IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXVIII, 1986, Numero 1, Pagina 44

 

 

LE METAMORFOSI DELL’EUROPA
 
 
Il sonno nel quale è caduta l’Europa all’inizio degli anni Settanta annuncia l’inizio di una millenaria dimissione — un mondo senza Europa — oppure si tratta di un sopore passeggero, il tempo di recuperare le forze prima di prendere parte attiva al più grande salto in avanti dell’umanità dopo la rivoluzione neolitica?
La visione che rimane nel lettore quando richiude Les Métamorphoses de l’Europe di Michel Richonnier[1] è una vera e propria vertigine: una visione di vita e di morte dell’Europa, già familiare ai lettori del Federalista.
Facciamo l’inventario utilizzando entrambi gli approcci, il suo ed il nostro. È sorprendente: i gloriosi trent’anni (ventotto, in verità) vissuti nel comfort dell’ignoranza avrebbero assommato la fine di non meno di sei grandi cicli storici.
La fine dell’agonia del neolitico: l’ingegneria genetica libererà l’agricoltura dalla maggior parte delle costrizioni climatiche e meteorologiche e l’allevamento dai limiti della riproduzione naturale. Questa rivoluzione può essere datata dalla prima ricombinazione genetica ottenuta con successo nel 1973 da Herbert Boyer di Berkeley e da Stanley Cohen di Stanford: l’uomo può oggi modificare il programma genetico delle cellule viventi per accrescere l’efficienza della loro riproduzione o per far loro produrre sostanze che non fabbricherebbero naturalmente.
La fine dell’era europea: il monopolio europeo della modernità finisce per sempre con il crollo del sistema (nazionale e coloniale) degli Stati. Questa retrocessione geopolitica dell’Europa comincia con l’emergere, alla fine della seconda guerra mondiale, di un sistema mondiale bipolare, dominato dagli Stati Uniti d’America e dall’URSS, e si conclude, psicologicamente e simbolicamente, con la fine della guerra del Vietnam. La crescita della potenza economica della Comunità europea e del Giappone e l’accesso della Francia e della Cina allo stato di partners nucleari dimostrano che questo ordine a due era gravido di un ordine multipolare. Durante la guerra del Vietnam gli Europei hanno vissuto per interposta persona la liquidazione dell’ultimo grande residuo del colonialismo, trasferendo sugli Stati Uniti la loro cattiva coscienza di ex-colonizzatori e accettando senza batter ciglio che la sconfitta americana fosse pagata dal popolo vietnamita con un avvenire di oppressione. Questa esorcizzazione vietnamita del passato coloniale ha posto in Europa le premesse di una riabilitazione dell’idea di potenza, indispensabile per qualsiasi ambizione di portata universale in un mondo di Stati.
La fine del dominio assoluto del capitale: la rivoluzione informatica, che si estende a partire dal 1951, con il primo calcolatore commerciale, fino al 1971, con il microprocessore, annuncia un tempo in cui l’informazione soppianterà la merce come oggetto di scambio, mentre la moneta stessa, con la monetica, completerà la sua dematerializzazione; il capitale, dapprima limitato dal movimento operaio e poi diviso dalla natura mista della sua proprietà, tende oggi, come forza produttiva, ad essere soppiantato dalla scienza (delle particelle elementari e delle cellule viventi), tant’è che il potere di decisione, nelle unità di produzione, è sempre meno legato al suo possesso, pubblico o privato, e sempre più alla conoscenza. Mentre la generalizzazione del fordismo tende a trasformare il salario in un fatto politico e gli effetti negativi della concentrazione fisica del capitale sfiorano la catastrofe ecologica (congestione urbana), cominciano ad apparire i primi segni di una dispersione delle attività produttive, di natura tale da liberarle da qualsiasi costrizione di localizzazione.
La fine del principio meccanico, al quale si sostituisce oggi il principio automatico: la macchina aveva moltiplicato la forza di lavoro manuale dell’uomo, l’automa moltiplica ora la sua forza di lavoro intellettuale. Lo stadio dell’intelligenza artificiale è alla nostra portata e l’uomo, ben presto liberato dal lavoro, potrà dedicarsi, anima e corpo, al gioco e alla creazione.
La fine della seconda Rivoluzione industriale: il rincaro del prezzo del petrolio (1973) ha costretto ad anticipare il ricorso a fonti d’energia alternative, di cui la più promettente è passata, durante i gloriosi trent’anni, dallo stadio di ricerca di base a quello di ricerca applicata: si tratta della fusione termonucleare controllata, che porta in sé la potenzialità dell’energia gratuita. Esso ha anche suonato l’ora del graduale ripiegamento della petrolchimica nel momento in cui l’esplosione delle biotecnologie lascia intravvedere lo sviluppo prossimo della chimica della biomassa.
La fine di un ciclo di Kondratiev: il celebre studio dell’economista russo si arresta al 1920, ma quell’anno fu il punto di partenza di un nuovo periodo di ribasso dei prezzi arrivato fino alla seconda guerra mondiale (la Grande deflazione del ventesimo secolo), seguito, a partire dal 1946, da una nuova fase di rialzo dei prezzi di lunga durata, fino alla fine della guerra del Vietnam (1973). La crisi attuale, nonostante gli shocks petroliferi, generatori di un’inflazione resistente, può essere analizzata come una fase depressa di un movimento lungo di tipo Kondratiev. Ma nel cuore di questa crisi si è formato un nuovo grappolo di innovazioni capaci di indurre una nuova fase di crescita, che dovrebbe raggiungere il suo regime di crociera intorno al 1995.
I cicli che si sono conclusi risalivano rispettivamente a due millenni, a sei secoli, a tre secoli, a due secoli, a un secolo e a mezzo secolo. Niente di strano nel fatto che questa congiuntura sia traumatizzante e che l’Europa sia rimasta come stordita. Si tratta di un salto nell’ignoto senza precedenti. Richonnier, da storico del presente, dedica d’altra parte a queste sei «metamorfosi» trattazioni diseguali; un capitolo ai cicli di Kondratiev, un lungo paragrafo e due o tre punti alla chimica e all’elettricità, tre o quattro punti all’automazione, nulla o quasi ai cambiamenti sociali indotti, poco più che dei riferimenti cronologici al sistema mondiale (ma un paragrafo alle guerre europee) e due allusioni all’epoca neolitica. In realtà Les Métamorphoses de l’Europe è un libro sul dove e sul chi piuttosto che sul quando e sul che cosa. I protagonisti non sono i modi di produzione o i sistemi di Stati, ma le potenze industriali dominanti o emergenti. Il lettore guadagna in informazioni concrete quello che perde in ipotesi teoriche, ma la preoccupazione dell’autore non è di stabilire leggi storico-sociali, bensì di attirare l’attenzione sulle novità decisive della storia in cammino, sui ritmi dell’innovazione, sul vantaggi o i ritardi dei concorrenti attualmente in lizza.
Come viene acquisito il vantaggio tecnologico, o piuttosto perché un dato paese anziché un altro diviene sede di una rivoluzione industriale? Quali sono gli atouts necessari per colmare il ritardo e raggiungere il capofila? Ecco le domande che affronta Richonnier, perché sono quelle che si pongono all’Europa addormentata.
Perché l’lnghilterra? Richonnier prende a prestito da Arnold Toynbee la sua spiegazione dell’enigma inglese e chiarisce contemporaneamente l’enigma giapponese: «La prima rivoluzione industriale fu la risposta che l’Inghilterra diede alla sfida della penuria di legna da ardere». Il caso del Giappone richiama quello dell’Inghilterra: «In risposta alla sfida rappresentata dalla sua dipendenza energetica, questo paese si è lanciato freneticamente nelle tecnologie dell’informazione e della materia vivente, che costituiscono le punte di diamante della terza rivoluzione industriale».
Il successo dell’Inghilterra è legato anche all’unità commerciale della grande isola britannica, realizzata prima della Francia (1791) e della Germania (1833): «Le innovazioni che scossero l’industria tessile, permettendo di moltiplicare per mille la produttività della filatura tra il 1764 e il 1779, richiedeva grandi mercati capaci di assorbire tali aumenti di produzione». Inoltre, questo mercato era protetto nei confronti non solo dei tessuti indiani, ma anche dell’industria tessile del continente europeo.
Perché la Germania e gli Stati Uniti? Per eguagliare l’Inghilterra, la condizione necessaria era un mercato unificato capace di assorbire le nuove produzioni manifatturiere. A questo proposito, Richonnier evita di dare una spiegazione tecnologica della dimensione media attorno alla quale si sono stabilizzati i processi di unificazione nazionale o di «balcanizzazione» degli imperi: questa dimensione media è semplicemente quella della grande isola britannica, sede della prima Rivoluzione industriale. Ma ha il merito di dimostrare che un mercato di quelle dimensioni non era una condizione sufficiente, spiegando contemporaneamente quello che chiama la «Trafalgar industriale» della Francia, e quindi la differenza tra questa e la Germania. Certo, l’industrializzazione della Germania non sarebbe riuscita senza il successo delle tesi di Friedrich List sull’unione doganale e sui dazi incentivanti, a loro volta ispirati dalla protezione delle industrie nascenti cara ad Alexander Hamilton, che aveva permesso lo sviluppo di un potenziale industriale americano. Ma essa trae soprattutto origine da una demografia dinamica e da un sistema educativo esemplare. «Nel 1850, per mille abitanti, il numero dei sessagenari era di cento in Francia, contro settantacinque in Germania ed in Inghilterra» e l’istruzione elementare non divenne obbligatoria, in Inghilterra ed in Francia, che rispettivamente nel 1880 e 1882 (legge di Jules Ferry), un secolo dopo la Prussia.
Se la prima Rivoluzione industriale fu una risposta inglese alla scarsità di legna da ardere, la seconda fu, negli Stati Uniti, la risposta ad una sfida altrettanto eccezionale. «A quest’epoca, le imprese americane si trovavano a fronteggiare una penuria di manodopera qualificata, davanti ad uno sviluppo economico vigoroso», legato alla dimensione territoriale e demografica, in continua crescita, del mercato interno. La maggior parte dei quindici milioni di immigrati accolti negli Stati Uniti dal 1880 al 1915 non aveva alcuna qualificazione e non aveva nemmeno mai lavorato in una officina. Di qui l’idea geniale di Taylor: modificare l’organizzazione del lavoro per ridurre la qualificazione richiesta dai posti di lavoro.
Si può infine osservare che lo scenario della protezione delle industrie nascenti si ripete ancora nella gestazione della terza Rivoluzione industriale, poiché la rivoluzione microelettronica si è sviluppata negli Stati Uniti all’ombra dei grandi programmi spaziali e militari e in Giappone grazie ad un solido protezionismo d’ordine socio-culturale. Ma in questi due casi esso si ripete alla scala di mercati unificati di più di cento milioni di consumatori, condizione, anche questa volta, necessaria ma non sufficiente per la nuova mutazione.
Richonnier aggiunge correttamente: l’automazione a tappe forzate del sistema produttivo e l’alto livello di istruzione della popolazione nel caso del Giappone; l’elasticità dell’organizzazione dei tempi di lavoro e il dinamismo del sistema di finanziamento nel caso degli Stati Uniti.
L’Europa si addormenta perché aveva sonno: qui si ferma spesso la diagnosi dei Diafoirus contemporanei. Richonnier, forte della sua analisi, documentata e rigorosa, dei successi terapeutici di ieri e di oggi, è naturalmente capace di dire, per differenza o analogia, a quale trattamento bisogna sottoporre l’Europa per tirarla fuori dalla sua sonnolenza.
Sottolinea anzitutto che le prestazioni europee non sono uniformemente cattive. Le eccezioni che confermano la regola del ritardo tecnologico sono conosciute: l’industria nucleare europea sta bene; l’Airbus fa (talvolta) concorrenza alla Boeing sul suo stesso terreno ed il razzo Ariane ha battuto la navetta spaziale americana come lanciatore commerciale di satelliti. D’altronde la fetta dell’Europa occidentale nel mercato dei prodotti farmaceutici non è del 30 per cento circa? La sua parte della strumentazione nel campo delle telecomunicazioni non era nel 1982 del 27 per cento? Non è forse vero che entrambe superano la quota dell’Europa nel prodotto lordo mondiale? Si. Ma tali dati traggono in inganno: l’Europa — ci dice Richonnier — è spesso un malato che non sa di esserlo.
Nonostante queste eccezioni, nessuno può più negare che il male sia reale e profondo. L’Europa è sotto-informata. Si assiste alla scomparsa dell’Europa dal medagliere dell’innovazione. «L’Europa non avrebbe più idee»? Lo stesso Jacques Delors, presidente della Commissione, lo chiede spesso ai suoi ascoltatori.
No certamente. Ma soffre di un disturbo di identità. L’Europa non si è mai affermata senza la libera circolazione del denaro e delle idee, senza lo sradicamento del pregiudizio e senza il rispetto degli altri. È contro questo «quadrato magico» che lo Stato nazionale, che è chiusura ed esclusione, si è rivolto, distruggendo l’Europa. Lo Stato nazionale porta in sé il campo di concentramento e lo sterminio di massa come il vento porta la tempesta.
Il progetto politico dell’Europa è nato dalla vittoria sull’aberrazione che divide gli uomini in una umanità superiore e una umanità inferiore. Questa vittoria non sarà totale, il progetto non
sarà completo finché l’Europa non sarà reimmessa, attraverso la sua unione, nella pienezza di questa quadratura cosmopolita; finché essa, attraverso l’unione, non avrà opposto all’
eccesso di ingiustizia di cui si è resa colpevole, l’eccesso di giustizia, che consiste: nel riconoscere l’altro come un fratello; nell’assicurare la garanzia delle libertà e dei diritti e nel promuovere lo Stato di diritto che ne è il fondamento; nel ricercare l’uguaglianza dei diritti che riduce le differenze, riconosciute e rispettate; nel prendere coscienza della fratellanza che riunisce gli uomini liberi ed uguali nei loro diritti; e finché non avrà opposto, per mezzo della unione, all’eccesso di idolatria delle nazioni per se stesse, sia l’eccesso di resistenza all’oppressione collettiva degli idoli sull’umanità, per liberare gli individui, per renderli uguali in quanto membri di una comunità di diritti e per rivelarli come fratelli, sia l’eccesso di umiltà nella conduzione della politica e dell’organizzazione della vita degli uomini in società.
Una sola parola riassume questi due lati del quadrato: democrazia. Quando l’Europa presenta il suo volto vero, il suo volto umano, in lei non c’è posto per una razza di signori o per un partito unico.
Nessun altro progetto può giustificare la volontà d’unione dell’Europa. Bisogna dirlo e ripeterlo, anche se l’Europa può trovare nelle circostanze, cioè nelle contingenze momentanee, o nell’istinto di conservazione, cioè nell’Europa come zattera di salvataggio, piuttosto che nella sua rinascita, buone ragioni per ricominciare dagli altri due lati del quadrato. Concludiamo dunque che l’allentamento dei vincoli che pesano sull’innovazione in Europa, al quale Richonnier doveva limitarsi per non uscire dal tema, è già ritorno alla sua storia, riscoperta della sua identità. Come ogni progetto, la sua unione è anzitutto memoria. L’Europa sarà giustizia ed umiltà, o non esisterà, apertura e tolleranza, o non esisterà.
Non c’è da stupirsi che Richonnier, ardente europeo, metta in evidenza queste due esigenze principali:
— «creare un grande mercato comune», che vuol dire anche (lo si è troppo spesso dimenticato) libera circolazione dei capitali, mercato finanziario europeo; ma un grande mercato «che sappia difendersi», che vuol dire — Richonnier è troppo discreto su questo punto che è tuttavia essenziale — moneta unica e banca federale autonoma in cambio della stabilità interna ed esterna di questa valuta. I promotori dell’ECU hanno ragione a spingere in questa direzione: mettendo a profitto questa «metamorfosi», l’Europa può vincere il conservatorismo dei suoi sistemi di finanziamento dell’innovazione;
— liberare la circolazione delle idee, delle informazioni e delle culture in seno all’Europa, cosa altrettanto importante quanto togliere gli ostacoli alla circolazione delle merci e del denaro. Prima della fine del secolo, i satelliti televisivi diretti permetteranno a tutti gli Europei di ricevere gli stessi programmi nella lingua di loro scelta, a condizione che la trasmissione via cavo sia messa al servizio della televisione diretta, invece di essere un nuovo strumento di chiusura provinciale. Uno spazio audiovisivo europeo sarà un potente fattore di promozione della identità e della solidarietà europee, purché l’Europa sappia dotarsi molto rapidamente di una propria industria di programmi.
A parte queste poche riserve, Richonnier, nel suo inventario delle poste in gioco esistenziali dell’Europa, non ne ha dimenticata alcuna delle essenziali. Poste in gioco che coinvolgono l’identità, azioni che portano alla salvezza.
L’Europa ha cominciato a prendere coscienza delle proprie debolezze, e anzitutto della debolezza della propria visione. Essa ha ora capito che il ripiegamento delle nazioni su se stesse le sarebbe fatale come fu fatale ai Ming o agli Ottomani.
Nel momento in cui si annuncia l’era europea — quelli che vengono chiamati Tempi moderni — la Cina si ripiega su se stessa. Nel momento in cui la sua marina si è appena dimostrata capace di unire senza scalo Sumatra alle coste dell’Africa, la Cina si chiude, è la Grande Muraglia: l’isolamento dell’intellighenzia produce effetti nefasti sulla vita intellettuale.
Dopo aver posseduto la miglior artiglieria d’Europa, l’Impero ottomano omette di modernizzarla, di adattarla ai progressi dell’Occidente, al punto che, molto più tardi, nel XVIII secolo, dovette fare appello ad un ingegnere francese, il barone di Tott, per riorganizzarla. Già alla fine del XVI e soprattutto nel XVII secolo, la corrente commerciale si trasforma nello sfruttamento delle risorse dell’impero, che diviene lo sbocco dei prodotti finiti europei, in conseguenza dei progressi industriali compiuti in Occidente e dell’incapacità degli orientali di adattarsi alle «metamorfosi dell’Europa»: ciò per diverse ragioni, la più buffa delle quali è quella che Richonnier ha tratto dalla Storia dei Turchi di Jean-Paul Roux. «Modernizzare la loro flotta, migliorare le loro navi che tenevano male il mare rappresentava una risposta possibile a questa sfida europea. Ma per far questo, i Turchi avrebbero dovuto abbassare i ponti delle loro navi, cosa che rifiutarono di fare per non ridurre l’altezza dei loro turbanti…».
Sapranno gli Europei ridurre a tempo l’altezza del loro «turbante» di sotto-informazione, di cattivo finanziamento, di sottoeducazione e sovra-regolamentazione? Sì, se prenderanno coscienza anche della debolezza dei loro concorrenti.
Richonnier ci insegna — o ci ricorda — che il modello giapponese è fragile sotto l’aspetto sociale e il modello americano sotto quello della crescita.
Il sistema sociale giapponese nei prossimi anni sarà perturbato. L’emancipazione della donna giapponese, con il suo corollario dell’eguaglianza di salario a parità di prestazione, dovrebbe completarsi prima della fine del secolo. Nel 2020, il Giappone avrà il record dell’invecchiamento: la quota delle persone di più di sessant’anni raggiungerà il 22 per cento. Le spese di sicurezza sociale aumenteranno quindi più rapidamente in Giappone che in Europa. La competitività delle imprese giapponesi ne risentirà.
Negli Stati Uniti la forte crescita registrata nel 1984 non poteva essere duratura, tenuto conto degli squilibri-record cui essa ha dato luogo. «Gli Stati Uniti non potranno giocare per molto tempo ancora il loro atout monetario… Presto o tardi, gli Stati Uniti dovranno finanziare il loro deficit pubblico… attraverso l’inflazione o un aumento delle imposte. In entrambi i casi, la loro crescita sarà compromessa, nonostante le loro prerogative in materia monetaria, a meno di non provocare un cataclisma economico… mondiale».
Nulla dunque è ancora perduto. Due osservazioni: l’Europa non sarà penalizzata dalla solidarietà se saprà combinarla con la mobilità. È assicurando oggi il rischio «mobilità», come ha saputo assicurare il rischio di incidente, malattia o vecchiaia, che il sistema sociale europeo riuscirà a rimanere, come si augurava giustamente il cancelliere Willy Brandt, il più progressista ed anche il più giusto. L’Europa può, sviluppando l’ECU, liberarsi del dollaro e piazzarsi in buona posizione per subentrare agli Stati Uniti nella guida della crescita: così facendo assicurerà (e rassicurerà) il mondo contro il rischio del dollaro. Michel Albert ha condotto una riflessione magistrale sulle possibilità di ripresa. Il Parlamento europeo, sotto il pungolo di Fernand Herman, ha censito le azioni alla portata dei poteri pubblici nazionali e comunitari. La palla è ora nel campo dei governi.
Se si traccia un rapido quadro degli handicaps dell’Europa nella competizione tecnologica che la oppone agli Stati Uniti e al Giappone, non ci si sorprenderà naturalmente di trovare in cima alla lista il mercato interno. Che si tratti di promuovere l’identità europea o di colmare i nostri ritardi, la libera circolazione salta fuori, prioritaria.
L’Europa del mercato interno: gli intralci al commercio intracomunitario fanno aumentare fin del 20 per cento il costo dei beni e dei servizi e danneggiano soprattutto le imprese emergenti. Negli Stati Uniti o in Giappone, una impresa giovane può saggiare le sue forze su di un mercato interno d’ampiezza sufficiente a consentirle di raggiungere dimensioni medie prima di vendere all’estero: in Europa questo è impossibile. Gli effetti della frammentazione del mercato europeo si aggravano col passar del tempo: mentre i costi di sviluppo crescono e la durata della vita dei prodotti diminuisce, diventa sempre più difficile ammortizzare gli investimenti su di un solo mercato nazionale. La scadenza fissata dalla Commissione (1992), per prudente che sia, è quindi la benvenuta.
L’Europa della spesa pubblica: i mercati pubblici sono immensi — eguali pressapoco al 17 per cento del PIB comunitario. Gli Stati membri fanno un cattivo uso del loro potere d’acquisto: una prima discriminazione viene fatta a vantaggio dei produttori nazionali, per l’insieme dei prodotti ad alta tecnologia; una seconda, a vantaggio dei grandi gruppi. L’ortodossia europea stabiliva che ogni paese si sarebbe difeso meglio nei confronti della concorrenza americana sostenendo un campione nazionale. La strada seguita nel quadro di ESPRIT (European Strategic Program of Research in Information Technology), di RACE (Research on Advanced Communications in Europe) , di BEST (Biotechnological European System Team) ed ora, su più vasta scala, nel quadro del progetto EUREKA, segna una svolta decisiva.
L’Europa del capitale a rischio: gli Europei hanno avuto torto a fare affidamento sulle sovvenzioni statali per finanziare le loro giovani imprese innovatrici invece di fare appello a capitali a rischio. D’altra parte, le somme investite dal mercato non ammontano che al 10 o 20 per cento del livello americano. Mentre negli Stati Uniti sarebbero necessari due o tre mesi per raccogliere sul mercato i fondi necessari per finanziare i progetti di una giovane impresa, in Europa sono necessari diciotto mesi. Si fa sentire dolorosamente il bisogno di un mercato europeo dei capitali, libero da qualsiasi ostacolo.
L’Europa delle risorse umane: il precedente tedesco o l’esempio giapponese dovrebbero istruirci. Richonnier si sforza nella parte storica della sua opera — l’abbiamo visto — di mostrare il ruolo svolto dalla collaborazione stretta e fruttuosa tra la giovane industria chimica tedesca e le università alla fine del XIX secolo. Gli universitari di oggi in Europa sono dei funzionari, le cui condizioni di lavoro sono arcaiche, e che considerano gli uomini d’affari come dei filistei, quando non vi vedono dei nemici di classe. Da poco il clima è migliorato: i parchi scientifici, ancora troppo rari, ne sono il migliore esempio. Ma l’America e il Giappone superano ancora l’Europa occidentale per il numero di scienziati e di ingegneri per operaio dell’industria. Il problema in Europa è ulteriormente aggravato da una incessante fuga di cervelli. Questo fenomeno è molto più distruttivo nelle industrie nascenti e la situazione della biotecnologia europea è allarmante. Richonnier ha quindi mille volte ragione nel proclamare la necessità della rifondazione dei sistemi educativi europei: sì, la scuola europea del XXI secolo è ancora da inventare.
L’Europa della legislazione: in Europa, la legge gioca contro l’innovazione in tre campi. È il caso della fiscalità sui redditi, che è troppo pesante. È opportuno, come suggerisce il partito socialdemocratico britannico in un recente libro verde, sostituire al più presto all’imposta sul reddito un’imposta sulla spesa, il cui nome si presta per altro a confusione, poiché non si tratta di un’imposta sui consumi come l’IVA. Tutto il denaro risparmiato da un individuo sarebbe esentato dalle imposte, mentre il non-risparmio netto — ciò che spende — sarebbe tassato. È anche il caso del finanziamento delle giovani imprese innovatrici già citato: privilegi professionali, regolamenti vecchi di anni e la legislazione sulle società ostacolano nella maggior parte dei paesi europei la soddisfazione rapida dei bisogni di finanziamento, l’inventività del mercato finanziario e la disponibilità ad assumere dei rischi da parte degli investitori. È il caso infine della mobilità professionale: le leggi vigenti in Europa occidentale consacrano la mobilità come necessità per l’impresa che razionalizza la sua produzione, ma come rottura per il lavoratore che perde la sicurezza del posto di lavoro. La legislazione dell’Europa di domani dovrà riconoscere nella mobilità del lavoro una struttura sociale permanente propizia alla piena realizzazione delle sue capacità. È la «rivoluzione del tempo scelto».
Non bisogna mai dimenticare che una cattiva legge può essere sufficiente per far perdere tempo prezioso nella competizione internazionale. Richonnier ricorda il celebre esempio del Locomotive Act che imponeva in Inghilterra a qualsiasi veicolo a motore di farsi precedere da una persona munita di bandiera rossa di segnalazione. Questo severo controllo delle prime diligenze a vapore, mantenuto fino al 1896, ha penalizzato per lungo tempo l’industria automobilistica inglese.
Chi dice legge, dice legislatore ed è facile passare da questi handicaps dell’Europa divisa alla conclusione politica di Richonnier, che lo colloca risolutamente nel partito dell’Unione europea.
Tanto basta per la critica. Il critico, dal canto suo, esce dalla lettura rafforzato in tre delle sue convinzioni.
La prima è federalista: il risanamento, il rilancio dell’Europa sono anzitutto un problema politico, nel pieno senso della parola. Solo una riforma sufficientemente profonda dell’Europa ufficiale può dare «all’unione sempre più stretta» degli Europei la capacità di decidere le azioni di rilancio care a Richonnier. Per gli Europei la preparazione del XXI secolo comincia dall’Unione europea sulla base del progetto di Trattato del Parlamento europeo. L’Europa della società civile aspetta oggi questo segno dall’Europa della società politica.
La seconda è pratica: «Le tecnologie regine oggi saranno sorpassate nel 2000». Non attardiamoci a raggiungere gli altri. Portiamoci davanti agli Americani e ai Giapponesi per sferrare le battaglie dell’avvenire. Se questa filosofia è quella del progetto EUREKA e di tutti gli altri progetti indotti, allora la partita non è vinta con certezza in anticipo, ma per vincerla l’Europa dispone ancora di tutte le sue chances, tra le quali figurano non solo gli atouts che possiede di per sé, come la formidabile riserva di dinamismo contenuta nella sua costruzione incompiuta, ma anche le debolezze dei suoi concorrenti, i cui insuccessi, così come i successi, sono altrettante lezioni.
La terza è culturale: la libera circolazione è un diritto. Andare e venire è una libertà rivoluzionaria. Tutti gli Europei devono essere uguali di fronte a questo diritto. Questa rivista ha aperto un dibattito sulla lingua. Il Comitato Adonnino ha suggerito il bilinguismo a partire dalla scuola elementare. Perfetti bilingui, gli Europei potrebbero imparare senza difficoltà due altre lingue vive durante i loro studi secondari. Due obblighi, secondo me, dovrebbero essere fissati: che l’inglese figuri fra le quattro lingue; che il primo o il secondo ciclo di studi superiori abbia luogo in un paese diverso da quello d’origine. Queste riforme sono urgentissime. «Se non supereranno il quadro ristretto degli Stati nazionali, (gli Europei) non potranno evitare il declino in agguato».
Michel Albert, altro «dottore in Europa», ha scritto che era necessario «insegnare Richonnier». Come non condividere questo giudizio lapidario?
Pensando alla California, dove Richonnier come tanti altri ha potuto misurare la distanza che separa l’Europa dal successo, ho la tentazione di completare il suo insegnamento nei riguardi dei miei concittadini europei con questa regola di vita non meno lapidaria: Move.
 
Bernard Barthalay


[1] Flammarion, Parigi, 1985.

 

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