricerca degli Stati Uniti e del Giappone, da una parte, e l’insieme dei paesi europei, dall’altra, è impressionante: da soli, Stati Uniti e Giappone coprono i due terzi della ricerca globale del mondo occidentale. Solo tre paesi europei (Germania Federale, Regno Unito e Francia) raggiungono livelli di spesa sufficienti per essere classificati, secondo i criteri dell’OCSE, nella categoria dei cosiddetti big spenders.
Le spese per la ricerca di grandi compagnie americane, quali General Motors, Ford e IBM, superano, e non di poco, quelle di un paese europeo di media dimensione. Non cito esempi specifici per non correre il rischio di fare io stesso una classifica dei paesi europei di media dimensione, ma i dati dell’OCSE sono a disposizione di tutti. Certo, l’efficacia di una politica di ricerca non può essere valutata considerando solamente il volume della spesa. Molto dipende anche dalla qualità degli uomini — che all’Europa non manca di certo — e dall’organizzazione, che può sempre essere migliorata. Ma una cosa è sicura: la crescita delle conoscenze e lo sviluppo delle tecnologie sono in gran parte determinati dal livello delle risorse impiegate. Non è cioè possibile lanciarsi in alcuni settori della ricerca tecnologica senza disporre di risorse superiori ad una soglia minima, soprattutto sul piano delle spese del settore pubblico, che debbono essere dirette verso obiettivi molteplici e diversificati, a differenza di quanto avviene per le grandi imprese private, che possono concentrare le risorse disponibili su progetti specifici e delimitati. Non ci deve stupire, quindi, l’insistenza con cui gli ambienti scientifici sottolineano, e non da ora, l’importanza di una politica coordinata e di una più stretta cooperazione europea nel campo della tecnologia. A questo proposito, vorrei essere molto chiaro: all’interno dell’Europa le differenze restano enormi. Gran Bretagna, Francia e Germania Federale coprono, da sole, 1’80% della ricerca globale condotta nei paesi della Comunità.
lo credo che occorra soprattutto evitare il rischio, che è grande, che certi paesi decidano di collaborare insieme, escludendo altri.
Non dico questo perché tema una eventuale esclusione dell’Italia. La nostra tradizione in campo scientifico, la solidità delle nostre strutture, la qualità dei nostri ricercatori e dei nostri tecnici sono tali da farci ragionevolmente ritenere al riparo da qualsiasi tentazione discriminatoria. Del resto, la nostra lealtà al metodo comunitario è fuori discussione, in questo come in altri settori.
Lo dico perché sono convinto che solo una collaborazione estesa a molti paesi, per quanto limitati dal punto di vista quantitativo possano essere gli apporti specifici, può contribuire alla coesione dei paesi della Comunità ed a realizzare un vero salto di qualità con effetti benefici e generalizzati sull’insieme dell’economia europea e sull’occupazione.
È in questo senso che noi abbiamo considerato e consideriamo l’iniziativa del programma EUREKA come propedeutica e non alternativa rispetto alla Comunità tecnologica europea.
 
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Lo sviluppo di politiche comuni, tra le quali, come ho detto, acquista risalto quella della ricerca, non può avvenire se non si riesce a creare parallelamente un quadro ad esso favorevole.
Questo quadro presenta diversi aspetti, fra i quali assumono rilievo il completamento del mercato interno, la convergenza delle economie, il rafforzamento del Sistema monetario europeo e la riforma delle istituzioni esistenti.
Non mi è possibile, in uno spazio di tempo cosi breve, (e poi non vorrei tediarvi oltre misura) illustrare e commentare tutti i diversi temi attualmente all’esame della Conferenza intergovernativa e che verranno sottoposti a Lussemburgo all’attenzione dei Capi di Stato e di governo. Mi preme, qui, mettere l’accento su alcuni aspetti, che ritengo significativi.
Sappiamo tutti che la costruzione di un mercato unico effettivamente integrato non costituisce, indipendentemente dalla minore o maggiore flessibilità dei meccanismi ai quali fare ricorso, un obiettivo di facile realizzazione.
Vi si oppongono difficoltà non lievi di natura fisica, tecnica e fiscale. Vi si oppone, anche, la mancata realizzazione di progressi nella convergenza delle economie.
È certo, inoltre, che non si possono applicare al processo di completamento dell’unione economica gli stessi criteri che il Trattato di Roma ha previsto per la creazione dell’unione doganale. In quest’ultimo caso, infatti, si è trattato di stabilire un periodo transitorio, di fissare entro questo periodo delle tappe, di ridurre gradualmente i dazi interni e di introdurre, parallelamente, una tariffa esterna comune. C’erano, in altri termini, nella messa in funzione dell’unione doganale, dei riferimenti numerici ben precisi, rappresentati appunto dai livelli dei dazi esistenti in ciascun paese.
Ma ci dev’essere pure il modo di fissare alcuni principi cui attenersi anche nella progressiva instaurazione dell’unione economica! Cercherò di illustrarne qualcuno.
Se, da una parte, appare logico che l’armonizzazione delle legislazioni avvenga verso l’alto, cioè tenda ai livelli di quelle più avanzate, occorre, dall’altra, salvaguardare il principio della libera circolazione ed evitare che si determinino condizioni che spingano «fuori mercato» le economie dei paesi più deboli.
Ma anche senza giungere a questa ipotesi estrema — che peraltro non può essere considerata come un’ipotesi puramente accademica — mi sembra indispensabile prevedere che le misure di attuazione del mercato interno procedano di pari passo con la progressiva attenuazione degli squilibri esistenti fra le varie regioni della Comunità. Occorre, cioè, uno slancio sociale, che si realizza, in particolare, attraverso un ruolo più consistente dei Fondi speciali destinati alle aree meno favorite.
Un altro aspetto importante del processo di integrazione è rappresentato, come osservavo poc’anzi, dalla moneta.
Consentitemi, a questo riguardo, di aprire una parentesi.
L’attuale assetto monetario internazionale, sorto dalle ceneri di Bretton Woods, mostra ormai grandi debolezze. Le distorsioni nei tassi di cambio di talune monete, il cui valore sempre più si discosta dalla realtà degli indicatori economici, di cui, pure, esse dovrebbero essere il riflesso, rendono vieppiù difficile l’efficiente allocazione delle risorse e provocano, tra l’altra, il rigurgito di pericolose tendenze protezionistiche.
L’ulteriore ampliamento ed il rafforzamento di un’area omogenea, quale sarebbe quella dell’Europa comunitaria intorno all’ECU, inteso come vera e propria moneta e non come unità di conto, contribuirebbe certamente ad una maggiore stabilità, i cui effetti benefici non si limiterebbero all’ambito comunitario, ma si estenderebbero all’intero sistema monetario internazionale.
L’Europa, che di un nuovo sistema internazionale costituisce una componente importante — e che lo sarà ancor più se riuscirà a progredire sulla via del Sistema monetario europeo — deve svolgere il suo ruolo.
Qui dobbiamo stare molto attenti. Non è pensabile poter realizzare la libera circolazione dei capitali senza porre, parallelamente, le condizioni di una più ampia stabilità dei rapporti di cambio. Né è pensabile che la libera circolazione delle merci e dei servizi diventi un’acquisizione sicura se poi si lascia a ciascun paese la possibilità di gestire la propria politica economica e finanziaria senza tener conto dell’esistenza di un mercato integrato.
Ci troviamo, qui, di fronte ad un altro dei non pochi settori in cui compito e responsabilità dei politici sono quelli di adottare decisioni coraggiose e lungimiranti, come seppero fare nel 1978 i governanti tedeschi decidendo di dare vita allo SME nonostante il parere negativo della Bundesbank.
 
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Vorrei intrattenervi, da ultimo, sui problemi istituzionali, e soprattutto sul problema del rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo.
Da sei anni, ormai, i membri del Parlamento europeo sono eletti a suffragio universale diretto.
Non credo di dovermi soffermare sull’importanza e sul significato di questo fatto. Vorrei soltanto notare che non può e non deve stupire nessuno la circostanza che proprio l’elezione diretta dei parlamentari europei ha comportato un’accelerazione del dibattito sugli equilibri istituzionali all’interno della Comunità e sulle modalità di realizzazione dell’Unione europea.
Che ne siamo tutti consapevoli o no, l’elezione diretta dei membri del Parlamento europeo ha inserito un potente fattore di «squilibrio» negli assetti istituzionali consolidati, con il quale non potremmo, anche se lo volessimo, evitare di fare i conti.
Devo confessare, a questo proposito, che non mi è sempre facile capire il senso di talune resistenze opposte all’attribuzione di maggiori poteri al Parlamento europeo e, soprattutto, ad una sua più incisiva partecipazione nel processo decisionale.
Mi è difficile capirlo sul piano, per così dire, funzionale, in quanto mi sembra sufficientemente chiaro che non è questione, attraverso il rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo, di sottrarre competenze ai Parlamenti nazionali; si tratta, invece, di conseguire una più equilibrata ripartizione delle competenze che in base ai Trattati esistenti già spettano alle istituzioni comunitarie. Trovo talvolta difficoltà a far comprendere questo concetto a taluni dei miei interlocutori comunitari.
La questione del ruolo del Parlamento europeo non si esaurisce, però, in valutazioni di procedura, come sembra ritenere chi teme che da un suo più incisivo intervento nell’attività legislativa derivino lungaggini ed appesantimenti di un processo che pure si vorrebbe sveltire. Il problema, a me sembra, è un altro.
Il Parlamento europeo è l’unica istituzione della Comunità europea che tragga la sua legittimazione da una rappresentanza direttamente conferita ai suoi membri non sul piano nazionale, bensì su quello comunitario. Solamente attraverso il Parlamento europeo i popoli possono quindi avere la sensazione concreta di partecipare alla vita della Comunità. In questo senso, esso è la vera base psicologica ed il vero motore dell’integrazione non delle strutture, bensì dei popoli d’Europa.
È abbastanza curioso, a questo proposito, che in molte sedi multilaterali, e segnatamente in quella della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa, si ponga giustamente, da parte delle delegazioni occidentali, l’accento sulla mancanza di rappresentatività di taluni istituti dei paesi dell’Est. Cose sacrosante; ma non è ammissibile poi che, in pratica, si cerchi di chiudere un occhio, di far finta di niente, o, peggio ancora, di assumere una posizione di chiusura allorché si tratta di imprigionare il Parlamento europeo, eletto a suffragio universale e diretto, nell’esercizio di un potere meramente consultivo. La rappresentatività può avere carattere formale se riferita all’istituto della monarchia costituzionale; la rappresentatività deve essere invece sostanziale quando si tratta di un’Assemblea i cui membri vengono eletti direttamente dal popolo.
Come per il voto a maggioranza nelle deliberazioni del Consiglio, affermando il ruolo del Parlamento europeo si afferma non uno strumento, bensì un principio.
 
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Al Consiglio europeo di Milano siamo riusciti, confortati dal lavoro di quanti ci avevano preceduto nel tentativo di delineare i contorni dell’Unione europea, e specialmente dal lavoro del Parlamento europeo, a tracciare il cammino da percorrere.
A Milano sapevamo, sia la maggioranza che si è pronunciata a favore della convocazione della Conferenza intergovernativa per la modifica dei Trattati, sia la minoranza che pure ai lavori di questa Conferenza ha partecipato e partecipa con spirito non improntato ad una opposizione preconcetta, a Milano, dicevo, sapevamo tutti che parlare di un Trattato sulla Cooperazione politica europea significava affrontare il tema della formulazione sistematica e dell’attuazione di una politica estera comune estesa agli aspetti della sicurezza.
Sapevamo che parlare di completamento del mercato interno e di sviluppo di nuove politiche significava porsi l’obiettivo di migliorare il processo di decisione del Consiglio, ritornando al rispetto del principio del voto a maggioranza nella presa delle decisioni, ed anzi estendendo tale principio anche a nuovi campi d’applicazione. Sapevamo, inoltre, che nella prospettiva dell’integrazione occorreva restituire alla Commissione un effettivo ruolo propositivo, esecutivo e di gestione; e che la libera circolazione delle persone, delle cose, dei servizi e dei capitali (la realizzazione delle cosiddette quattro libertà) non era immaginabile, da un lato, senza un impegno preciso nel campo monetario e, dall’altro, senza il miglioramento della coesione fra le varie regioni della Comunità.
E sapevamo, infine, che punto fondamentale dell’esercizio dei Capi di Stato e di governo era quello del rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo e dell’attribuzione all’Assemblea di Strasburgo di un effettivo potere di codecisione.
Su questo pacchetto di misure si è finora esercitato il lavoro della Conferenza intergovernativa.
La mia impressione complessiva è che, nella preparazione del Consiglio europeo, l’atteggiamento di non pochi paesi sia ispirato più ad una sorta di horror vacui o, meglio, di horror novi, che all’entusiasmo che sarebbe legittimo attendersi da parte di chi abbia consapevolezza di essere impegnato in un compito di portata storica.
lo spero che le riunioni dei prossimi giorni, l’ultima delle quali avverrà proprio all’immediata vigilia del Consiglio europeo, daranno finalmente vigore conclusivo ad un esercizio che ancora oggi procede a stento.
Si è parlato, a proposito di queste prossime riunioni, di Conclave. In realtà, i veri Conclave, quelli che servono cioè ad eleggere i Papi, durano di solito più a lungo, nonostante l’aiuto dello Spirito Santo.
Si tratterà però, certamente, di riunioni importanti e, ce lo auguriamo, decisive. Perché —ed è bene esserne consapevoli — a Lussemburgo dovranno essere decise vere riforme. Le riforme, cioè, che avevamo previsto a Milano e che, tutte insieme, contribuiscono a «fare» l’Unione europea.
 
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lo comprendo, perché umane, le esitazioni dinanzi a tutto ciò che è nuovo. Credo, del resto, che anche un uomo di azione come Giulio Cesare dovette pur avere un momento di esitazione sulle sponde del Rubicone. Nessuno affronta a cuore leggero il fatidico «hic Rhodus, hic salta». È stato ricordato che l’elaborazione del Trattato di Roma fu un esercizio di prudenza e di pazienza. Alcune parole — come ad esempio sopranazionalità e Alta Autorità — furono attentamente bandite; solo all’ultimo momento, quando cioè era impegnato nell’ultima rilettura del testo del Trattato, il Comitato di redazione si decise ad impiegare la parola «Comunità».
Mi sembra che la storia si ripeta quando, ora come allora, si fa questione di nominalismi e quando si ha paura di usare, al posto della parola Comunità, la parola Unione.
Ma l’esperienza ci insegna che spesso il coraggio prevale sulla prudenza, e che non sempre quest’ultima è sinonimo di lungimiranza.
Non è da escludere, certo, che l’applicazione pratica di principi generali possa avvenire gradualmente e per tappe all’interno di un periodo prefissato. Ma ciò, beninteso, solamente a patto che sull’accettazione dei principi, sulla fissazione degli obiettivi e sull’adozione delle misure necessarie per consentirne il conseguimento, non vi sia al Consiglio europeo di Lussemburgo margine di ambiguità alcuna, e che la base di partenza rispetti il livello minimo al di sotto del quale l’esercizio perderebbe di credibilità e di sostanza, prima ancora che di efficacia.
Noi riteniamo che tale livello minimo sarà salvaguardato solamente se a Lussemburgo saremo capaci di assumere impegni concreti sull’adozione delle misure istituzionali (tra cui, principali, il ricorso al voto a maggioranza ed il potenziamento del ruolo della Commissione) necessarie per la piena realizzazione, entro il 1992, del Mercato interno (di cui occorrerà definire chiaramente l’ambito) nonché delle nuove politiche; di fissare un calendario preciso per l’associazione del Parlamento europeo alla attività legislativa, fermo restando che lo sbocco finale del processo dovrà essere quello della codecisione piena; di conferire maggiore cogenza all’obiettivo della coesione fra le regioni della Comunità, con l’intento di dare una dimensione sociale alla soluzione dei problemi economici; di inserire nel Trattato il riferimento alla necessità di rafforzare il Sistema monetario europeo; di istituzionalizzare la Cooperazione politica.
Riteniamo inoltre che il Parlamento europeo debba essere opportunamente sentito sulla definizione di tutte le misure di questo pacchetto prima che esse, sempre che adottate dalla Conferenza ed approvate dal Consiglio europeo, vengano tradotte in articoli di Trattato da sottoporre alla ratifica dei Parlamenti nazionali.
In nessun caso, infine, potremmo accettare che il risultato della Conferenza consista nell’indicazione di formule o di architetture istituzionali fors’anche suggestive, ma prive di contenuti concreti, né che eventuali progressi su una o più questioni specifiche — e penso in particolare alla Cooperazione politica — servano a nascondere fallimenti su tutti gli altri terreni.
 
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Jean Monnet ha lasciato scritto nelle sue Memorie: «Bisogna prevedere delle tappe, ma non delle scadenze, mantenersi ad una direzione, ma non legarsi ad appuntamenti obbligati. Un tale o un tal’altro mese non ha niente di fatidico, ed io non mi formalizzerei eccessivamente su una data. Sono certo, però, che il progredire delle stagioni ci conduce necessariamente verso un’unità più grande, che, se non sarà quella che abbiamo saputo organizzare, sarà quella che dovremo subire».
L’essenziale è che l’impegno di tutti a costruire l’Europa non conosca rallentamenti e cadute di tono.
I risultati che abbiamo fin qui conseguiti non sono venuti per germinazione spontanea, quali fiori in un campo a primavera. Sono stati il frutto di una chiara volontà politica. Di quella volontà politica che faceva dire a De Gasperi: «Parliamo, scriviamo, insistiamo, non lasciamo un istante di respiro: che l’Europa rimanga l’argomento del giorno».
I risultati di un recente sondaggio d’opinione mi hanno molto impressionato. Settantasei Europei su ogni cento che si sono espressi sull’Unione europea hanno dichiarato di esservi favorevoli.
Non si può troppo a lungo sottostimare l’opinione della gente. Né, novelli Gattopardi, possiamo continuare a proporci di cambiare tutto perché niente cambi. Se l’Unione europea non riuscisse a trovare attori capaci di interpretarla, essa potrebbe pur sempre trovare nei popoli dell’Europa l’Autore che, più chiaramente ancora di quanto abbia sin qui fatto, ne reclami la nascita e ci chieda conto delle nostre esitazioni.


* Si tratta dell’VIII Conferenza Jean Monnet, tenuta il 23 novembre 1985 dal Ministro degli Esteri italiano presso l’Istituto Universitario Europeo di Firenze.

 

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