IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXVIII, 1986, Numero 1, Pagina 40

 

 

LA PARTECIPAZIONE ATTIVA ALLA SINISTRA EUROPEA SOLA ALTERNATIVA AL DECLINO DEL PCI
 
 
Il XVII Congresso del PCI ha sancito la svolta europea nella base del partito. Il travagliato processo, iniziato con l’ingresso dei comunisti italiani al Parlamento europeo e approfondito grazie all’impegno tenace prima di Amendola e poi di Berlinguer, è finalmente sfociato in una precisa proposta politica. «Il PCI è parte integrante della sinistra europea», si afferma con sicurezza nelle Tesi discusse dai militanti nel dibattito pre-congressuale. Quasi tutti i leaders del partito intervenuti al Congresso hanno approvato la svolta europea, esprimendo il loro consenso per questa chiara scelta di schieramento.
Lo stesso Natta, nella sua relazione introduttiva, ha cercato di indicare gli obiettivi più importanti di lotta della sinistra europea: «…la disunione della sinistra — ha detto Natta — intorno all’idea europeistica e alla possibilità di una comune politica europea, almeno sui temi essenziali della situazione internazionale, continua a fare della Comunità europea non molto di più di una intesa economica, essa stessa assai incerta e travagliata, e incapace anche di offrire una sufficiente resistenza alle pretese egemoniche degli USA, anche in campo economico… L’Europa non si manifesta ancora come una vera entità politica… E noi dobbiamo proporre che si pensi e si avvii il lavoro per un incontro programmatico delle forze progressiste e di sinistra dell’Europa comunitaria… Continuiamo, innanzitutto, a pensare ad un riavvicinamento dei due grandi filoni in cui è scisso il movimento operaio…».
Non vi è alcun dubbio sulla serietà dell’impegno del PCI in questa direzione. Poco prima del XVII Congresso, Natta ha fatto visita alla SPD e in una conferenza stampa con il Presidente Brandt ha chiarito che lo scopo del suo viaggio era quello di avviare un dialogo al fine di preparare un comune programma elettorale delle sinistre per le prossime elezioni europee del 1989. Il progetto del PCI prevede dunque un obiettivo preciso e trova importanti consensi a livello europeo. Il superamento dello storico steccato fra socialdemocrazia e comunismo sembra ormai a portata di mano, grazie alla conquista del voto europeo che ha consentito a tutti i partiti della sinistra europea di battersi per comuni obiettivi all’interno del Parlamento europeo e di abbandonare antichi ed ormai anacronistici pregiudizi. Per questo appare davvero patetica la dichiarazione — estremo tentativo di non sentirsi del tutto esclusi dal nuovo corso — dei rappresentanti sovietici Zajkov e Zagladin secondo cui «anche il PCUS si sente parte della sinistra europea».
Tuttavia, nonostante il cammino compiuto sul terreno europeo, restano ancora nel PCI incertezze e contraddizioni. Non esiste, e non ha futuro, una sinistra europea senza Unione europea. È una banale constatazione: nessun serio progetto di programma delle sinistre europee potrà prendere forma, e soprattutto realizzarsi, in assenza di una Comunità rinnovata, con un governo europeo dotato di poteri effettivi nei settori dell’economia, della moneta e della politica estera. Purtroppo questa prospettiva di lotta — vale a dire la realizzazione di precisi obiettivi istituzionali europei — non è stata nemmeno indicata da Natta nella sua relazione ed è rimasta altrettanto assente negli interventi dei delegati. È spiacevole dover fare questa osservazione in un momento in cui la ripresa della lotta per l’Unione europea, dopo le deludenti conclusioni del vertice di Lussemburgo e in risposta al troppo facile scetticismo dell’europeismo di facciata, richiederebbe un impegno fermo di tutti i partiti, italiani ed europei. Spinelli ha delineato una precisa strategia di lotta all’interno della Commissione istituzionale del Parlamento europeo, ma sino ad ora nessuna voce autorevole si è ancora levata per sostenerla. Sotto questo aspetto il Congresso comunista rappresenta un’occasione mancata. Non ci si può dichiarare «parte integrante della sinistra europea» senza poi battersi con coerenza per quegli obiettivi che sono indispensabili per consolidare e far crescere la sinistra europea in formazione.
Questa mancanza di chiarezza degli obiettivi strategici non concerne unicamente il Congresso comunista e non è affatto una posizione contingente. Si tratta di una lacuna storica della cultura della sinistra europea. Se ne può trovare una prova eloquente nel «Manifesto per una nuova sinistra europea» di Peter Glotz, segretario esecutivo della SPD, in cui sono, di nuovo, assenti le indicazioni sugli aspetti istituzionali del progetto europeo delle sinistre; in altri termini, sono assenti le indicazioni sul modo in cui può essere realizzata la democrazia europea. Si parla di politica europea dell’occupazione, della tecnologia e della ricerca di avanguardia, della distensione, della cooperazione internazionale, ecc., ma poi ci si dimentica che senza un governo europeo tutte queste belle prospettive di progresso sono destinate a non superare lo stadio delle buone intenzioni.
È vero che l’unità europea non è un fine in sé. Ma essa è pur sempre un mezzo indispensabile, una vera e propria conditio sine qua non, rispetto a qualsiasi programma comune delle sinistre. Senza unità europea qualsiasi formulazione programmatica è destinata a rimanere un bell’ideale e il PCI correrà il rischio di pagare a caro prezzo una scelta in cui alle parole non seguono i fatti. In politica, dove le grandi opzioni ideali vengono spesso evocate solo per catturare facili consensi, chi vuole il fine ha anche il dovere di indicare i mezzi adeguati. Il destino del PCI, in pratica la sua capacità di resistere alle forze che lo minano dall’interno (il declino degli iscritti, i primi fenomeni di malgoverno negli enti locali, il distacco dal mondo giovanile, ecc.) dipende dalla determinazione e dal coraggio con cui saprà affrontare la scelta europea. È questo il senso del fermo ammonimento di Lama: «La nostra partecipazione attiva alla direzione della sinistra europea, questa è l’impresa stimolante e entusiasmante; altrimenti il nostro declino sarebbe inevitabile e meritato».
Per scongiurare questo pericolo è ormai urgente che alla svolta politica europea si accompagni una radicale svolta culturale, che si proponga di recuperare gli elementi di federalismo sonnecchianti nella tradizione socialista europea — basti in proposito ricordare che la rivendicazione dell’obiettivo degli Stati Uniti d’Europa era già emersa in seno alla II e alla III Internazionale — e che sono sempre più indispensabili per giudicare la storia contemporanea e orientare l’azione politica. Non è vero, come qualche volta si dice anche all’interno del PCI, che si è «moderni» solo accettando una visione pragmatica e non ideologica della politica: la FGCI, forse un po’ troppo sbrigativamente, ha rinunciato a una parte essenziale della cultura socialista definendosi una «organizzazione non-ideologica». Ma chi non ha il coraggio di giudicare il corso della storia nella sua globalità rinuncia anche alla possibilità stessa di comprendere il senso dell’azione politica e a battersi con efficacia in favore dell’emancipazione umana (la rivoluzione, per usare il linguaggio dell’Ottocento). Fortunatamente, all’interno del PCI è ancora molto vivo il dibattito sul nuovo internazionalismo e la terza via. È naturale che sia così in un partito che affonda le sue radici nella Rivoluzione bolscevica e nella Resistenza europea. Ed è altrettanto vivo il sentimento della cosiddetta mondializzazione dei problemi. Le grandi questioni della politica contemporanea — la pace, l’ambiente, l’avvento della società post-industriale, il dialogo Nord-Sud, ecc. — hanno una dimensione mondiale e non possono essere affrontate che con gli strumenti culturali del federalismo, vale a dire della teoria politica del superamento della ragion di Stato attraverso l’istituzione di un potere democratico al di sopra dei governi nazionali, in grado di imporre la pace e realizzare la giustizia internazionale. Natta ha voluto giustamente ricordare al Congresso la coraggiosa affermazione di Berlinguer in favore di un «governo mondiale»,[1] ormai indispensabile per far fronte alla minaccia di olocausto nucleare e di catastrofe ecologica per l’intero pianeta. Dopo aver parlato delle critiche di Togliatti «al gruppo dirigente sovietico a proposito della natura della guerra nell’epoca moderna», Natta ha affermato: «Parve vana utopia molti anni dopo, e quasi la caduta in una sorta di profetismo imbarazzante, l’auspicio che Berlinguer fece al nostro XIV Congresso di un ‘governo mondiale’ di fronte ai rischi incombenti e alle tragedie già in atto. Non lo era: era il bisogno di tracciare un nuovo orizzonte, di indicare una idealità nuova per i parziali obiettivi di lotta che tappa per tappa bisogna porsi».
È questa, in effetti, la sfida teorico-pratica a cui il PCI è confrontato. L’esperienza della Comunità europea, nel dopoguerra, sembra indicare una via sicura, se percorsa interamente, verso la pacifica convivenza di nazioni un tempo feroci avversarie sui campi di battaglia. Ma come consolidare questa unità ancora precaria? E con quali mezzi consentire all’Europa di far sentire la sua voce di pace e di giustizia al mondo intero, per guidarlo verso quel governo mondiale ormai indispensabile alla soluzione dei drammatici problemi del nostro tempo? Sono questi gli interrogativi a cui i comunisti italiani devono dare oggi una risposta. E vale la pena di ricordare, anche se le circostanze storiche sono del tutto differenti, che sono questi gli stessi angosciosi interrogativi che si sono posti, negli anni della seconda guerra mondiale, i fondatori del MFE.
 
Guido Montani


[1] Nel suo Rapporto al XIV Congresso nazionale del PCI (Roma, 18 marzo 1975), Berlinguer ha affermato: «…Si può pensare che lo sviluppo della coesistenza pacifica e di un sistema di cooperazione e integrazione, così vasto da superare progressivamente la logica dell’imperialismo e del capitalismo e da comprendere i più vari aspetti dello sviluppo economico e civile dell’intera umanità, potrebbe anche rendere realistica l’ipotesi di un governo mondiale che sia l’espressione del consenso e del libero concorso di tutti i paesi. Questa ipotesi potrebbe uscire così da quel regno di pura utopia nel quale si collocano i progetti e i sogni di vari pensatori nel corso degli ultimi secoli».

 

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