IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXIX, 1987, Numero 1, Pagina 7

 

 

Il piano Baruch come precedente per il disarmo e per il governo federale del mondo
 
JOSEPH PRESTON BARATTA
 
 
Nel giugno del 1946, mentre il ricordo di Hiroshima e di Nagasaki era ancora vivido nella mente degli uomini, gli Stati Uniti proposero alle Nazioni Unite un piano per il controllo internazionale dell’energia atomica. Il piano prevedeva l’abolizione del veto in seno al Consiglio di sicurezza e la creazione di una forte Autorità per lo sviluppo dell’atomo; a questa Autorità gli Stati Uniti avrebbero dovuto cedere, in diverse fasi, tutte le conoscenze sulla tecnologia atomica statunitense, le materie prime, gli impianti di produzione, le scorte di materiale fissile, ed infine le loro restanti bombe atomiche. Il piano — noto, come piano Baruch, dal nome del capo-delegazione americano — auspicava che fosse evitata una corsa agli armamenti atomici e perfino «l’eliminazione della guerra».
Il fallimento del piano Baruch ebbe tali enormi conseguenze per la pace mondiale, che esso continua ad attirare l’interesse degli studiosi e di alcuni policy makers come precedente nei negoziati per il controllo degli armamenti e per il disarmo. Oggi, quando così poco sembra possibile fare, può essere istruttivo dare retrospettivamente uno sguardo storico al piano Baruch.
Era una coraggiosa e generosa proposta degli Stati Uniti. Fallì perché i negoziati si svolsero sotto la pressione di una atmosfera da diplomazia atomica e perché il piano non rendeva comunque possibile un effettivo controllo internazionale. Larry Gerber, che recentemente ha passato in rassegna la bibliografia in proposito, conclude che il «realismo» di Baruch circa la sicurezza degli Stati Uniti come potenza mondiale, combinato con il suo «internazionalismo wilsoniano» rivolto verso un ordine internazionale liberal-capitalista, e sostenuto da atteggiamenti e presupposti simili di altri politici americani, «impedì di prendere in considerazione le possibilità di accordo al di fuori dei termini americani». Similmente, Barton Bernstein ha concluso che «né gli Stati Uniti, né l’Unione Sovietica erano pronti nel 1945 o nel 1946 a correre i rischi che l’altra potenza richiedeva per l’accordo», come il condividere i segreti atomici o distruggere le scorte di bombe, come richiesto dai Russi, o il sottomettersi a controlli ed ispezioni che avrebbero interferito con questioni economiche, come richiesto dagli Americani.[1]
La mia opinione è che le recenti analisi storiche del piano Baruch si fermino a una critica puramente negativa della conduzione «realistica» della politica estera, senza offrire chiaramente al lettore una migliore alternativa per il futuro. Se, come ha detto Joseph Liebermann, il piano Baruch fu un «disastroso fallimento politico», che cosa avrebbe dovuto essere un successo? Se, secondo Gregg Herken, lo stato della sicurezza nazionale ci ha dato solo «l’illusione della sicurezza», che cosa potrebbe darci la vera sicurezza e la pace permanente? lo rispondo, come ha indicato lo stesso Baruch, prima che il Dipartimento di Stato limitasse la sua proposta politica, che è proprio un’Autorità internazionale dotata di poteri sovrani per il controllo delle armi di distruzione di massa sia atomiche sia convenzionali e capace di far valere le proprie decisioni sugli individui. Replico anche, con Grenville Clark, uno dei suoi critici, che la semplice abolizione del veto in seno al Consiglio di sicurezza non basta a far funzionare un tale piano, e che le Nazioni Unite devono essere profondamente riformate nella direzione di un governo federale limitato del mondo, perché solo una riforma così profonda potrebbe dare alle nazioni e ai loro popoli la fiducia che ci si possa affidare alle Nazioni Unite per la propria sicurezza nazionale.
La situazione politica nel 1946 era certamente più recettiva di oggi nei confronti di proposte coraggiose come il piano degli Stati Uniti, ma, sotto molti aspetti, ciò che è cambiato è solo il nostro ricordo dell’origine di esso. Dopo la seconda guerra mondiale, soldati e civili erano determinati a far sì che non vi potesse mai più essere un’altra guerra mondiale. Gli uomini di Stato erano disposti a instaurare tra le proprie nazioni relazioni più strette nel quadro di un’organizzazione di sicurezza generale. L’Organizzazione delle Nazioni Unite fu fondata su di una base universale. Dopo la dichiarazione di Mosca del 1943, il Segretario di Stato Cordell Hull dichiarò: «Non ci sarà più bisogno di sfere di influenza, di alleanze, di equilibrio di potere», e queste parole furono ripetute un anno più tardi dal Presidente Roosevelt.
L’idea di un governo federale del mondo, delegato dalle nazioni ad imporre la legge mondiale direttamente sugli individui, era nell’aria. Dopo che le bombe atomiche furono usate per la prima volta in guerra, Albert Einstein invocò il governo mondiale come la sola forma di organizzazione internazionale capace di controllare quel nuovo strumento di distruzione. Gli scienziati atomici, che, dopo il 6 agosto 1945, acquistarono enorme prestigio e che sentivano in modo acuto la loro responsabilità per aver portato la scienza nel campo della guerra, si liberarono dei vincoli di segretezza del tempo di guerra, divennero politicizzati e richiesero pubblicamente una politica di controllo internazionale dell’energia atomica. Molti di essi, individualmente se non come organizzazione, andarono oltre chiedendo un governo mondiale.
La conseguenza politica immediata di questo fermento politico fu il Rapporto Acheson-Lilienthal del marzo 1946. Esso riconosceva che il monopolio atomico degli USA non poteva durare, auspicava un controllo internazionale e perfino «la fine di ogni guerra». Gli autori espressero la speranza che, risolvendo i problemi dell’energia atomica, «si sarebbero potute stabilire nuove formule di cooperazione, estensibili ad altri campi, che avrebbero potuto dare un contributo al raggiungimento graduale di un maggior livello di organizzazione comunitaria tra i popoli del mondo». Per quanto riguardava il meccanismo concreto di controllo internazionale, essi si limitarono ad indicare una Autorità che vigilasse sul disarmo atomico e mantenesse «l’equilibrio strategico», senza poteri sovrani. Tale Autorità poteva solo fornire un sistema di pre-allarme; se una grande potenza avesse violato l’impegno, tutti gli Stati sarebbero tornati allo sviluppo atomico e alla produzione di bombe, esattamente come in una corsa incontrollata agli armamenti. Il solo strumento di imposizione concepibile era la guerra.
Il contributo specifico portato da Bernard Baruch fu di introdurre l’idea di una giurisdizione sugli individui, come si stava verificando nei contemporanei processi di Norimberga. Baruch era cosciente dell’onore di essere stato nominato delegato degli USA alla neocostituita Commissione per l’energia atomica dell’ONU e dell’opportunità storica che gli veniva offerta di mettere l’energia atomica sotto il controllo internazionale proprio all’inizio dell’era atomica. Egli chiese ed ottenne un ruolo nel determinare la politica statunitense. Dal marzo al giugno 1946, raccolse un gruppo di collaboratori, analizzò il problema e alla fine riuscì a persuadere il Presidente Truman ad impostare una politica di effettiva limitazione della sovranità degli USA sotto l’Autorità per lo sviluppo atomico che veniva proposta. Durante questo processo, si svolse fra Baruch e il Sottosegretario di Stato Dean Acheson un dibattito interno di alto livello sulle implicazioni che un piano adeguato avrebbe avuto in rapporto ad un governo mondiale. Questo dibattito ha messo in luce la difficoltà di fondo di qualunque piano che si proponga di realizzare un disarmo effettivo.
L’idea originale di Baruch era che le Nazioni Unite dovessero essere rafforzate. Acheson attenuò l’idea: qualsiasi nuova organizzazione, come le stesse Nazioni Unite, avrebbe potuto essere istituita solo attraverso un trattato. Ma Baruch era convinto che l’energia atomica fosse rivoluzionaria, che il solo modo allora esistente per soddisfare la richiesta di pace della gente fosse di abolire la guerra una volta per tutte e discusse misure come una moratoria unilaterale dei tests, il controllo delle armi convenzionali di distruzione di massa, l’eliminazione del potere di veto, il comando mondiale di tutte le forze armate, la riduzione delle forze nazionali alle sole forze di polizia, il divieto costituzionale della minaccia o dell’uso della forza nelle relazioni internazionali e Corti di giustizia internazionali allargate. «Questo può sembrare un programma ambizioso — scrisse privatamente — ma qui c’è l’occasione di andare verso la luce alla fine del tunnel: la pace perpetua».
Quando Baruch e i suoi collaboratori iniziarono ad esplorare la difficile questione di che cosa fare in caso di violazioni, ci si rese conto che la proposta Acheson-Lilienthal era priva di consistenza. Essa non prevedeva né controlli né salvaguardie effettivi e non aboliva la guerra. Si stava ingannando l’opinione pubblica. Acheson controbatté che le sole alternative in campo erano la sicurezza collettiva, che significava guerra, o il governo mondiale, che non significava «un bel niente». Qualsiasi governo — egli sosteneva — è basato sul consenso emotivo, spirituale del 95% del popolo. Per un nuovo governo mondiale non sarebbe esistita nemmeno una frazione di questo consenso. Tuttavia Baruch continuò a sostenere con il Segretario di Stato James Byrnes e successivamente con il Presidente che un qualche potere coercitivo era essenziale e che poteva essere garantito solo da una Corte di giustizia internazionale allargata come quella di Norimberga, che avesse giurisdizione sugli individui. Un sistema di pre-allarme, osservò a un certo punto, non «significava un accidente». «Perché non tentare di fare ciò che deve essere fatto, invece di fare qualcosa di incompleto, che susciterebbe speranze di pace, ma non spegnerebbe mai i timori di guerra?».
Alla fine, il 7 giugno, Baruch riuscì ad ottenere il consenso del Presidente, e il 14 annunciò alle Nazioni Unite il piano degli USA con un discorso appassionato che resta di grande attualità ancor oggi. Ma il piano non era ben concepito. Esso riecheggiava la proposta Acheson-Lilienthal, integrata dalla proposta di Baruch dell’eliminazione del veto nel Consiglio di sicurezza con l’aggiunta di qualche innocuo accenno alla «responsabilità e alla punizione individuali»; non si diceva nulla circa la sospensione degli esperimenti americani come gesto di buona volontà e veniva passato sotto silenzio il calendario per il raggiungimento del completo controllo internazionale.
Il New York Times annunciò raggiante che gli Stati Uniti avevano compiuto un primo passo verso «un governo mondiale della fissione dell’atomo». La stampa russa era sospettosa verso qualsiasi proposta occidentale che mirava a trasformare le Nazioni Unite in uno «Stato mondiale», il cui «compito sarà quello di salvare il mondo dalla guerra atomica». Grenville Clark, un noto avvocato di New York che aveva lavorato con il Segretario alla guerra Henry Stimson durante il periodo bellico e che ora si dedicava all’organizzazione della pace, scrisse a Baruch che abolire il veto lasciando intatta la struttura confederale delle Nazioni Unite non era sufficiente per realizzare un vero controllo dell’energia atomica. L’Assemblea generale avrebbe dovuto essere trasformata in un Parlamento mondiale, fondato su di una rappresentanza ponderata, in modo da rendere l’abolizione del veto accettabile per i Russi. Bisognava dar loro la sensazione che le decisioni in seno all’organizzazione internazionale avrebbero potuto essere prese in funzione del loro valore intrinseco. Il Consiglio di sicurezza avrebbe dovuto diventare l’esecutivo e la Corte mondiale esercitare il potere giudiziario.
Nei negoziati successivi non vi fu mai alcuna modificazione sostanziale del piano americano. Pochi giorni dopo, Andrei Gromiko presentò un piano sovietico che richiedeva una Convenzione che «mettesse al bando» le armi atomiche, la distruzione degli arsenali americani e successivamente l’istituzione di un sistema di controllo per assicurare il rispetto della Convenzione. Il rispetto degli impegni assunti con il trattato avrebbe dovuto essere imposto dai governi nazionali. Egli rifiutò categoricamente la proposta di abolire il veto poiché l’unanimità dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza era una delle pietre angolari delle Nazioni Unite.
Così come l’essenza della proposta americana era la limitazione della sovranità, l’essenza di quella russa era l’uguaglianza tra potenze sovrane. Gli Americani chiedevano l’accordo su di un sistema di controllo prima dell’abolizione delle armi nucleari; i Sovietici, l’abolizione prima del controllo. Questa iniziale risposta sovietica era in apparenza così profondamente opposta allo spirito della proposta americana che fu largamente giudicata come una bocciatura. Ma in realtà, la «messa al bando» delle anni atomiche era un’idea manifestatasi nel gruppo Acheson-Lilienthal circa sei mesi prima; la logica del problema aveva costretto gli Americani a scegliere una Autorità internazionale. Anche i Russi, pian piano, se ne resero conto e, per settembre, fu raggiunta l’unanimità sulle questioni scientifiche e tecniche e, per novembre, un accordo sulle ispezioni. Al momento del voto cruciale del 30 dicembre restavano in discussione solo quattro frasi (tutte sul veto).
Per il successo del progetto rivoluzionario di instaurare un controllo internazionale sull’energia atomica erano necessari tempo, ulteriori segni di buona volontà e modifiche del testo-base del negoziato. Ma nulla di questo era in vista. Truman, apparentemente al fine di risolvere una disputa interna tra esercito e marina, permise a quest’ultima di svolgere i suoi provocatori tests nucleari sull’atollo di Bikini appena due settimane dopo che Baruch aveva presentato il piano americano per il controllo dell’energia atomica. Dopo il secondo test, alla fine di luglio, i Sovietici respinsero formalmente il piano Baruch. Nel frattempo il Dipartimento di Stato «chiarì» quale avrebbe dovuto essere il rapporto tra l’Autorità e le Nazioni Unite. L’abolizione del veto doveva essere applicata solo nei casi riguardanti le armi atomiche, e, anche allora, a condizione che non fossero conseguenza di una guerra convenzionale. Ciò svuotava il piano di ogni significato. Poi, in settembre, Henry Wallace, l’ultimo rappresentante del New Deal rimasto nel gabinetto Truman, fu costretto a dimettersi per aver criticato il modo intimidatorio di condurre i negoziati da parte americana. Wallace mise in luce con chiarezza che l’escalation atomica, lo sviluppo del bombardiere a lungo raggio B-36 e l’acquisizione di basi strategiche in ogni parte del mondo stavano minando la fiducia dei Russi. Per di più, egli dichiarò che l’impuntarsi degli Americani sulla questione del veto era «completamente irrilevante», perché un qualsiasi atto di esecuzione coercitiva da parte del Consiglio di sicurezza poteva significare solo guerra.
Sarebbe stato possibile conciliare le diverse proposte? Sappiamo che i Sovietici stavano proseguendo attivamente il loro programma di sviluppo dell’energia atomica (riuscirono ad ottenere una reazione nucleare di durata sufficiente appena prima del voto sul piano Baruch). La loro «Convenzione» non avrebbe danneggiato tale programma se non nella fase finale, della produzione di bombe. Ma non avrebbe neppure interferito con il programma americano, se non nel fatto che richiedeva la distruzione degli arsenali di bombe esistenti. La Convenzione non prevedeva la distruzione di minerali, reattori, impianti, laboratori e materiali fissili. L’Autorità internazionale proposta dagli Americani, invece, avrebbe posto fine al programma sovietico poiché avrebbe inviato un piccolo esercito di controllori, ispettori, licensors e ricercatori che inevitabilmente avrebbero interferito con la debole economia sovietica post-bellica. Gli Americani, al contrario, sarebbero stati autorizzati a mantenere e perfino ad aumentare i loro arsenali di bombe fino all’ultimo stadio del piano. «Col tempo, anche in America — osservò Gromiko nell’agosto del 1946 — si riconoscerà che il vostro piano non è equo».
Accedere alla richiesta sovietica di cessare i tests nucleari e di distruggere tutte le bombe atomiche sarebbe stato un gesto di buona volontà da parte americana sufficiente a spingere i Russi a prendere più seriamente in considerazione le necessarie caratteristiche strutturali dell’Autorità. Gli scienziati atomici sottolinearono subito che il pericolo non stava nelle bombe, ma negli impianti e nei materiali per fabbricarle. Sappiamo oggi che il numero di bombe nell’«arsenale» americano era di dodici. Non si sarebbero potute sacrificare dodici bombe per l’«eliminazione della guerra»?
D’altra parte, gli Stati Uniti avevano già fatto un importante gesto di buona volontà con l’offerta stessa di consegnare la propria forza atomica ad una Autorità internazionale, sotto adeguate salvaguardie. Non si trova nella storia di tutte le nazioni una simile offerta di abbandonare una nuova arma strategica sulla quale potrebbe basarsi la propria sicurezza futura. Perfino il timing delle fasi del disarmo era stato segretamente previsto in solo quattro-sei anni. Non sarebbe stato possibile fronteggiare quattro anni di diplomazia atomica americana pur di mettere l’energia atomica, come dissero i Sovietici, «al servizio dell’umanità»?
Il rifiuto russo di sanzionare l’abolizione del veto era altrettanto comprensibile quanto il rifiuto americano di distruggere gli stocks. Entrambi erano puntelli, anche se deboli, della difesa nazionale. Il veto era un punto su cui l’URSS avrebbe potuto cedere. Sostenendo in modo così rigido il principio di sovranità da grande potenza, i Russi difendevano di fatto il principio informatore della Società delle Nazioni, che li aveva così disastrosamente traditi nel 1938 e bloccavano la riforma delle Nazioni Unite, la cui struttura confederale, nel 1946, si era già dimostrata insufficiente.
D’altra parte, la proposta americana di abolire il veto solo in casi di violazione da parte di uno Stato delle regole internazionali sull’energia atomica — lasciandolo intatto in casi più generali di aggressione — non era certamente né equa né saggia. Senza il veto, l’Unione Sovietica, nel Consiglio di sicurezza, sarebbe stata alla mercé della «maggioranza», allora saldamente collocata entro la sfera d’influenza degli Stati Uniti. Un’azione del Consiglio sulla base delle regole confederali dell’ONU avrebbe significato guerra. Lo capì Acheson (così come Wallace) e lo capì Gromiko. Per di più, mantenere il veto nelle questioni atomiche non rappresentava una soluzione del problema, perché inevitabilmente ogni controversia atomica sarebbe sfociata in una controversia generale, ed allora l’ONU sarebbe stata paralizzata come prima.
La contrapposizione tra la proposta dell’esecuzione nazionale del disarmo e quella di sanzioni dell’ONU senza la protezione del veto era una impasse reale. Come avrebbe potuto funzionare veramente il controllo internazionale dell’energia atomica senza strumenti esecutivi mondiali in grado di agire direttamente sui singoli trasgressori? Solo i leaders nazionali potevano essere colpevoli di un riarmo atomico clandestino. La proposta russa pretendeva che agenti incaricati di far rispettare le leggi nazionali potessero arrestare capi di governo nazionali (Stalin, Truman), il cui compito principale era proprio di far rispettare la legge stessa. La proposta americana richiedeva che le Nazioni Unite applicassero sanzioni, comprendenti al limite la guerra, contro un’intera nazione i cui leaders stessero preparando armi atomiche. In realtà il piano Baruch era il più pericoloso dei due per gli Stati Uniti, perchè li esponeva al rischio che una determinata coalizione in seno al Consiglio di sicurezza decidesse la guerra contro di loro. Questo aveva ben poco della «formula della pace duratura». Comunque nessuna delle due proposte si spingeva sufficientemente avanti sulla strada dell’estensione del diritto a livello mondiale.
Successivamente i negoziati seguirono lo schema abituale del primo periodo della guerra fredda. Ci fu un tremendo momento, il giorno della votazione cruciale sul piano, che Baruch aveva sollecitato nonostante le trattative fossero ancora in corso, al fine di dimostrare la responsabilità dei Russi nel rifiuto del piano, in cui egli stesso ammise che l’esecuzione delle decisioni nel quadro del piano significava guerra. «Bisogna che tutte le nazioni che spontaneamente sottoscrivono i termini di questo trattato si rendano conto che la sua deliberata violazione significa punizione e, se necessario, guerra. Così non avremo facilmente infrazioni ed ambiguità». Il risultato del voto fu di 10-0-2, con l’astensione dei Russi e dei Polacchi. Sebbene questa non fosse una bocciatura assoluta, ed i negoziati continuassero fino al maggio del 1948, ogni spirito di buona volontà scomparve da allora in poi.
Questa sarebbe la fine della storia, se non fosse accaduto che, parallelamente ai negoziati per il piano Baruch, Grenville Clark stesse propagandando in seno alle Nazioni Unite la proposta di un vero governo mondiale. Questo tentativo non è ancora stato rilevato dagli storici, ma getta una utile luce sul piano degli Stati Uniti.
Poco dopo lo scoppio della bomba atomica su Hiroshima nel 1945, Clark riunì un prestigioso congresso di internazionalisti nella sua città, Dublin, nello New Hampshire. Da esso uscì una coraggiosa dichiarazione che richiedeva un governo federale mondiale, al posto delle Nazioni Unite, per controllare l’energia atomica. Dopo molte pressioni in alto loco, rese possibili dal prestigio di Clark, nel 1946 furono poste all’ordine del giorno dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite due mozioni che andavano in tale direzione. La prima richiedeva una conferenza per la revisione della Carta, la seconda un comitato di studio sulla revisione della Carta. Mentre le risoluzioni venivano pilotate da un uomo di Clark, Alan Cranston, attraverso una sottocommissione del Comitato per la politica e la sicurezza dell’Assemblea (Primo Comitato), venne svolto un grosso lavoro di pressione e di mercanteggiamento, del tutto analogo a quello svolto per far passare una legge nel Parlamento di uno Stato o al Congresso. Contemporaneamente, quando fallirono i negoziati sul piano Baruch, il Presidente Truman e il Ministro degli Esteri Molotov si impegnarono in un duello propagandistico proprio in seno allo stesso Primo Comitato. Il rifiuto dei Russi di accettare l’abolizione del veto era la prova del loro rifiuto di far funzionare le Nazioni Unite; le richieste americane di abolire il veto erano incompatibili con la Carta e una copertura per mantenere il monopolio della bomba atomica. Allora Carlos Romulo, il delegato delle Filippine, si alzò e tenne uno dei grandi discorsi delle Nazioni Unite.
Romulo mise in relazione le richieste statunitensi ed inglesi di abolire il veto per le questioni riguardanti l’energia atomica con il loro rifiuto di abolirlo nel contesto della riforma dell’ONU in corso di discussione. Egli mise chiaramente a nudo il tentativo delle grandi potenze di sovvertire le Nazioni Unite. Stati Uniti, Unione Sovietica e Gran Bretagna a San Francisco avevano richiesto il veto come condizione per l’accettazione di qualsiasi Carta. Dopo l’avvento dell’energia atomica, tuttavia, molti dei loro uomini di Stato avevano espresso la volontà di limitare o abolire il veto. Gli Stati Uniti avevano proposto di abolirlo nelle questioni riguardanti l’energia atomica; l’Unione Sovietica nel funzionamento quotidiano della commissione per il disarmo generale che avevano controproposto. Eppure tutti e tre avevano votato contro la chiara proposta di convocare una conferenza generale per una profonda riforma dell’ONU. «E’ corretto verso le Nazioni Unite?» chiese Romulo. «E’ corretto verso il popolo del mondo?». La tendenza delle grandi potenze a ritornare a programmi nazionali di difesa militare, egli concluse, stava «portando le Nazioni Unite alla morte».
«Sediamo qui e sentiamo tremare le Nazioni Unite. Le vediamo incapaci di fronteggiare con forza i grandi problemi del nostro tempo. Sappiamo nel nostro cuore che la loro struttura è difettosa. Sappiamo perciò che nessuna nazione — sì, nessuna nazione, grande o piccola — crede che le Nazioni Unite possano assicurare la sua sicurezza e la pace».
In conclusione, il fallimento del piano Baruch non significò solo la caduta di una delle più grandi iniziative per instaurare un controllo internazionale sull’energia atomica, ma significò anche la fine delle Nazioni Unite come efficace organizzazione di sicurezza. O, almeno, lo significò per l’ONU così com’è attualmente costituita. Il piano Baruch non fu mai sviluppato dagli Stati Uniti fino a farne una equa proposta per il controllo dell’energia atomica, né l’Unione Sovietica diede una risposta alle potenzialità che esso offriva e pochissimi paesi si mostrarono disposti a sostenere la richiesta di una conferenza generale per redigere una nuova Carta dell’ONU. Il piano era male impostato dal punto di vista costituzionale. Così com’era, esso di fatto prevedeva che una Autorità per lo sviluppo atomico, senza veto, e sottoposta al Consiglio di sicurezza (nel quale il veto funzionava appieno), facesse valere le proprie decisioni per mezzo di una sorta di guerra delle Nazioni Unite.
Bernard Baruch sentì che l’avvento dell’energia atomica richiedeva per il suo controllo una concreta risposta politica, e capì che il veto era alla radice della paralisi dell’organizzazione internazionale esistente, ma il suo pensiero non progredì molto oltre la nozione del «rafforzamento delle Nazioni Unite». Il Dipartimento di Stato non lo sostenne ed il Cremlino sembrava solo temporeggiare. Perché? Oggi sappiamo che il Dipartimento era preoccupato per la crisi in Europa orientale, stava elaborando la politica del containment (che fu annunciata nel marzo del 1947), e, soprattutto, ritenne necessario mantenere la bomba atomica come strumento diplomatico in un momento in cui l’America stava smobilitando precipitosamente. I Russi, da parte loro, furono certamente lenti, o addirittura seguirono deliberatamente una tattica dilatoria, nel rispondere alla sfida dell’energia atomica, e chiaramente reagirono alla minaccia atomica americana sulle loro città, dopo aver avuto venti milioni di morti nella loro lotta per liberarsi dai nazisti.
Lo spirito del nazionalismo e le abitudini di pensiero e d’azione nazionali rimasero molto forti. Perciò i negoziati degenerarono facilmente in duelli propagandistici. Gli Stati Uniti fingevano di voler abolire il veto, perché controllavano la maggioranza in seno all’ONU, dato che i paesi dell’Europa occidentale e dell’America latina erano sicuramente entro la sfera di influenza americana. L’Unione Sovietica proclamava che il rifiuto americano di distruggere innanzitutto gli arsenali atomici tradiva intenti bellicosi, mentre ciò che probabilmente i Russi volevano era di guadagnar tempo per sviluppare le proprie bombe atomiche. Essi potevano sostenere che un’Autorità per lo sviluppo atomico sottratta al veto rappresentava una violazione della Carta, mentre in realtà, come riconobbe successivamente Gromiko, non avevano fiducia in una «maggioranza sulla cui benevolenza verso l’Unione Sovietica non si poteva contare».
Per raggiungere l’«eliminazione della guerra» sarebbero stati necessari uomini di Stato di statura mondiale, una specie finora vista rarissimamente nel corso della storia.
La lezione per il futuro sembra essere che per qualsiasi progetto di disarmo è necessario un piano equo ed adeguato, e che i negoziati devono essere flessibili e portati avanti in buona fede, senza minacce di distruzione nucleare in caso di mancato raggiungimento di un accordo.
Sebbene le Nazioni Unite con la fine del 1946 abbiano cessato di rappresentare la base reale della sicurezza internazionale, esse non hanno smesso di essere il luogo degli sforzi di molti uomini volonterosi che hanno lavorato per ridare all’ONU il posto che le spetta nelle relazioni internazionali. Grenville Clark continuò i suoi sforzi per formulare un piano di riforma adeguato dell’ONU, che venne pubblicato nel 1958 col titolo World Peace through World Law. Nel 1952 venne istituita la Commissione dell’ONU per il disarmo, che assorbì la Commissione per l’energia atomica, la quale era stata l’oggetto degli sforzi di Baruch, e la Commissione per gli armamenti convenzionali, che era sorta dalle controproposte sovietiche. Da quel momento non avrebbero dovuto esserci più distinzioni artificiali tra armi di distruzione di massa atomiche e convenzionali. La Commissione si è articolata in Comitati, Conferenze e ha portato all’attuale Campagna per il disarmo. La sessione speciale sul disarmo (1978) riconobbe con grande chiarezza che l’obiettivo era duplice: disarmo generale e completo, sotto un effettivo controllo internazionale. «Effettivo controllo internazionale» è andato gradatamente acquisendo nell’opinione pubblica lo status di un principio indispensabile, la cui realizzazione sta nel grembo della storia.


[1] Per le citazioni complete, si veda il mio articolo «Was the Baruch Plan a Proposal of a World Government?», in International History Review, n. 7, Novembre 1985, pp. 592-621.

 

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