IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXX, 1988, Numero 3, Pagina 171

 

 

La Rivoluzione bolscevica e il federalismo
 
GUIDO MONTANI
 
 
Il socialismo, la democrazia e lo Stato nazionale.
 
Il processo di rinnovamento avviato in URSS da Gorbaciov, che si propone di compiere «un balzo in avanti nello sviluppo del socialismo», viene definito dallo stesso Gorbaciov come una «nuova rivoluzione» rispetto alla Rivoluzione d’ottobre, in cui affonda le sue radici. La continuità fra i due eventi è del resto evidente. Non si tratta di rompere i ponti con il passato, ma piuttosto di fare i conti con gli errori e con le cause della stagnazione del processo rivoluzionario per riprendere la marcia interrotta. La rivoluzione non significa solo costruzione del nuovo, ma anche «demolizione di tutto ciò che è obsoleto e stagnante e ostacola un rapido progresso».[1]
La perestrojka non potrà dunque fare a meno di accompagnarsi ad un processo di revisione storiografica. Se si vuole avanzare verso la democrazia è indispensabile un ripensamento del passato, per liberarlo dalle nocive scorie della mistificazione. Sotto questo aspetto, una delle idee con cui occorrerà certamente fare i conti è quella della «costruzione del socialismo in un solo paese». Essa ha segnato una svolta decisiva del corso rivoluzionario, consentendo all’Unione Sovietica di compiere un gigantesco sforzo di industrializzazione e, successivamente, di respingere vittoriosamente l’attacco nazista. Ma, nel contempo, la svolta della costruzione del socialismo in un solo paese ha segnato anche la fine dell’internazionalismo socialista, che si proponeva di diffondere il processo rivoluzionario, attraverso la III Internazionale, nel mondo intero. Da allora l’Unione Sovietica è diventata la «patria del socialismo», ma al prezzo di negare l’eguale dignità alle esperienze di socialismo avviate in altri paesi. Con la Cina, l’URSS è costretta a confrontarsi sul terreno della ragion di Stato per l’egemonia dei paesi asiatici e con i paesi europei dell’Est vale ancora la dottrina brezneviana della «sovranità limitata».
La discussione sullo sviluppo della democrazia all’interno dell’URSS si dovrà pertanto accompagnare alla ricerca delle cause che hanno impedito di fondare i rapporti tra i paesi socialisti e tra questi e gli altri paesi nel mondo su di una base democratica. La questione è di vitale importanza. La perestrojka potrà avanzare all’interno dell’URSS nella misura in cui avanzeranno nel mondo intero la distensione e il disarmo. Basti pensare alla enorme quantità di risorse che le due superpotenze sono costrette a impiegare nella corsa agli armamenti. Le insidie che di volta in volta si presenteranno sul futuro cammino della perestrojka saranno più facilmente superate se si prenderà coscienza della necessità di fondare su basi nuove la vecchia dottrina dell’internazionalismo, vale a dire il rapporto fra socialismo, democrazia e nazionalismo. Ciò è importante non solo nel contesto della politica internazionale, dove gli Stati nazionali, anche le superpotenze, devono prendere atto della necessità di affrontare insieme a tutti gli altri Stati del mondo alcuni decisivi problemi di portata planetaria, ma anche nella politica interna dell’URSS, che viene giustamente considerata da Gorbaciov uno «Stato plurinazionale», dove il rapporto fra nazionalismo «grande russo» e nazionalità minori non ha ancora trovato un assetto costituzionale soddisfacente.
Su questi aspetti, il «nuovo pensiero» di Gorbaciov presenta luci ed ombre. Al livello mondiale, vengono avanzate proposte coraggiose per l’eliminazione progressiva e totale di tutti gli armamenti, si auspica un rafforzamento dell’ONU sia per la politica della sicurezza, sia per le politiche verso il Terzo mondo e della salvaguardia ecologica, ma non si mette minimamente in discussione il principio della sovranità assoluta degli Stati nazionali. Fra paesi socialisti, si riconosce la necessità che i paesi del COMECON avanzino verso una maggiore integrazione economica, ma poi non si indicano affatto le istituzioni democratiche che potrebbero consentire un controllo efficace dello sviluppo economico. Un processo di integrazione, come insegna l’esperienza della CEE, è impossibile senza che nascano squilibri fra i paesi membri. Si dice che occorre «armonizzare le iniziative» fra paesi fratelli. Ma, in ultima istanza, con quale procedura si prenderanno le decisioni in seno al COMECON? Infine, si riconosce il pericolo che all’interno dell’URSS si manifestino arroganti pretese fra le varie nazionalità, ma non si indica poi con quali meccanismi istituzionali è possibile risolvere democraticamente queste controversie e mantenere così «l’unione e la fratellanza delle libere nazioni».
Queste incertezze e lacune del «nuovo pensiero» in verità hanno radici che risalgono alla stessa fondazione dello Stato sovietico. L’elaborazione della strategia che ha consentito al partito bolscevico prima di prendere il potere e poi di conservarlo è strettamente connessa alla questione degli Stati Uniti d’Europa, una parola d’ordine che allora aveva riscosso ampie simpatie all’interno dell’Internazionale. Questo dibattito merita di essere riconsiderato non solo per la sua rilevanza attuale, ma anche per l’ingiusto oblio a cui è stato condannato, da un lato, dagli storici della rivoluzione bolscevica e, dall’altro, da quelli dell’idea di unificazione europea.[2] In poco più di un decennio di eccezionale fervore intellettuale, i maggiori dirigenti del partito bolscevico sono riusciti a far assumere al pensiero socialista una rilevanza mondiale. La storia dell’umanità è rimasta per sempre segnata da quegli avvenimenti. Ma,da allora, il dibattito si è spento e la storia del mondo e quella del socialismo sembrano essere andate in direzioni divergenti. Se l’URSS vuole oggi riprendere il cammino interrotto della storia dell’emancipazione umana non potrà fare a meno di ritornare ad esaminare la fondamentale questione del rapporto fra socialismo, democrazia e federalismo.
 
Le prime reazioni al fallimento della Internazionale.
 
La parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa ha giocato un ruolo decisivo nella discussione aperta all’interno del partito socialdemocratico russo all’indomani del crollo della II Internazionale: si trattava di elaborare una nuova strategia che consentisse al proletariato di sottrarsi all’egemonia delle borghesie nazionali a cui lo condannava l’imperativo della «difesa della patria» accettato supinamente da tutti i partiti socialisti europei il fatidico 4 agosto 1914. E’ in questa prospettiva che Trotzky e Lenin, che rappresentano un punto di riferimento essenziale della dottrina internazionalista, definirono, già nei primi mesi di guerra, una piattaforma teorica che costituirà la premessa ed il fondamento dell’azione che avrebbe consentito al partito bolscevico di abbattere l’autocrazia zarista e proclamare il primo governo socialista della storia.
Nell’ottobre del 1914,Trotzky pubblicò a Zurigo La guerra e l’Internazionale, in cui apparve per la prima volta nella letteratura marxista il riconoscimento della necessità del superamento storico dello Stato nazionale, divenuto ormai un ostacolo allo sviluppo delle forze produttive. «La guerra attuale — così inizia Trotzky le sue riflessioni — è sostanzialmente una rivolta delle forze produttive sviluppate dal capitalismo contro lo sfruttamento dello Stato nazionale. Oggi l’intero globo… è divenuto l’arena dell’economia mondiale, le cui singole parti sono fra loro indissolubilmente dipendenti… L’antico Stato nazionale… appare ora un insopportabile impedimento allo sviluppo delle forze produttive. La guerra del 1914 significa prima di tutto la fine dello Stato nazionale come territorio economico a sé stante».[3] L’imperialismo è generato dalla contraddizione tra dimensione nazionale dello Stato e dimensione mondiale del processo produttivo. Gli Stati europei sono ormai obbligati a cercare una base mondiale per il loro sviluppo. Ne segue un conflitto fra le grandi potenze per la supremazia del mercato mondiale. La guerra del 1914 segna la fine del vecchio sistema europeo e il passaggio ad un sistema mondiale di potere. Questo processo è particolarmente evidente nel contrasto fra Germania e Inghilterra. «La piena e illimitata signoria sul continente europeo appare alla Germania come un’indiscutibile necessità per l’abbattimento del suo nemico mondiale. Perciò la Germania imperialistica pone anzitutto nel suo programma la creazione di una lega di Stati dell’Europa centrale. …Questo programma… è la più eloquente prova e la più impressionante manifestazione del fatto che i limiti dello Stato nazionale sono divenuti insopportabilmente angusti per il capitalismo. La grande potenza nazionale deve cedere il posto alla grande potenza mondiale». I socialisti devono avere il coraggio di contrapporre al programma imperialistico di dominio e di sfruttamento dei popoli un programma di pace e di sviluppo delle forze produttive, vale a dire l’organizzazione su basi razionali dell’economia mondiale. «Per il proletariato, in queste condizioni storiche, non può trattarsi della difesa dell’anacronistica ‘patria’ nazionale, ormai divenuta il principale impedimento dello sviluppo economico, bensì della creazione di una nuova, più potente, e più duratura patria, degli Stati Uniti repubblicani d’Europa, come primo passo verso gli Stati Uniti del mondo».[4]
Per poter lottare efficacemente in questa direzione, il primo compito dei partiti socialisti è di comprendere le ragioni del crollo della II Internazionale, vale a dire della mancata opposizione dei socialisti alla guerra. «Se i socialisti si fossero limitati a esprimere il loro giudizio sull’attuale guerra, declinandone ogni responsabilità e negando fiducia e credito ai propri governi, non ci sarebbe stato nulla da ridire… Se ciò non è avvenuto, se il segnale della mobilitazione è stato anche il segnale del rovescio dell’Internazionale, se i partiti operai nazionali, senza una protesta, si sono uniti coi loro governi e coi loro eserciti, ci devono essere ben profonde cause comuni per tutta l’Internazionale».[5] Per Trotzky la spiegazione di questo fatto va ricercata nelle condizioni obiettive che hanno consentito ai partiti socialisti europei di svilupparsi. Lo Stato nazionale ottocentesco ha costituito la base di ogni sviluppo delle forze produttive e del capitalismo. «Il proletariato — afferma Trotzky doveva dunque passare per la scuola dell’autoinsegnamento». Si entra così nell’epoca del possibilismo od opportunismo politico, «cioè del cosciente e sistematico adattamento alle forme economiche, giuridiche e statali del capitalismo nazionale».[6] Con il passare degli anni lo spirito di adattamento dei partiti prevale del tutto sullo spirito rivoluzionario. In alcuni paesi, come la Germania, «il partito ha fatto del culto dell’organizzazione uno scopo fine a sé stesso». Non può dunque stupire quanto è successo in prossimità dello scoppio della guerra. «Non può assolutamente esserci alcun dubbio che la questione del mantenimento dell’organizzazione, delle casse, delle case del popolo, delle tipografie abbia avuto una parte importantissima nella posizione di fronte alla guerra della frazione del Reichstag. Il primo argomento, che io ho sentito esprimere da uno dei capi dei compagni tedeschi, è stato: ‘Se noi avessimo agito diversamente avremmo portato alla rovina le nostre organizzazioni e la nostra stampa’».[7]
Il socialismo potrà riprendere il suo cammino rivoluzionario solo se saprà assumere di nuovo una dimensione autenticamente internazionalista. «La guerra del 1914 porta a termine la disgregazione degli Stati nazionali. I partiti socialisti dell’epoca ora chiusasi erano partiti nazionali. …Nel loro rovescio storico gli Stati nazionali trascinano con sé i partiti socialisti nazionali».[8] Ma la guerra segna anche l’inizio di una nuova epoca rivoluzionaria, in cui sarà possibile rilanciare la lotta e liberarsi dalle scorie del passato. Schierandosi in difesa del proprio Stato nazionale i lavoratori si sono schierati anche a difesa dell’imperialismo mondiale. Proprio sulla base di questa compromissione, tuttavia, «la sorte politica dello Stato viene a dipendere» dai partiti operai. «Il proletariato, passato attraverso la scuola della guerra, comincerà al primo serio ostacolo che gli si frapporrà nel proprio paese a usare il linguaggio della violenza… Ciò dovrà portare a profondi conflitti politici che, ampliandosi e acuendosi sempre di più, potranno assumere il carattere di una rivoluzione sociale…».[9] Il proletariato europeo deve raccogliere dunque le sue forze intorno a una «nuova Internazionale» e ciò sarà possibile se prenderà coscienza che «la vera autodifesa nazionale consiste nella lotta per la pace». Le parole d’ordine della lotta rivoluzionaria saranno pertanto: «Cessazione immediata della guerra! Nessuna annessione! Nessuna riparazione! Diritto di ogni nazione all’autodeterminazione! Stati Uniti d’Europa, senza monarchie, senza eserciti permanenti, senza caste feudali dominanti, senza diplomazie segrete!».[10]
Anche Lenin non tardò a prendere posizione. Un mese appena dopo lo scoppio della guerra, il 6 settembre 1914, un gruppo di bolscevichi in esilio si riunì a Berna per redigere alcune tesi da sottoporre al Comitato Centrale del partito socialdemocratico. In queste tesi, redatte da Lenin, dopo aver denunciato il tradimento di tutti i partiti socialisti europei che avevano votato i crediti di guerra, si propongono le seguenti linee d’azione: a) lo sviluppo di una propaganda e di una lotta «non contro i propri fratelli proletari in altri paesi, ma contro i governi e i partiti reazionari e borghesi di tutti i paesi»; b) «come parola d’ordine immediata, la propaganda in favore della repubblica in Germania, Polonia, Russia e altri paesi e per gli Stati Uniti repubblicani d’Europa»; c) la lotta contro la monarchia zarista «per la liberazione e autodeterminazione delle nazionalità oppresse dalla Russia, insieme alla rivendicazione di una repubblica democratica, la confisca dei grandi possedimenti e la giornata lavorativa di otto ore».[11] Nella sua sostanza questa presa di posizione venne fatta propria dal Comitato Centrale del «Partito operaio socialdemocratico della Russia» e pubblicata sul Sozial-Demokrat il 1° novembre 1914. In questo testo viene accentuata la critica ai capi della II Internazionale che hanno tentato «di sostituire il nazionalismo al socialismo» e si indica nella «lotta contro lo sciovinismo nel proprio paese» il compito fondamentale di tutte le forze socialdemocratiche. Per questo — si afferma — «per noi socialdemocratici russi non vi può essere dubbio che… il minor male sarebbe la sconfitta della monarchia zarista». Si ribadisce inoltre che «la prossima parola d’ordine politica dei socialdemocratici europei dev’essere la formazione degli Stati Uniti repubblicani d’Europa» e si conclude con il riconoscimento che l’attuale guerra offre l’occasione agli operai «di rivolgere le armi contro il governo e contro la borghesia di ogni paese». Pertanto, «la trasformazione dell’attuale guerra imperialista in guerra civile è la sola giusta parola d’ordine proletaria additata dall’esperienza della Comune, data dalla risoluzione di Basilea (1912) e sgorgante da tutte le condizioni della guerra imperialista tra paesi borghesi altamente sviluppati».[12]
Le posizioni di Lenin e di Trotzky, come si può constatare, convergono su moltissimi punti. Tuttavia resta una differenza fondamentale sulla miglior strategia che si sarebbe dovuta attuare per convogliare le forze verso l’obiettivo della rivoluzione. Trotzky, che si trovava agli inizi del 1915 a Parigi, tentava, attraverso il gruppo editoriale di Nashe Slovo (La nostra parola), di realizzare una politica di unità fra menscevichi e bolscevichi anche in vista di un’azione per la «nuova Internazionale». Nel febbraio del 1915 Nashe Slovo lancia la proposta di una conferenza comune fra i due gruppi socialdemocratici al fine di giungere ad una posizione comune. Entrambe le organizzazioni risposero positivamente all’invito, ma nel corso della discussione non si riuscì a trovare una comune piattaforma «internazionalista».
Il punto di maggiore contrasto riguardava le parole d’ordine pacifiste, che Trotzky accettava nel tentativo di interessare importanti settori della socialdemocrazia tedesca e francese, mentre Lenin osteggiava al fine di tracciare una netta e inconfutabile distinzione tra «socialsciovinisti» e «internazionalisti». In una lettera del 4 giugno 1915 a Kommunist, un giornale di influenza bolscevica che lo aveva invitato a collaborare, Trotzky scrive: «Non posso celare a me stesso la vaghezza e l’evasività delle vostre posizioni sulla questione della mobilitazione del proletariato con la parola d’ordine della lotta per la pace. E’ sulla base di questa parola d’ordine che le masse lavoratrici stanno ora ritornando a essere politicamente sensibili e le forze rivoluzionarie del socialismo si stanno raggruppando in tutti i paesi. Sulla base di questa parola d’ordine può essere fatto il tentativo di ristabilire i legami internazionali del proletariato socialista. Inoltre, non posso essere d’accordo con il vostro punto di vista, concretizzato in una risoluzione, che la sconfitta della Russia sia il ‘male minore’. Questa gratuita e ingiustificata posizione rappresenta una concessione in linea di principio alla metodologia politica del patriottismo sociale…».[13] La risposta di Lenin venne pubblicata sul Sozial Demokrat del 26 luglio 1915 e segna un inasprimento di tono e di sostanza: viene così definita la strategia della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile come un obiettivo esclusivo. «Nel corso di una guerra reazionaria — esordisce Lenin — una classe rivoluzionaria non può che desiderare la sconfitta del proprio governo». Trotzky nei suoi tentativi di conciliazione avrebbe perso di vista la sostanza dell’azione rivoluzionaria. E’ vero che la sconfitta della Russia implica la vittoria della Germania e che ciò può sembrare un favore al militarismo tedesco. Ma decisivo è solo lo scatenamento della rivoluzione socialista. «Una rivoluzione in tempo di guerra significa guerra civile; la trasformazione di una guerra fra governi in una guerra civile è, da un lato, facilitata da un rovescio militare (‘una sconfitta’) dei governi, d’altro lato, non è possibile lottare per questa trasformazione senza con ciò facilitare la sconfitta». Solo su questa base è possibile, così conclude Lenin, iniziare «un’azione rivoluzionaria in un solo paese», ma questo sarà anche l’inizio della «rivoluzione europea, per la pace permanente e per il socialismo».[14]
La posizione di Trotzky, più flessibile e possibilista di quella di Lenin, aveva qualche solida giustificazione per il breve periodo. Era ormai in corso in tutto il movimento socialista europeo una ripresa degli ideali internazionalistici — in Germania sotto l’impulso di Rosa Luxemburg — e stavano maturando le condizioni per il rilancio di una nuova Internazionale. In effetti, dal 5 all’8 settembre 1915 si riunirono a Zimmerwald, in Svizzera, quarantadue delegati — fra cui Lenin e Trotzky — dei principali partiti socialisti europei per discutere del rilancio della lotta socialista al livello internazionale. Nel corso dei dibattiti fu presto chiaro che una posizione comune poteva essere raggiunta solo sulla base di una strategia che non contrastasse con le esigenze dei maggiori partiti del continente, cioè con quello francese e tedesco. Essi presentarono una «Dichiarazione congiunta» in cui veniva affermato che i rispettivi partiti si sarebbero impegnati «per accelerare la fine della guerra» e avrebbero operato per consentire che «il movimento per la pace possa diventare sufficientemente forte da costringere i rispettivi governi a fermare questa carneficina». Ma nessun accenno venne fatto alla possibilità di guerra civile. Le posizioni estremistiche di Lenin vennero respinte e Trotzky, il vero artefice della conferenza, venne incaricato di redigere la risoluzione finale, in cui venne comunque condannato il tradimento dei socialisti che votarono a favore dei crediti di guerra e si invitarono i lavoratori di tutti i paesi a una ripresa della lotta comune in favore della pace fra i popoli.[15]
 
La strategia per la conquista del potere e la questione nazionale.
 
Nei mesi che precedettero la conferenza di Zimmerwald e mentre si stava sviluppando la polemica sulla strategia con Trotzky, Lenin maturò anche una revisione radicale della posizione del partito a proposito della parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa. Dal 27 febbraio al 4 marzo 1915 si era riunita a Berna una conferenza dei gruppi bolscevichi all’estero per prendere una posizione comune sui problemi della guerra. La conferenza fu totalmente dominata dalla discussione sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa. Bucharin ed il suo gruppo avevano presentato una risoluzione in cui si criticava una certa unilateralità con cui era stata presentata la strategia della «guerra civile per la conquista del potere politico e per il trionfo del socialismo». Questa strategia, si affermava nella risoluzione, «non esclude, ma al contrario, include altre paroled’ordine rivoluzionarie, come per esempio la parola d’ordine della pace e la parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa. Il nostro gruppo ritiene che queste due parole d’ordine possano avere un importantissimo significato per l’agitazione e la rivoluzione». Molti partecipanti alla conferenza obiettarono a queste tesi, ma dovettero confrontarsi con Lenin, che difese accanitamente la posizione e alla fine riuscì ad ottenere l’unanimità a favore della posizione tradizionale del partito per gli Stati Uniti d’Europa. Il giorno successivo, tuttavia, Lenin fece la seguente dichiarazione: «Sebbene ieri si sia presa una posizione definita a proposito degli Stati Uniti d’Europa, tenendo conto del fatto che questa questione ha sollevato punti di vista differenti fra le nostre fila, ed inoltre che la discussione si è svolta unilateralmente, ignorando il lato economico del problema, che resta poco chiaro, la questione non può essere considerata chiusa».[16]
In effetti, il 23 agosto 1915 comparve sul Sozial-Demokrat l’articolo di Lenin «Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa» in cui si espongono le ragioni del suo rifiuto. Dopo aver affermato, che essa «se collegata all’abbattimento rivoluzionario delle tre monarchie europee più reazionarie, con la monarchia russa alla testa, è assolutamente inattaccabile come parola d’ordine politica, rimane pur sempre da risolvere l’importantissima questione del suo contenuto e del suo significato economico». Per significato economico, Lenin intende «in regime capitalistico». Ne segue che «gli Stati Uniti d’Europa in regime capitalistico sarebbero o impossibili o reazionari». I capitalisti europei si accorderebbero infatti solo «al fine di schiacciare tutti insieme il socialismo in Europa e per conservare tutti insieme le colonie accaparrate contro il Giappone e l’America… Il tempo in cui la causa della democrazia e del socialismo concerneva soltanto l’Europa è passato senza ritorno». L’arena in cui lottare per il socialismo ha ormai assunto una dimensione mondiale. Non ha dunque senso restringere il proprio campo d’azione alla sola Europa. «Gli Stati Uniti del mondo (e non d’Europa) rappresentano la forma statale di unione e di libertà delle nazioni», arriva ad affermare Lenin. Ma subito dopo limita la sua affermazione con l’osservazione — in seguito sfruttata molto abilmente da Stalin — che «la parola d’ordine degli Stati Uniti del mondo, come parola d’ordine indipendente, non sarebbe forse giusta, innanzitutto perché essa coincide con il socialismo; in secondo luogo, perché potrebbe ingenerare l’opinione errata dell’impossibilità della vittoria del socialismo in un solo paese e una concezione errata dei rapporti di tale paese con gli altri. L’ineguaglianza dello sviluppo economico e politico è una legge assoluta del capitalismo. Ne risulta che è possibile il trionfo del socialismo all’inizio in alcuni paesi o anche in un solo paese capitalistico, preso separatamente».[17]
Le argomentazioni avanzate da Lenin per respingere la parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa non differiscono sostanzialmente da quelle di Rosa Luxemburg in polemica con Kautsky e, anche in questo caso, non sono per nulla convincenti. Se si ammette che lo sviluppo delle forze produttive ha ormai creato un mercato interdipendente su scala mondiale e che, in linea di principio, è corretto parlare di Stati Uniti del mondo, per quale ragione non si può parlare anche di Stati Uniti d’Europa (repubblicani o socialisti, poco importa) come tappa intermedia? In verità, sembra che la principale ragione del voltafaccia di Lenin stia sostanzialmente nel suo tentativo di creare una netta linea di divisione con la ormai compromessa socialdemocrazia europea che poneva l’obiettivo pacifista degli Stati Uniti d’Europa come un compito del «dopoguerra», mentre continuava a sostenere, anche con posizioni di governo, la politica bellicista del proprio Stato. E’ naturale l’indignazione di Lenin per queste posizioni opportunistiche ed è comprensibile il suo tentativo di riportare il socialismo europeo su posizioni antinazionalistiche: per questo giunge sino alla proposta di fare propaganda per la sconfitta del proprio governo. Che questa fosse in effetti la principale motivazione di Lenin è confermato, indirettamente, da un episodio accaduto proprio in preparazione della Conferenza di Zimmerwald. Lenin e Zinoviev avevano redatto un opuscolo dal titolo Il socialismo e la guerra, da diffondere alla Conferenza internazionale, a cui doveva essere allegata la risoluzione del Comitato Centrale del 1° novembre 1914 favorevole agli Stati Uniti d’Europa. A questa risoluzione Lenin aggiunse il seguente post scriptum: «La richiesta degli Stati Uniti d’Europa come formulata nel manifesto del Comitato Centrale — insieme ad un appello per il rovesciamento delle monarchie di Russia, Austria e Germania — differisce dalle interpretazioni pacifistiche della parola d’ordine formulate da Kautsky e altri».[18] Qualsiasi tentativo che mirasse ad un coordinamento internazionale dell’azione politica dei partiti socialisti per una improbabile pace non poteva essere considerato da Lenin che un sabotaggio dell’azione strategica fondamentale: la presa del potere, cioè il rovesciamento dell’autocrazia zarista.
Tuttavia, queste considerazioni di tattica e di strategia non sarebbero sufficienti a giustificare il rifiuto dell’obiettivo degli Stati Uniti d’Europa da parte di Lenin se non si accompagnassero ad una vera e propria incomprensione del federalismo e dello Stato federale, come soluzione istituzionale al problema dei rapporti pacifici fra gli Stati, siano essi capitalistici o socialisti. Lenin non avrebbe mai abbandonato un caposaldo teorico del socialismo per semplici ragioni di tattica. La verità è che Lenin non comprese pienamente il valore del federalismo e ciò è particolarmente evidente nei suoi scritti sulla questione delle nazionalità, in cui le soluzioni che propone non differiscono per nulla da quelle del «borghese» Wilson, il promotore della Società delle Nazioni. Per Lenin, uno Stato socialista dovrebbe garantire a tutte le sue nazionalità il «diritto di separazione», perché questo è l’unico modo di riconoscere l’uguaglianza fra tutte le nazioni. Ma a questo punto, Lenin si rende conto che in questo modo si andrebbe incontro alla frammentazione politica del mondo e ciò contrasterebbe con le esigenze di unità e di sviluppo delle forze produttive. Il compito internazionalista del proletariato, negli Stati più piccoli, è dunque quello di chiedere l’unione agli Stati più grandi ed il compito del proletariato degli Stati più grandi è quello di garantire l’autonomia agli Stati minori. Tuttavia, per Lenin, anche questa soluzione non può essere considerata che transitoria. «I marxisti — scrive nel 1913 — sono contrari alla federazione e al decentramento per la semplice ragione che il capitalismo richiede per il suo sviluppo Stati il più possibile grandi e accentrati… Fino a che e nella misura in cui diverse nazioni fanno parte di un unico Stato, i marxisti non predicheranno né il principio federativo né il decentramento. Il grande Stato centralizzato è un immenso progresso storico…».[19] E in uno scritto del marzo 1916 precisa: «Il riconoscimento del diritto di autodecisione non equivale al riconoscimento della federazione come principio. …Il fine del socialismo consiste non soltanto nell’abolizione del frazionamento dell’umanità in piccoli Stati e di ogni isolamento delle nazioni, non soltanto nell’avvicinamento delle nazioni, ma anche nella loro fusione. …Come l’umanità non può giungere all’abolizione delle classi se non attraverso un periodo transitorio di dittatura della classe oppressa, così non può giungere all’inevitabile fusione delle nazioni se non attraverso un periodo transitorio di completa liberazione di tutte le nazioni oppresse, cioè di libertà di separazione».[20]
Lenin dunque non scorge alcun valore nella soluzione federalistica perché pensa che l’ideale del socialismo consista in un superstato centralizzato a livello mondiale. In una fase transitoria, diversi Stati socialisti possono anche convivere fra di loro in vista di una futura unificazione. Il problema dei rapporti fra Stati socialisti non viene nemmeno considerato e si dà per scontato che possa essere risolto automaticamente, sulla base della buona volontà di cooperazione fra governi socialisti.
Trotzky non si lascia intrappolare nelle maglie di queste infelici argomentazioni. Agli inizi del 1916, in una lettera a Henriette Roland-Host, che stava tentando di lanciare una nuovo periodico (Vorbote) per dibattere le prospettive della sinistra di Zimmerwald, Trotzky pone una domanda cruciale. «Voi dite» — afferma Trotzky — che il diritto delle nazioni all’autodeterminazione «è irrealizzabile in regime capitalistico e superfluo in quello socialista. Perché sia superfluo in regime socialista mi risulta incomprensibile. Si dovrebbe legittimamente supporre che la nostra politica si basi sulla convinzione che stiamo entrando in un’epoca di rivoluzione sociale. Perciò dobbiamo avere un programma per la rivoluzione sociale, un programma del potere statale proletario in Europa. E’ veramente superfluo dire ai Polacchi, ai Serbi, agli Alsaziani quale governo il proletariato europeo darà loro una volta al potere? Pensate veramente che gli attriti e le dispute fra nazioni scompariranno dalla faccia della Terra una volta che il proletariato abbia conquistato il potere?».[21]
A questo decisivo quesito Trotzky tenta di dare una risposta organica in una serie di articoli su Nashe Slovo.[22] Al contrario di Lenin, Trotzky non pensa affatto che le nazioni debbano cedere il passo ad un gigantesco Stato centralizzato. «Una comunità nazionale — scrive — rappresenta il nucleo vitale di una cultura, come il linguaggio nazionale è il suo organo vitale e tutto ciò deve mantenere il suo significato per periodi storici indefiniti. La socialdemocrazia desidera salvaguardare ed è obbligata a salvaguardare alla comunità nazionale la sua libertà di sviluppo (o di dissoluzione)…». Ma naturalmente non si può pretendere che la salvaguardia del particolarismo nazionale assuma un valore prioritario ed assoluto rispetto agli altri obiettivi politici e sociali. «Dal punto di vista dello sviluppo storico — continua Trotzky — così come dal punto di vista dei compiti della socialdemocrazia, la tendenza dell’economia moderna è fondamentale e deve essere garantita la più completa opportunità di svolgere la sua vera missione storica liberatrice: la costruzione di una economia mondiale unificata, indipendente dalle barriere nazionali, statali e tariffarie, soggetta solo alle particolarità del suolo e delle risorse naturali, al clima e alle peculiarità della divisione del lavoro». Si deve dunque ricercare una soluzione politica che consenta «un allargamento dello Stato come organizzatore dell’economia ma non come nazione». Solo così è possibile una autentica autodeterminazione delle nazioni. «L’unificazione statuale dell’Europa — conclude Trotzky — è chiaramente il prerequisito dell’autodeterminazione delle grandi e delle piccole nazioni d’Europa. Una cultura nazionale, libera dagli antagonismi economici e fondata su una reale autodeterminazione, è possibile solo sotto il tetto di una Europa unificata democraticamente e libera dalle barriere statali e tariffarie».[23]
A questo punto Trotzky passa ad esaminare le obiezioni degli oppositori degli Stati Uniti d’Europa, con l’intento di ripristinare questa parola d’ordine come obiettivo rivoluzionario del proletariato europeo. Non è infatti vero, sostiene Trotzky, che questo obiettivo si debba considerare reazionario se perseguito in regime capitalistico. Occorre distinguere fra «una mezza unificazione» europea ed una unificazione autenticamente democratica. I governi capitalisti europei possono certamente trovare il modo di realizzare accordi (si potrebbe dire una «confederazione») al vertice, ma non elimineranno mai le ragioni profonde ed intrinseche dei conflitti internazionali. «E’ per questo che l’unificazione economica dell’Europa, che offre enormi vantaggi sia ai produttori che ai consumatori, e in generale all’intero sviluppo culturale, diventa il compito rivoluzionario del proletariato europeo nella sua lotta contro il protezionismo imperialistico ed il suo strumento: il militarismo. Gli Stati Uniti d’Europa — senza monarchie, eserciti permanenti e diplomazia segreta — sono perciò la parte più importante ed integrale del programma di pace del proletariato». Inoltre, continua Trotzky, anche ammesso che i governi borghesi e reazionari riescano a formare gli Stati Uniti d’Europa, non per questo il proletariato deve rinunciare al suo obiettivo. Non si tratta certo di ritornare indietro verso la formazione di piccole economie chiuse dentro barriere doganali ed isolate dal mondo. In questo caso il «programma di un movimento rivoluzionario europeo sarà: la distruzione della forma statale oppressiva ed anti-democratica», e nel contempo la conservazione dell’unità politica già acquisita. Si tratta di convertire «il trust imperialistico nella Federazione repubblicana europea».[24]
Infine, Trotzky, citando espressamente le posizioni di Lenin, entra in polemica con la prospettiva della «vittoria del socialismo in un solo paese». Trotzky non mette in discussione la scelta strategica di cogliere l’occasione per realizzare una rivoluzione socialista in un paese, se se ne presenta l’occasione, «senza attendere gli altri». Il punto decisivo è un altro. «Considerare la prospettiva della rivoluzione sociale entro il quadro nazionale significa soccombere alla stessa ristrettezza nazionale che dà sostanza al socialpatriottismo». «La rivoluzione — continua Trotzky — non può iniziare che su una base nazionale, ma non può essere completata su questa base, data la presente interdipendenza economica e politico-militare degli Stati europei, che non si è mai tanto efficacemente rivelata come in questa guerra. La parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa dà espressione a questa interdipendenza, che offrirà direttamente e immediatamente le condizioni per una azione concertata del proletariato europeo nella rivoluzione».[25] Nel caso in cui scoppiasse con successo una rivoluzione in Russia «si avrebbe ogni ragione di sperare che nel corso della presente guerra un potente movimento rivoluzionario si diffonderà in tutta l’Europa. E’ chiaro che questo movimento può riuscire, svilupparsi e vincere solo in quanto movimento europeo… La salvezza della rivoluzione russa dipende dalla sua diffusione in Europa… L’unificazione statale dell’Europa, da conseguirsi non con la forza delle armi né con gli accordi industriali o diplomatici, diventerà in tal caso il compito imprescindibile del trionfante proletariato rivoluzionario. Gli Stati Uniti d’Europa sono la parola d’ordine dell’epoca rivoluzionaria in cui stiamo entrando… Lo Stato nazionale è ormai superato, come quadro per lo sviluppo delle forze produttive, come base per la lotta di classe e perciò anche come forma statale per la dittatura del proletariato».[26]
La controversia tra Lenin e Trotzky sugli Stati Uniti d’Europa si arresta a questo punto. Le rispettive posizioni vengono eventualmente ribadite, ma non costituiscono un ostacolo al progressivo avvicinamento dei due leaders nel momento in cui è necessario raccogliere tutte le energie per sferrare il colpo decisivo allo Stato zarista. Per entrambi è indiscutibile che la Rivoluzione russa rappresenti l’inizio della rivoluzione socialista mondiale. Lenin, dopo lo scoppio della rivoluzione di febbraio, chiudeva la sua «Lettera d’addio agli operai svizzeri» con le parole: «Viva la rivoluzione proletaria che incomincia in Europa!». Ed al suo arrivo a Pietrogrado salutò la folla che lo circondava col grido: «Viva la rivoluzione socialista mondiale!».[27] E’ tuttavia evidente che esistono numerose differenze fra la strategia di Lenin e quella di Trotzky. Abbandonando la prospettiva degli Stati Uniti d’Europa Lenin ha aperto oggettivamente anche la via alla «costruzione del socialismo in un paese solo» ed alla conseguente liquidazione della dimensione mondiale e rivoluzionaria dell’ideologia socialista. Con la Rivoluzione d’ottobre, Lenin e Trotzky riuscirono a spezzare l’anello più debole della catena. Ma restava aperto il drammatico problema di sapere cosa sarebbe accaduto alla parte restante della catena. Quale sarebbe stato il destino della Rivoluzione russa senza il sollevamento del proletariato europeo in suo sostegno? Le risposte di Lenin e Trotzky a questa domanda non sono convergenti. Come ha giustamente scritto lo storico del socialismo Rosenberg: «Il leninismo ha la sua linea di ripiegamento per il caso che la rivoluzione mondiale non si realizzi: il trotzkismo non ce l’ha».[28]
 
Il partito della rivoluzione mondiale e l’Europa.
 
La III Internazionale venne fondata a Mosca nel marzo del 1919. L’iniziativa fu presa da Lenin, nel momento di massimo isolamento della Russia sovietica, sia per contrastare i tentativi di ricostituzione dell’Internazionale socialdemocratica, sia nella speranza di poter ormai contare sull’appoggio del proletariato europeo: nel dicembre del 1918 era stato fondato il partito comunista tedesco, frutto della scissione dell’ala sinistra della SPD. Questo secondo avvenimento ebbe un peso determinante. La fondazione della nuova Internazionale fu in effetti messa in dubbio sino all’ultimo dall’atteggiamento del delegato tedesco Eberlein, che aveva ricevuto dal suo partito l’esplicito mandato di opporsi alla creazione di una III Internazionale, ancora prematura. Fu solo nel corso dei dibattiti, quando fra i delegati si diffuse la convinzione che la rivoluzione in Europa potesse scoppiare nel giro di pochi mesi, che venne strappato ad Eberlein il consenso (in realtà, Eberlein si astenne sulla risoluzione di costituzione).
Lo scopo primario della nuova Internazionale era quello di estendere la rivoluzione proletaria dalla Russia all’Europa ed al mondo intero. L’anello più debole della catena si era spezzato, ma poteva la Russia sovietica resistere a lungo senza l’appoggio del proletariato europeo? La convinzione dei massimi dirigenti bolscevichi, di Lenin e di Trotzky in particolare, era che in Europa stessero maturando — a breve scadenza — le condizioni per la presa del potere da parte del proletariato e che il bolscevismo potesse diventare il modello della rivoluzione internazionale. Una vittoria del proletariato europeo avrebbe spostato il baricentro della rivoluzione verso occidente. Lenin era perfettamente consapevole di questo fatto e per qualche tempo cercò di creare un ufficio del Comintern (Internazionale comunista) in Olanda e di convocarvi una conferenza. Zinoviev arrivò a dichiarare che «noi saremo lieti se riusciremo a trasferire la sede della III Internazionale e del suo comitato esecutivo il più presto possibile in un’altra capitale, per esempio Parigi». L’influenza del proletariato europeo occidentale era ancora determinante. La lingua di lavoro della III Internazionale, almeno sino a che il potere di Stalin non divenne soffocante, fu il tedesco.
La convinzione di una possibile rivoluzione vittoriosa in Europa si mantenne nonostante la sanguinosa repressione dell’insurrezione tedesca, con la barbara uccisione di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht il 16 gennaio 1919. Soltanto quindici giorni dopo la chiusura del Congresso di fondazione della III Internazionale, il 21 marzo 1919, a Budapest veniva instaurata una repubblica sovietica. Ai primi di aprile una repubblica sovietica venne proclamata a Monaco. Scioperi e sommosse si manifestavano un po’ dovunque, in Francia, in Olanda e in Svizzera. Lenin aveva allora dichiarato che «la nostra vittoria su scala internazionale è completamente sicura»; in occasione della celebrazione del Primo maggio terminava il suo discorso al grido di «Viva la Repubblica internazionale dei Soviet!» e tre mesi dopo affermava: «Questo luglio sarà il nostro ultimo luglio difficile, e nel luglio prossimo saluteremo la vittoria della Repubblica internazionale dei Soviet».[29]
Le vicende della parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa nella III Internazionale sono strettamente connesse alla strategia per la rivoluzione mondiale. Nei primi anni il problema non si pose direttamente. La prospettiva di una rapida estensione della rivoluzione in Europa era talmente radicata che non potevano nemmeno sorgere contrasti significativi fra sostenitori ed oppositori dell’unificazione europea, come avvenne invece in seguito.
Al congresso di fondazione Lenin presentò delle Tesi «sulla democrazia borghese e la dittatura proletaria» il cui obiettivo esplicito era quello di indirizzare il proletariato europeo verso la costituzione di partiti comunisti, abbandonando le decrepite organizzazioni socialdemocratiche. Trotzky scrisse invece il primo «Manifesto dell’Internazionale comunista al proletariato di tutto il mondo», in cui si ribadiva che «lo Stato nazionale, che impartì un possente impulso allo sviluppo capitalistico, è divenuto troppo angusto per l’ulteriore sviluppo delle forze produttive». Per questo è possibile superare l’imperialismo e garantire una indipendenza effettiva a tutti i popoli, anche i più piccoli, solo attraverso forme effettive di unione politica. «I piccoli popoli — si afferma nel Manifesto — possono essere certi della possibilità di una esistenza libera soltanto con la rivoluzione proletaria, che libererà le forze produttive di tutti i paesi dalla costrizione dello Stato nazionale, unirà i popoli in strettissima cooperazione economica sulla base di un piano economico comune, e offrirà anche ai popoli più piccoli e più deboli la possibilità di condurre i propri affari culturali nazionali in modo libero e indipendente, senza detrimento per l’economia unificata e centralizzata europea e mondiale».[30] La formulazione qui adottata da Trotzky è solo leggermente più prudente di quella utilizzata in un articolo da lui pubblicato sulla Pravda il 26 gennaio 1919, proprio in vista della convocazione del congresso di costituzione dell’Internazionale, in cui scriveva che «la trasformazione dell’Europa in una federazione di repubbliche sovietiche è la sola soluzione concepibile ai bisogni dello sviluppo nazionale di popoli grandi e piccoli senza mettere in pericolo l’esigenza di centralizzazione dell’unione economica, prima dell’Europa e poi del mondo intero».[31]
Una svolta radicale nella politica dell’Internazionale si ebbe con il III Congresso mondiale che si svolse dal 22 giugno al 12 luglio 1921. Nel precedente mese di marzo era fallito un maldestro tentativo insurrezionale in Germania. Il governo bolscevico in Ungheria aveva resistito pochissimo. In Italia l’occupazione delle fabbriche non aveva mai dato l’impressione di potersi trasformare in un serio tentativo di presa del potere. La rivolta di Kronstadt (con la sua repressione) e il varo della Nuova Politica Economica (NEP) stavano ormai orientando la società sovietica verso un periodo di stabilizzazione. Di tutti questi fatti bisognava prendere atto e Lenin e Trotzky si batterono, anche contro alcuni dirigenti russi dell’Internazionale come Zinoviev e Bucharin, per imporre una svolta nella strategia e nella tattica dell’Internazionale. Si trattava di emarginare e rendere inoffensivo il comportamento velleitario di chi confondeva la rivoluzione con la sommossa e l’avventurismo politico, che Lenin aveva già condannato nel suo celebre saggio del 1920 L’estremismo, malattia infantile del comunismo. La prospettiva della rivoluzione mondiale si allontanava nel tempo. «Ora per la prima volta — affermava Trotzky nel suo rapporto — noi vediamo e sentiamo che non siamo così immediatamente vicini all’obiettivo, alla conquista del potere, alla rivoluzione mondiale. In quel tempo, nel 1919, dicevamo a noi stessi: ‘E’ una questione di mesi’. Ora diciamo: ‘E’ forse una questione di anni’».[32] Il compito principale del partito comunista internazionale, in questa nuova situazione, diventava quello di «dirigere le lotte difensive del proletariato, estenderle e radicarle». Si trattava in sostanza di realizzare una strategia di «ritirata temporanea» in cui bisognava rafforzare l’organizzazione, soprattutto attraverso un’opera di convincimento del proletariato, che aderiva ancora massicciamente ai partiti socialisti. Le diverse sezioni nazionali dei partiti comunisti dovevano cercare di estendere la loro base e rafforzare i quadri attraversa la tattica del «fronte unico», lavorando in accordo con i partiti socialdemocratici, per conquistare il consenso della maggioranza della classe operaia, in vista di future occasioni rivoluzionarie.
Le ragioni di questa «ritirata temporanea» non vennero mai adeguatamente spiegate né da Lenin, né da Trotzky. Lenin sostenne che il Comintern era passato dalla tattica dell’assalto a quella dell’assedio, ma questa immagine non serviva a chiarire gli sbocchi della rivoluzione bolscevica e le prospettive di quella internazionale. Trotzky presentò un ampio rapporto sul declino economico dell’Europa nei confronti dell’emergente potenza statunitense e sulle conseguenze per la strategia dell’Internazionale. Trotzky diagnosticava con precisione e chiaroveggenza alcune tendenze decisive dell’economia e della politica mondiale, come il fatto che «il dollaro è ormai diventato il ‘sovrano’ del mercato finanziario mondiale»[33] e che i paesi europei erano spinti dalle rispettive difficoltà ad una politica di crescenti contrasti che avrebbe anche potuto sfociare in una nuova guerra (anche se Trotzky riteneva, erroneamente, più probabile una guerra fra USA e Gran Bretagna). Ma alla fine le cause del mancato successo dell’Internazionale venivano imputate a semplici ragioni organizzative: l’impreparazione e l’incapacità dei partiti comunisti occidentali nella lotta per il potere nazionale. Dal punto di vista della rivoluzione la situazione rimaneva favorevole. Anzi, il declino dell’Europa accresceva le possibilità di successo dei partiti comunisti. «Sia la situazione mondiale che le prospettive future presentavano caratteristiche profondamente rivoluzionarie».[34]
In sostanza sia per Lenin che per Trotzky le responsabilità del mancato successo della rivoluzione dovevano essere imputate ad un fattore soggettivo, come l’incapacità dei dirigenti occidentali di portare al successo il loro partito. Questa mancata diagnosi delle condizioni oggettive — il contesto storico-politico mondiale — in cui collocare l’azione dell’Internazionale doveva lasciare spazio a differenti ed opposti orientamenti, che si manifestarono compiutamente solo negli anni successivi.
In una prima fase, il prestigio, l’autorità e l’abilità politica di Trotzky riuscirono ad imporre all’Internazionale una strategia favorevole alla costruzione della Federazione europea ed alla lotta per l’estensione delle conquiste del socialismo al mondo intero. L’occasione fu fornita dall’occupazione della Ruhr da parte delle truppe francesi e belghe, a causa del mancato pagamento dei debiti di guerra tedeschi. Si profilava all’orizzonte di nuovo lo spettro di una guerra europea e mondiale. L’occupazione avvenne l’11 gennaio 1923. Il 13 gennaio l’Esecutivo del Comintern pubblicava un Appello in cui si invitavano gli operai francesi e tedeschi «a promuovere scioperi e dimostrazioni» per impedire la guerra e a chiedere «la Federazione europea delle repubbliche socialiste». L’Appello si chiudeva con la parola d’ordine «Viva la federazione dei governi socialisti!».[35]
La situazione internazionale sembrava allora a Trotzky favorevole ad una ripresa del processo rivoluzionario. Inoltre, la vita politica interna era caratterizzata da un momento di incertezza sulle prospettive di potere nel partito: Lenin era ormai assente dall’attività politica ed era iniziata larvatamente la lotta per la sua successione. Trotzky fece della parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa una colonna portante della sua prospettiva politica rivoluzionaria. Il 30 giugno del 1923 pubblicò un articolo sulla Pravda in cui sosteneva l’opportunità di riprendere in considerazione questa strategia. «L’occupazione della Ruhr, funesta per l’Europa e per l’umanità — scriveva Trotzky — riflette il bisogno di unire il ferro della Ruhr e il carbone della Lorena. L’Europa non può sviluppare la sua economia all’interno delle frontiere doganali e statali che le sono state imposte dal Trattato di Versailles. Essa deve abbattere queste frontiere, altrimenti è minacciata da una completa decadenza economica». La Federazione europea sarebbe stata l’unica alternativa al «pericolo proveniente dagli Stati Uniti, che alimentano la disorganizzazione dell’Europa e si preparano a diventare i suoi eredi». Gli Stati Uniti d’Europa rappresentano una prospettiva rivoluzionaria, perché tramite l’Unione Sovietica il processo si potrà estendere verso oriente «e di conseguenza aprirà all’Asia uno sbocco verso l’Europa».[36]
Questa posizione venne mantenuta in seno all’Internazionale sino al 1926, quando ormai il contrasto fra Trotzky e Stalin era giunto ad un punto di non ritorno. Trotzky venne espulso dall’Ufficio politico del partito e Zinoviev rimosso, per le sue posizioni internazionalistiche favorevoli a Trotzky, dalla sua carica di presidente dell’Internazionale. Il V Congresso mondiale, che si tenne nell’estate del 1924, approvò l’idea di una federazione balcanica ed un Manifesto «in occasione del decimo anniversario dello scoppio della guerra», redatto da Trotzky, in cui si affermava che la vittoria del proletariato europeo sarà tanto più certa segli Stati europei si riuniranno in una «Federazione sovietica… Il movimento rivoluzionario in America riceverebbe allora un impulso enorme. La Federazione socialista europea diventerà in tal modo la pietra angolare della Repubblica socialista mondiale».[37] Nel dicembre 1926, infine, è lo stesso Bucharin, ormai alleato fedele di Stalin contro Trotzky, a presentare delle Tesi, approvate dal settimo Plenum del Comintern, in cui viene ribadita ancora una volta, seppure «contro la Pan-Europa», la richiesta «degli Stati Uniti socialisti d’Europa» e viene sostenuta «contro la Società delle Nazioni, un’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche».[38]
 
La costruzione del socialismo in un paese solo e il declino della prospettiva rivoluzionaria.
 
Il V Congresso rappresenta l’ultima occasione in cui l’Internazionale si pronuncia a favore della Federazione europea. La lotta per affermare la prospettiva della costruzione del socialismo in un paese solo stava inesorabilmente travolgendo tutti gli oppositori e naturalmente anche l’Internazionale doveva inchinarsi al nuovo corso. Inizialmente non fu chiaro nemmeno a Stalin il ruolo decisivo che avrebbe potuto giocare questo punto di vista nella lotta per la conquista del potere in URSS. Lenin era morto il 21 gennaio 1924, ma le tensioni nel partito si erano fatte particolarmente acute già due anni prima. Le questioni centrali riguardavano la libertà di critica all’interno del partito — difesa da Trotzky — e il problema del superamento della NEP con un efficace piano di industrializzazione. Queste proposte della sinistra erano allora avversate da Bucharin, che appoggiandosi alla ancora amplissima base rurale russa, difendeva l’ipotesi di una industrializzazione «a passo di tartaruga». Stalin guidava il cosiddetto Centro e fondava il suo potere sulla struttura burocratica dello Stato e del partito. Sul problema delle prospettive rivoluzionarie la sua visione era talmente ortodossa che in un articolo pubblicato sulla Pravda il 30 aprile 1924 scriveva: «Abbattere il potere della borghesia e instaurare il potere del proletariato in un solo paese non significa ancora la completa vittoria del socialismo. Il compito principale del socialismo — l’organizzazione della produzione socialista — deve ancora essere realizzato. Può questo compito essere realizzato, può essere ottenuta la definitiva vittoria del socialismo in un solo paese, senza gli sforzi congiunti del proletariato in diversi paesi progrediti? No, non è possibile. Per abbattere la borghesia sono sufficienti gli sforzi di un solo paese, come è dimostrato dalla storia della nostra rivoluzione. Per la vittoria finale del socialismo, per l’organizzazione della produzione socialista, gli sforzi di un solo paese, particolarmente di un paese contadino come la Russia, sono insufficienti; perciò, sono necessari gli sforzi dei proletari di diversi paesi progrediti».[39]
Prima della fine del 1924, tuttavia, questo punto di vista di Stalin veniva completamente rovesciato. Trotzky pubblicava in autunno, in occasione dell’anniversario della rivoluzione vittoriosa, le Lezioni dell’Ottobre in cui sferrava un attacco frontale alla vecchia guardia bolscevica, che non aveva saputo nel momento decisivo sostenere Lenin nella decisione di prendere il potere. La risposta non tardò a farsi sentire e venne orchestrata da Stalin con grande abilità. Tutti i giornali di partito iniziarono una campagna contro il «trotzkysmo», la nuova dottrina che pretendeva di soppiantare il leninismo. Bucharin, in un discorso tenuto il 13 dicembre «Sulla teoria della rivoluzione permanente», condannava l’europeismo di Trotzky e la sua sfiducia nel proletariato russo, che non sarebbe riuscito nel suo tentativo rivoluzionario, senza l’aiuto dei suoi compagni europei. Fu tuttavia Stalin, con un articolo pubblicato sulla Pravda il 20 dicembre, ad introdurre nel dibattito la nuova prospettiva politica, che doveva, nel corso degli anni, rivelarsi come una svolta radicale della storia non solo del comunismo russo, ma dell’intero movimento socialista internazionale.
Stalin comincia con il constatare che «l’essenza della Rivoluzione d’ottobre» consiste «nel fatto che la dittatura del proletariato si è affermata da noi come risultato della vittoria del socialismo in un paese solo, capitalisticamente poco sviluppato, il capitalismo continuando a esistere negli altri paesi capitalisticamente più sviluppati». Secondo Trotzky non sarebbe possibile portare a termine la costruzione del socialismo in condizioni di isolamento e senza l’aiuto del proletariato dei paesi europei più progrediti. Per questo occorre perseguire una strategia volta a suscitare la rivoluzione mondiale, ovunque se ne presenti l’occasione. «Ma che fare — si chiede Stalin — se la rivoluzione mondiale sarà costretta a giungere con ritardo? Rimarrà qualche briciola di speranza per la nostra rivoluzione? Trotzky non ce ne lascia nessuna». La storia invece insegna che alcuni paesi sono riusciti a recuperare il ritardo nei confronti dei paesi più sviluppati. La Germania era un paese arretrato, nei confronti della Francia e dell’Inghilterra. Altrettanto si può dire del Giappone nei confronti della Russia. «Perciò — conclude Stalin — la vittoria del socialismo in un solo paese, anche se questo paese è capitalisticamente meno sviluppato e il capitalismo continua a sussistere in altri paesi, sia pure capitalisticamente più sviluppati, è perfettamente possibile e probabile». Il programma politico di Trotzky è assolutamente impraticabile. La parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa avrebbe un significato se fosse possibile una simultanea vittoria del proletariato europeo in più paesi. Ma questa prospettiva è altamente irrealistica. La costruzione del socialismo in un paese solo non significa affatto, per Stalin, abbandonare la prospettiva della rivoluzione mondiale. «L’immenso paese dei soviet…, per il solo fatto che esiste, stimola la rivoluzione nel mondo intero». In definitiva, il compito di tutti i proletari diventa quello di difendere le prime conquiste della loro «patria socialista». E’ questo il senso che si deve attribuire alla ricerca del necessario sostegno del proletariato europeo a quello russo. Trotzky con la sua continua ricerca di un appoggio esterno alla rivoluzione sovietica, in verità alimenta «la sfiducia nelle forze e nelle capacità del proletariato della Russia».[40]
Le lotte di potere all’interno del governo sovietico paralizzarono l’attività dell’Internazionale. Il VI Congresso mondiale venne convocato a Mosca solo nell’estate del 1928, quando ormai Trotzky era in esilio ad Alma Ata e Bucharin sentiva che la sua alleanza con Stalin stava per volgere al termine. Ma proprio per questo, forse, Bucharin presentò delle Tesi ed un Programma che sancivano in modo definitivo la subordinazione dell’Internazionale alla politica estera sovietica. La strategia «europeistica» di Trotzky venne subito liquidata rispolverando le vecchie argomentazioni di Lenin. «In regime capitalistico — si afferma — gli Stati Uniti d’Europa o gli Stati Uniti del mondo sono una utopia. Ma se anche si realizzassero, essi assumerebbero inevitabilmente un carattere reazionario… Tutte le tendenze orientate in questo senso (ad esempio, il movimento paneuropeo) sono nettamente reazionarie».[41] Questo giudizio è fondato sul riconoscimento della nuova realtà internazionale: «Il mondo è diviso in due campi irriducibilmente ostili: il campo degli Stati imperialisti e il campo della dittatura del proletariato in Unione Sovietica… Due sistemi antagonistici si contrappongono ormai in quella che era un tempo un’unica economia mondiale: capitalismo e socialismo».[42] Qui compare per la prima volta, anche se mascherato sotto forma ideologica, il riconoscimento del bipolarismo mondiale, cioè la tendenziale divisione del mondo in blocchi contrapposti. Il processo per portare a piena maturazione questa nuova realtà sarà lungo e tormentato. Ma la dottrina della costruzione del socialismo in un solo paese lascia intravvedere chiaramente quale sarà il punto di arrivo. L’URSS diventerà da ora in avanti il punto di riferimento del proletariato mondiale. «L’Unione Sovietica è la vera patria del proletariato… Ciò pone al proletariato internazionale il dovere di accelerare il successo della costruzione socialista in Unione Sovietica e di difendere con ogni mezzo il paese della dittatura del proletariato dagli attacchi delle potenze capitalistiche».[43] Il compito dei partiti comunisti di tutto il mondo e dell’Internazionale viene così strettamente subordinato alla difesa dell’ordine esistente. La rivoluzione mondiale non viene naturalmente rinnegata, ma il cammino che potrebbe renderla possibile passa per la supremazia sovietica. «L’Unione Sovietica — si afferma — è destinata a diventare… il centro della rivoluzione internazionale». A mano a mano che qualche rivoluzione dovesse avere successo al di fuori dell’URSS, queste nuove repubbliche dovrebbero unirsi a quelle già esistenti «per dare vita infine all’Unione Mondiale delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, che unificherà l’umanità intera sotto l’egemonia del proletariato internazionale organizzato come Stato».[44]
Dal suo lontano esilio di Alma Ata, Trotzky inviava al VI Congresso mondiale una critica al «progetto di Programma» che ribadiva puntigliosamente tutte le sue posizioni precedenti sulla incompatibilità assoluta fra le tesi nazionali ed autarchiche contenute nel Programma e i principi fondamentali del marxismo e del socialismo. «Esiste ora una teoria — scriveva Trotzky — secondo cui la costruzione integrale del socialismo è possibile in un paese solo… Se si adotta questo punto di vista, che è fondamentalmente nazional-riformista e non rivoluzionario e internazionalista, la necessità della parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa scompare o, quanto meno, si attenua. Ma appunto, questa parola d’ordine ci sembra necessaria e vitale, perché contiene la condanna dell’idea di uno sviluppo socialista circoscritto in un paese solo».[45] In linea di massima questa affermazione di Trotzky è perfettamente corretta. I delegati presenti, in specie quelli europei, che riuscirono a leggere qualche rara e mutilata copia delle critiche di Trotzky le trovarono in accordo con l’ortodossia marxista. Ma tutti ormai sapevano che la questione fondamentale non era tanto quella di discutere e difendere dei principi di dottrina, ma piuttosto di consentire al governo sovietico di affrontare con successo il difficile compito della industrializzazione forzata. Così, nel silenzio generale, la parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa veniva definitivamente accantonata dall’orizzonte politico dell’Internazionale comunista.
 
Il federalismo nel passato e nel futuro dell’URSS.
 
In URSS è ormai in corso, grazie alla perestrojka di Gorbaciov, un processo di democratizzazione delle istituzioni sovietiche ,che inevitabilmente riaprirà il dibattito sui rapporti fra socialismo e democrazia avviato negli anni Venti, ma bloccato dalle dure condizioni imposte dalla politica stalinista della costruzione del socialismo in un paese solo. Naturalmente, parte essenziale di questo dibattito riguarderà proprio il significato dell’esperienza staliniana. Era davvero necessaria la feroce politica totalitaria e repressiva che ha accompagnato il processo di industrializzazione? Non esiste certo una risposta semplice e univoca a una questione storica tanto complessa. Ci sembra tuttavia di poter fare almeno alcune osservazioni in proposito, anche sulla base del ruolo giocato dalla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa.
Primo. Tutti i leaders sovietici, dalla destra di Bucharin alla sinistra di Trotzky, si trovavano d’accordo sul fatto che dopo l’esperienza della NEP era necessario avanzare verso una completa industrializzazione dell’URSS. Erano in discussione solo il ritmo di questo processo ed i mezzi per attuarlo. Secondo. Trotzky si era illuso sulla possibilità che potesse davvero scoppiare una rivoluzione in Europa e che potesse venire, da quel fronte, un aiuto decisivo per l’industrializzazione sovietica. Kautsky aveva più volte osservato, e con ragione, che il proletariato tedesco non aveva più bisogno di una rivoluzione violenta per andare al potere, perché ormai poteva accedervi, entro un periodo ragionevole, attraverso i metodi della democrazia. Era dunque la difesa della legalità democratica l’arma migliore della SPD. Ma i tempi dell’ascesa al potere della socialdemocrazia non coincidevano necessariamente con le necessità dell’URSS. Terzo. I Trattati di Versailles lasciarono profondamente insoddisfatti i principali Stati europei così che, ben presto, riprese il processo di riarmo e si accentuò la crisi dei regimi democratici (come l’ascesa del fascismo in Italia). I tentativi di arrestare questa folle marcia dell’Europa verso il baratro furono del tutto inadeguati. La proposta di Briand e di Paneuropa di creare una Federazione europea si impigliò nelle maglie strettissime della diplomazia, così che dopo il 1930 le forze del nazionalismo ripresero la loro marcia con un accelerato vigore. Certamente, se la prospettiva di una Federazione europea avesse preso consistenza nell’orizzonte politico europeo sin dall’immediato dopoguerra, anche la politica di Trotzky sarebbe stata più credibile agli occhi dei suoi compagni di partito. Si sarebbe tuttavia posta, a questo punto, la questione dei rapporti fra la Federazione europea, che non avrebbe potuto sorgere che su basi democratiche, e l’URSS, che (almeno sino al momento della vittoria di Stalin su Trotzky) non aveva ancora imboccato la strada a senso unico del totalitarismo. Quarto. In un clima internazionale dominato dal nazionalismo, dalla corsa al riarmo e dal protezionismo, la scelta di una politica di industrializzazione non poteva fondarsi che sul principio della «costruzione del socialismo in un paese solo». Trotzky aveva ragione a denunciarne l’incongruenza con i fondamenti del marxismo e dell’internazionalismo. Ma Stalin aveva ragione a sua volta nel sostenere che l’industrializzazione in URSS poteva riuscire anche senza l’aiuto esterno. E a questo punto il socialismo doveva tingersi dei colori nazionali. Sarebbe stato impossibile chiedere al popolo sovietico di compiere un immenso sforzo collettivo senza una giustificazione ideologica adeguata. Questa ideologia non poteva essere che la difesa della «Patria del proletariato», che venne considerata, da allora in poi, come il valore supremo non solo per il popolo sovietico, ma per i proletari del mondo intero. Quinto. Ne è derivata una crescente divaricazione fra i valori universali affermati dalla grande rivoluzione del 1917 e gli obiettivi perseguiti dal potere sovietico. Gli interessi del movimento operaio al di fuori dell’URSS dovevano essere subordinati al valore supremo della difesa della «Patria del proletariato». Alla lunga, ciò doveva provocare la disgregazione dell’Internazionale e il declino del ruolo del «modello sovietico» nel movimento socialista internazionale, sia nei paesi industrializzati che nel Terzo mondo.
L’esame del dibattito sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa ha mostrato che il federalismo non è mai entrato a far veramente parte del pensiero dei rivoluzionari bolscevichi, Trotzky incluso, che, pur avendo compreso la necessità storica del superamento dello Stato nazionale, considerava il federalismo solo una forma statuale indispensabile all’organizzazione internazionale della produzione moderna, ma senza assegnare un carattere strategico a questa scelta. Per Trotzky il fronte decisivo della lotta — vale a dire il confine tra progresso e reazione — restava quello tra capitalismo e socialismo, non tra nazionalismo e federalismo. Per questo non seppe opporre una valida politica alternativa all’ascesa del fascismo e del nazismo in Europa e non fece nulla per saldare le forze del movimento operaio favorevoli agli Stati Uniti d’Europa a quelle, por importanti, che negli anni Trenta si stavano manifestando negli ambienti borghesi e governativi europei in favore del medesimo obiettivo. Resta comunque il fatto che l’Unione Sovietica si trovò a più riprese di fronte a scelte che avrebbero potuto avere uno sbocco democratico solo su base federalistica. Poiché questi nodi — che riguardano gli aspetti federalistici della Costituzione sovietica e il processo di democratizzazione delle relazioni internazionali, paesi socialisti inclusi — non sono stati per nulla sciolti ed anzi sono destinati a ripresentarsi nella misura in cui il processo di democratizzazione avviato da Gorbaciov si consoliderà, vale la pena di analizzarli brevemente.
Il primo riguarda la natura della Costituzione stessa dell’URSS e in particolare la convivenza al suo interno di differenti nazionalità. Lenin, che aveva respinto il federalismo in teoria, al momento di redigere la prima Costituzione del 1918 si trovò di fronte alla necessità di accettarlo in pratica. Scrisse infatti di suo pugno una Dichiarazione, inclusa poi nella Costituzione, in cui si afferma che: «La Repubblica russa dei soviet è costituita sulla base di una libera unione di nazioni libere, come federazione di repubbliche nazionali sovietiche». Quando si manifestò, dopo qualche anno, la necessità di rivedere il testo costituzionale, sembra che Lenin volesse introdurre maggiori salvaguardie a tutela delle minoranze nazionali, anche sulla base dei contrasti che aveva avuto con Stalin, che avrebbe ecceduto, secondo Lenin, nelle sue manifestazioni di «sciovinismo grande russo». Tuttavia, anche se Lenin sembrava sinceramente tormentato dal problema dei rapporti da istituire fra governo centrale e nazionalità minori — ed alcuni commentatori ritengono che se Lenin fosse rimasto in vita più a lungo, la Costituzione del 1924, fatta approvare da Stalin subito dopo la sua morte, sarebbe stata notevolmente differente[46] — non vi sono segni significativi di un superamento della sua concezione del federalismo come fase transitoria verso lo Stato centralizzato. In seguito, questa concezione non venne, naturalmente, più messa in discussione da Stalin, che nel 1917 aveva pubblicato sulla Pravda un articolo dal titolo significativo «Contro il federalismo», in cui si respingeva come artificiosa «l’analogia che viene fatta fra gli Stati Uniti del 1776 e la Russia odierna».[47] In effetti, Stalin era ben cosciente del fatto che è praticamente impossibile garantire una reale autonomia alle repubbliche di una federazione in un regime a partito unico. Ma, dopo tanti decenni di politica accentratrice, le esigenze di autonomia nazionale delle varie repubbliche sovietiche si sono rivelate non meno tenaci dell’aspirazione del popolo sovietico ad una maggiore democrazia e pluralismo politico. Il federalismo non può più oggi essere considerato come un fatto transitorio. E’ piuttosto vero il contrario. E’ tutta la politica di centralizzazione amministrativa che viene messa in discussione perché è diventata un ostacolo ad una più matura espressione del popolo delle nazioni sovietiche, che non sono ancora libere ed uguali fra di loro, come si era scritto nella prima Costituzione del 1918.
Inoltre, di decisiva importanza, non solo per l’URSS ma per il mondo intero, saranno le soluzioni istituzionali che verranno proposte per garantire all’umanità un disarmo generale e permanente. La tenace e lungimirante politica di pace di Gorbaciov ha cominciato a produrre frutti significativi. Dopo gli accordi di Washington del 1987 sulla eliminazione degli euromissili, sembra ragionevole parlare di una inversione di tendenza nei rapporti politici fra le due superpotenze rispetto ai tempi della guerra fredda e della corsa agli armamenti. Ma resta aperto in proposito il dubbio se sia sufficiente, nel mondo contemporaneo, una politica di pace che punti su una serie di accordi e trattati internazionali fra Stati, oppure non sia necessario agganciare i risultati di volta in volta acquisiti a vere e proprie istituzioni sovrannazionali dotate del potere necessario a far rispettare gli accordi sottoscritti dagli Stati. Ad esempio, Gorbaciov nell’articolo[48] scritto in occasione dell’apertura della quarantaduesima sessione dell’ONU (ma le stesse posizioni sono riprese nel suo libro Perestrojka) sostiene che è possibile un sistema di sicurezza collettiva «in concordanza con gli istituti esistenti per il mantenimento della pace» e puntando sulla «capacità degli Stati sovrani di assumersi i loro impegni nella sfera della sicurezza internazionale».
Il punto decisivo è qui la distinzione fra il processo verso una situazione di pace e le garanzie di una pace stabile. Mentre le proposte di Gorbaciov sembrano del tutto adeguate a promuovere un processo di pacificazione, in specie fra le due superpotenze, non sembrano affatto sufficienti a garantirne il mantenimento. Basta in proposito riflettere sul fatto che anche se USA e URSS si trovano d’accordo su una totale riduzione dei loro armamenti atomici, i buoni propositi non potranno essere attuati a meno che non si trovino d’accordo anche le altre potenze atomiche, comprese quelle che possono divenirlo in breve tempo, come la Cina, il Giappone, l’India, il Pakistan, Israele, l’Iran, ecc. Queste nuove potenze nucleari emergenti hanno interessi del tutto opposti a quelli di USA e URSS in termini di disarmo: esse possono assumere un ruolo significativo nella politica mondiale solo a patto di accrescere il loro potenziale bellico, non diminuirlo. Occorre in proposito osservare, come fa del resto Gorbaciov, che ormai i problemi della sicurezza collettiva sono strettamente collegati a quelli del sottosviluppo del Terzo mondo e del rischio di catastrofi ecologiche su scala planetaria. La gestione di questi decisivi problemi per il futuro dell’umanità diventa sempre più problematica, per non dire impossibile, attraverso la semplice cooperazione intergovernativa. In definitiva, le garanzie reciproche di sicurezza e la gestione di politiche comuni a livello mondiale richiedono un vero e proprio governo mondiale. E’ questa la logica soluzione proposta da Einstein quando si è posto il problema del futuro del genere umano nell’era atomica. Il movimento socialista internazionale non dovrebbe affatto essere impreparato a discutere prospettive — gli Stati Uniti del mondo — che già Lenin, Trotzky e Bucharin accettavano come un punto di arrivo del processo di emancipazione umana avviato dalla Rivoluzione del 1917.
Infine, nella prospettiva di una politica che miri al progressivo superamento dei blocchi militari, occorre considerare la situazione dell’Europa, dove si fronteggiano NATO e Patto di Varsavia. La cortina di ferro tra Europa occidentale ed orientale è un anacronismo storico. Ma mentre l’Europa occidentale è ormai avviata, dopo l’elezione del Parlamento europeo a suffragio universale, verso la trasformazione della Comunità europea in una federazione, con un proprio governo, una propria moneta ed una propria difesa, i paesi del COMECON non riescono a trovare nemmeno una formula efficace di integrazione economica, mettendo così seriamente a repentaglio le loro prospettive di crescita e la loro competitività con il sempre più dinamico mercato mondiale. Il COMECON, per ora, non rappresenta altro che la testimonianza più evidente dei limiti dell’internazionalismo socialista. Il futuro dei paesi europei dell’Est non dipende ormai più solo dai legami storici con l’URSS, ma anche dai rapporti economico-sociali con l’Europa occidentale. I recenti trattati di cooperazione fra Comunità europea e COMECON non sono che l’inizio di un processo. L’URSS avrebbe importanti vantaggi in termini di sicurezza e di sviluppo economico nel favorire una maggiore integrazione politica ed economica tra i paesi europei del COMECON, eventualmente riprendendo in esame la vecchia proposta di una federazione danubiana o balcanica. Lo scioglimento della NATO e del Patto di Varsavia potrà avvenire sulla base della trasformazione degli attuali vincoli militari in alleanze politiche fra eguali. La via di una federazione tra i paesi europei dell’Est non è naturalmente la sola praticabile. E’ certo tuttavia che in Europa devono cadere le assurde frontiere del passato. Solo allora, gli Europei, dell’Est e dell’Ovest, potranno pienamente contribuire alla costruzione di un mondo in cui siano finalmente garantite la giustizia internazionale e la pace.


[1] M. Gorbaciov, Perestrojka. Il nuovo pensiero per il nostro paese e per il mondo, Milano, Mondadori, 1987, p. 61.
[2] Ad esempio, Cari H. Pegg, nel suo documentatissimo volume, Evolution of the European Idea, 1914-1932, Chapel Hill and London, The University of North Carolina Press, 1983, non si occupa per nulla di questa controversia. Per contro, un accurato esame della questione si trova in L. Levi, Il Federalismo, Milano, Franco Angeli, 1987, cap. 14: «La componente federalistica della Rivoluzione russa e il socialismo in un solo paese».
[3] L.D. Trotzky, Der Krieg und die Internationale, Zurigo, 1914 (trad. it. Il fallimento della Seconda Internazionale, Città di Castello, Il Solco, 1921, p. 1).
[4] Ibidem, pp. 5-6. Occorre ricordare che queste posizioni di Trotzky non sono che il naturale sviluppo delle tesi elaborate a proposito della rivoluzione del 1905 e che rappresentano il nucleo della teoria della «rivoluzione permanente». Si deve infatti attribuire un doppio senso — sociale e internazionale — all’aggettivo «permanente» nella visione di Trotzky del processo rivoluzionario. Il primo consiste nel carattere socialista che avrebbe potuto assumere la rivoluzione contro lo zarismo, superando la cosiddetta rivoluzione borghese, che la dottrina classica del marxismo riteneva preliminare alla vera e propria rivoluzione proletaria. In ciò, Trotzky si trovava d’accordo con Lenin, che riteneva la borghesia russa incapace di reggere le sorti dello Stato senza il contributo decisivo dei partiti operai (alcune differenze fra Lenin e Trotzky, in particolare a proposito del ruolo dei contadini nella rivoluzione, sono state ingigantite in seguito da Stalin in funzione della lotta per il potere). Per queste ragioni in Russia, proprio causa della sua relativa arretratezza economica nei confronti dei paesi europei occidentali, diventava possibile per il proletariato la diretta conquista del potere. Ma il processo rivoluzionario iniziato in un paese arretrato non avrebbe potuto, per Trotzky, giungere a compimento se la rivoluzione non si fosse estesa ai paesi industrializzati. «Senza l’aiuto statale diretto del proletariato europeo — scrive Trotzky — la classe operaia russa non sarà in grado di rimanere al potere e trasformare il suo temporaneo governo in una stabile e duratura dittatura». Per queste ragioni, la classe operaia russa sarà costretta a sviluppare un’azione internazionale, per la liquidazione del capitalismo su scala mondiale, se non vorrà soccombere di fronte alle forze reazionarie della borghesia e dell’aristocrazia. La vittoria del proletariato in un paese risveglierà la coscienza del proletariato europeo e creerà una situazione favorevole alla rivoluzione mondiale. «Sarà precisamente la paura di una rivolta del proletariato che obbligherà i partiti borghesi, che votano somme strabilianti per le spese militari, a sognare camere di conciliazione internazionale, a dichiararsi solennemente per la pace, e anche per l’organizzazione degli Stati Uniti d’Europa — declamazioni miserevoli, che non possono eliminare l’antagonismo fra potenze, né i conflitti armati… La guerra europea inevitabilmente significa rivoluzione europea». (La citazione è tratta da I. Deutscher, The Prophet Armed. Trotzky: 1879-1921, Oxford, Oxford University Press, 1979, p. 158).
[5] L.D. Trotzky, op. cit., pp. 90-1.
[6] Ibidem, pp. 96-7.
[7] Ibidem, p. 106.
[8] Ibidem, p. 9.
[9] Ibidem, pp. 118-120.
[10] Ibidem, pp. 121-2.
[11] V.I. Lenin, «The Tasks of Revolutionary Social-Democracy in the European War», in J. Riddell (a cura di), Lenin’s Struggle for a Revolutionary International. Documents: 1907-1916. The Preparatory Years, New York, Monad Press, 1984, pp. 135-8. (D’ora in avanti questa raccolta di documenti sarà citata in forma abbreviata con la sigla: LSRI).
[12] «The War and Russian Social Democracy», in LSRI, cit., pp. 156-162.
[13] «Open Letter to the Editorial Board of ‘Kommunist’», in LSRI, cit.,p. 235.
[14] V.I. Lenin, «The Defeat of One’s Own Government in the Imperialist War», in LSRI, cit., pp. 166-170.
[15] La Dichiarazione congiunta e i resoconti stenografici del dibattito sono riportati in LSRI, cit., pp. 286-322. Per avere una idea sommaria del clima del dibattito, vale la pena di ricordare che il delegato francese Merrheim riscosse «entusiastici applausi» rivolgendosi a Lenin in questi termini: «Voi, compagno Lenin, siete solo interessato a porre le fondamenta di una nuova Internazionale, non alla domanda di pace. Questo è ciò che ci divide. Noi chiediamo un manifesto che faccia avanzare la lotta per la pace. Noi non vogliamo sottolineare ciò che ci divide, ma ciò che ci unisce» (p. 312).
[16] La risoluzione presentata dal groppo di Bucharin si trova in LSRI, cit., pp. 249-250. La citazione di Lenin è tratta dal resoconto del delegato Shldovsky — contrario alla parola d’ordine — alla conferenza di Berna. Il testo completo (riportato alle pp. 251-2 di LSRI, cit.) del resoconto citato è il seguente: «Le nostre obiezioni alla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa possono essere riassunte così: 1) nella fase imperialistica una vera democrazia è impossibile. Perciò, anche gli Stati Uniti d’Europa sono impossibili; 2) inoltre, essi sono impossibili a causa del conflitto di interessi dei paesi europei capitalistici; 3) se fossero costituiti, si formerebbero solo allo scopo di attaccare i più avanzati Stati Uniti d’America. Durante la discussione Ilych (Lenin) ci rispose che continuando sulla base del nostro ragionamento sarebbe stato necessario scartare tutta una serie di punti dal nostro programma minimo come impossibili nella fase imperialistica. Mentre è vero che una genuina democrazia può essere realizzata solo sulla base del socialismo, non possiamo scartare questi punti, disse. Inoltre, ci criticò per non aver discusso minimamente il lato economico del problema. Noi gli rispondemmo che la formazione degli Stati Uniti d’Europa nella fase imperialistica non avrebbe rappresentato la forma più elevata di democrazia ma una unione reazionaria dei paesi belligeranti — che erano incapaci di sopraffarsi vicendevolmente con la guerra — per la lotta contro l’America… Ilych convinse completamente la conferenza che votò unanimemente per le tesi. Ma egli non riuscì a convincere sé stesso. Quella notte si incontrò con il compagno Radek, che viveva a Berna ma non apparteneva al gruppo, e lo interrogò in dettaglio sulla opinione dei differenti compagni europei su questa questione. Quando la conferenza venne riconvocata il giorno seguente, Vladimir Ilych prese la parola e fece la seguente dichiarazione: ‘Sebbene ieri si sia presa una posizione definita a proposito degli Stati Uniti d’Europa’, disse, ‘tenendo conto del fatto che questa questione ha sollevato punti di vista differenti fra le nostre fila, ed inoltre che la discussione si è svolta unilateralmente ignorando il lato economico del problema, che resta poco chiaro, la questione non può essere considerata chiusa’. Egli inoltre parlò del suo incontro con Radek, che gli riferì che anche Rosa Luxemburg era contraria agli Stati Uniti d’Europa. Perciò propose di eliminare dalle tesi per il momento il punto riguardante gli Stati Uniti d’Europa e di aprire una discussione su questo problema nell’organo del Comitato Centrale (Sozial-Demokrat), dando speciale attenzione al lato economico del problema».
[17] LSRI, cit., pp. 257-260. Le sottolineature sono mie.
[18] La citazione è tratta dall’articolo di C. Dale Fuller, «Lenin’s Attitude toward an International Organisation for the Maintenance of Peace, 1914-1917», in Political Science Quarterly, 1949, pp. 245-261.
[19] V.I. Lenin, «Osservazioni critiche sulla questione nazionale», in L’autodecisione delle nazioni, Roma, Editori Riuniti, 1976, pp. 48-49.
[20] V.I. Lenin, «La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodecisione. Tesi», ibidem, pp. 131-2.
[21] LSRI, cit., pp. 347-8.
[22] Ora pubblicati in L.D. Trotzky, What is a Peace Program?, A Lanka Samasamaja Publication, 1956.
[23] Ibidem, pp. 11-12.
[24] Ibidem, pp. 14-16.
[25] Ibidem, pp. 17-19.
[26] Ibidem, pp. 16-17.
[27] N. Krupskaia, La mia vita con Lenin, Roma, Editori Riuniti, 1956, p. 294 e p. 299.
[28] A. Rosenberg, Storia del bolscevismo. Da Marx ai nostri giorni, Roma, Edizioni Leonardo, 1945, p. 81.
[29] Tutte le precedenti citazioni sono tratte da E.H. Carr, A History of Soviet Russia. The Bolschevik Revolution 1917-1923, Londra, Macmillan, 1953 (trad. it. La rivoluzione bolscevica, Torino, Einaudi, 1964, p. 914 e p. 918). Secondo Piero Melograni (Il mito della rivoluzione mondiale. Lenin tra ideologia e ragion di Stato 1917-1920, Bari, Laterza, 1985) Lenin, sin dal momento della fondazione dello Stato sovietico, non si fece illusioni sulla possibilità di una rivoluzione mondiale, anzi, da buon politico realista, si adoperò per spegnere le velleità rivoluzionarie del proletariato europeo e consentire così al potere sovietico di convivere in un mondo non troppo ostile. «I partiti socialisti della Germania e degli altri paesi industrializzati — afferma Melograni — erano profondamente diversi dal partito bolscevico. Erano più moderni e democratici. Se avessero conquistato il potere, avrebbero potuto fondare il loro potere su Stati assai più sviluppati e potenti dello Stato sovietico e questo loro potere avrebbe irrimediabilmente compromesso il ruolo egemonico esercitato dai bolscevichi sulla sinistra europea» (p. VIII). La III Internazionale sarebbe sorta «non per esportare la rivoluzione, ma esclusivamente allo scopo di difendere uno Stato» (p. X).
La tesi di Melograni non è convincente. E’ vero che sul terreno del realismo politico Lenin operò sin dal primo momento per consolidare il potere sovietico e che questa politica comportò compromessi continui coi governi «borghesi». Melograni documenta questo aspetto della politica leniniana in modo convincente. Ma non è che un aspetto di un programma politico ben più vasto. Che il baricentro della rivoluzione mondiale si potesse spostare nell’Europa occidentale era un fatto che Lenin accettava: ma questo non avrebbe implicato un automatico indebolimento della sua leadership sul movimento socialista internazionale. Tutto sarebbe dipeso dalla capacità del gruppo dirigente bolscevico di restare alla guida del processo innescato dalla formazione dei partiti comunisti europei. Non a caso Lenin parla di Repubblica Internazionale dei Soviet.
E’ inoltre vero che Lenin riconobbe ben presto che le possibilità di una rivoluzione vittoriosa in Europa erano poco fondate e che l’Internazionale doveva ripiegare su una strategia di lungo periodo. Ma su queste linee di azione si trovò d’accordo anche Trotzky (cfr. I. Deutscher, The Prophet Unarmed. Trotzky 1921-1929, Oxfold, Oxford University Press, 1982, p. 59), sebbene pochi anni dopo iniziasse una lotta implacabile contro la dottrina staliniana del socialismo in un paese solo. E’ solo a quel momento che l’Internazionale divenne un docile strumento dello Stato sovietico. Melograni dimentica che il pensiero e l’azione di Lenin, anche prima della presa del potere, erano fondati sull’ipotesi della rivoluzione mondiale. L’idea di una nuova Internazionale venne concepita, sia da Lenin che da Trotzky, sin dal 1914, quando la socialdemocrazia europea tradì ignobilmente gli ideali internazionalistici del socialismo. Anche la strategia della conquista del potere nel paese «anello più debole della catena» venne concepita come la via più breve verso la rivoluzione mondiale. Bisognerebbe cioè supporre che Lenin abbia sempre — prima e dopo la presa del potere — difeso l’idea della rivoluzione mondiale semplicemente come uno strumento per ingannare i suoi ingenui compagni di lotta. Ma a questo punto non ci troveremmo più di fronte ad un politico realista o machiavellico, ma ad un volgare impostore, anche se abilissimo. La vita e la devozione assoluta di Lenin per la causa del socialismo sembrano invece testimoniare il contrario.
[30] J. Degras, The Communist International 1919-1943. Documents, Londra, Oxford University Press, 1956 (trad. it. Storia dell’internazionale comunista attraverso i documenti ufficiali, Milano, Feltrinelli, 1975, vol. I, pp. 54-55).
[31] L.D. Trotzky, The First Five Years of the Communist International, Loodra, New Park Publications, 1973, vol. I, p. 32.
[32] E. H. Carr, op. cit., p. 1159.
[33] L.D. Trotzky, The First Five Years…, cit., p. 247.
[34] L.D. Trotzky, ibidem, p. 275.
[35] A. Agosti, La Terza Internazionale. Storia documentaria, Roma, Editori Riuniti, 1974, vol. II, p. 699.
[36] L.D. Trotzky, «Is the Slogan of ‘The United States of Europe’ a Timely One?», in The First Five Years…, cit., Vol. II, pp. 341-346. La visione politica di Trotzky, negli anni compresi fra il 1923 ed il 1926, è esposta più ampiamente nella raccolta di saggi Europa und Amerika, Berlino, Neuen Deutschen Verlages, 1926 (trad. it. Europa e America, Milano, Celuc Libri, 1980).
[37] J. Degras, op. cit., Vol. II della edizione italiana, p. 133.
[38] J. Degras, ibidem, p. 355.
[39] La citazione è tratta da E. H. Carr, A History of Soviet Russia. The lnterregnum, 1923-1924, Londra, Macmillan, 1954 (trad. it. La morte di Lenin. L’interregno 1923-1924, Torino, Einaudi, 1965, p. 335).
[40] Tutte le citazioni sono tratte dalla raccolta di saggi contenuta nel volume: La «rivoluzione permanente» e il socialismo in un paese solo (scritti di Bucharin, Stalin, Trotzky, Zinoviev), Roma, Editori Riuniti, 1973, pp. 184, 188, 190-195, 208.
[41] A. Agosti, op. cit., Vol. II, 2, p. 975.
[42] J. Degras, op. cit., Vol. II, p. 522.
[43] Ibidem, p. 549.
[44] Ibidem, p. 548 e pp. 528-9.
[45] L.D. Trotzky, The Third International after Lenin, New York, Pioneer Publishers, 1936 (trad. it. La III Internazionale dopo Lenin, Torino, Schwarz, 1957, p. 54).
[46] A.L. Unger, Constitutional Development in the USSR, Londra, Methuen, 1981, p. 49.
[47] G.V. Stalin, Opere complete, Roma, Edizioni Rinascita, 1951, vol. 3, p. 39.
[48] «Realtà e garanzie di una pace sicura», Prava e Izvestija, 17 settembre 1987.

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