IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXX, 1988, Numero 1, Pagina 46

 

 

CRESCITA SQUlLIBRATA E COMPLETAMENTO DEL MERCATO INTERNO: IL CASO DELLA POLITICA REGIONALE EUROPEA
 
 
La situazione economica e sociale delle regioni europee all’inizio degli anni Ottanta, quale emerge dalla seconda relazione periodica in materia pubblicata dalla Commissione,[1] conferma l’ampiezza dei divari fra le diverse realtà territoriali che compongono la Comunità.
Considerando l’indicatore sintetico dell’intensità dei problemi regionali, che tiene conto dei livelli del PIL per abitante e per occupato da un lato e del tasso di disoccupazione dall’altro, risulta che le regioni più arretrate si situano di massima al di sotto del 70% della media comunitaria. Si tratta delle regioni periferiche, soprattutto lungo l’asse Nord-ovest / Sud-est, che comprendono gran parte del territorio greco, il Mezzogiorno d’Italia, la Corsica, l’Irlanda, l’Irlanda del Nord e altre regioni situate al nord e all’ovest della Gran Bretagna e al centro dell’Italia e del Belgio, con una popolazione di circa 52 milioni di abitanti, pari al 19% della popolazione della Comunità. Escludendo dal quadro le regioni greche, i divari maggiori si riscontrano fra le situazioni estreme di Amburgo e della Calabria: mentre gli indicatori del PIL per abitante e per occupato di queste due regioni stanno in rapporto di 3 a 1, i livelli di disoccupazione si situano rispettivamente a circa la metà e a quasi il doppio della media comunitaria.
In termini più generali, poi, il confronto fra le dieci regioni più avanzate e le dieci regioni più arretrate mette in evidenza disparità di livelli di reddito (PIL per abitante) che si situano al di sopra e al di sotto del 50% della media CEE, nonché di tassi di disoccupazione globale che vanno dal 5 al 20% (dati al 1983).
Il dato più preoccupante è tuttavia un altro. Come risulta dall’esame della dinamica del reddito e dell’occupazione successivamente al primo shock petrolifero, i differenziali di sviluppo fra le regioni europee tendono a non diminuire e in molti casi si aggravano. Così, per tornare all’esempio delle due regioni situate agli estremi della gamma considerata, a fronte di un incremento della disoccupazione sostanzialmente analogo in termini percentuali, fra il 1973 e il 1979 il tasso d’incremento annuo del PIL per abitante della regione di Amburgo ammonta a circa il doppio di quello della Calabria, tanto che nel periodo 1975-1979 il rapporto fra i PIL pro capite delle due regioni sale da 5,1 a 6,4, se misurato in base a prezzi e a tassi di cambio costanti e da 3,3 a 3,9, se misurato in unità standard di potere d’acquisto.
Vengono confermate in tal modo le indicazioni contenute in numerosi studi circa gli effetti della crisi strutturale che ha colpito l’insieme dei paesi europei intorno alla metà degli anni Settanta, in seguito sia alle mutate ragioni di scambio nei confronti dei paesi esportatori di petrolio, sia al poderoso processo di riconversione delle industrie tradizionali, ancora in corso.[2]
In relazione alle condizioni delle regioni, la ristrutturazione e la crisi si sono tradotte in un tendenziale aggravarsi dei differenziali di crescita e di occupazione, e quindi degli squilibri fra i tenori di vita delle differenti popolazioni coinvolte nel processo d’integrazione dell’economia comunitaria.
Sotto un altro profilo, tutto ciò sottolinea l’incapacità della Comunità di gestire in modo appropriato la cosiddetta fase dell’integrazione positiva, dopo il completamento dell’unione doganale alla fine degli anni Sessanta, grazie all’eliminazione degli ostacoli tariffari al libero trasferimento dei prodotti al suo interno. In questo come in altri campi, i governi e la Commissione si sono rivelati incapaci di costruire delle politiche comuni all’altezza delle difficoltà dei tempi, e la risposta sostanzialmente nazionale fornita da ogni paese membro alle emergenze provocate dalla crisi economica e dalla ristrutturazione dell’industria su basi mondiali, ha ridotto ulteriormente la già scarsa omogeneità territoriale del tessuto produttivo europeo.
In effetti, mentre negli anni Cinquanta e Sessanta le disparità regionali si sono attenuate grazie principalmente ai forti incrementi di produttività registrati nelle regioni periferiche e alla convergenza delle economie nazionali, negli anni Settanta tale processo ha mutato di segno, a causa soprattutto delle evoluzioni divergenti dei tassi di cambio, delle produttività e dei prezzi settoriali. E ciò benché all’interno dei singoli paesi il processo di attenuazione dei divari interregionali sia proseguito.[3]
In altri termini, parrebbe che le cause fondamentali dell’aggravarsi degli squilibri fra le regioni europee vadano identificate nella mancata unificazione delle politiche del cambio e dei fattori, oltre che nell’assenza di una politica di riequilibrio territoriale europea, almeno altrettanto efficace di quella condotta dai singoli paesi membri alloro interno.
Questa conclusione di larga massima può costituire un utile punto di partenza per valutare l’ampiezza del compito cui si trova di fronte la Comunità nei prossimi anni, dopo il secondo ampliamento verso sud, che ha aumentato di circa un quinto la sua popolazione, ma di meno di un decimo il suo PIL. La gravità e la centralità del problema del riequilibrio territoriale all’interno della CEE dopo l’entrata delle regioni arretrate della Spagna e soprattutto del Portogallo, possono essere colte rammentando che nel nuovo contesto della Comunità allargata le regioni in cui il PIL per abitante è inferiore del 30% ed oltre rispetto alla media comunitaria raggruppano il doppio di popolazione nei confronti della CEE a dieci, e il rapporto fra il PIL pro capite misurato in Ecu della regione più avanzata, Amburgo, e quello della zona meno sviluppata, la regione portoghese di Vila Real Bragança, sale a 12 contro 1.
Di fronte a questa situazione, occorre chiedersi quali saranno gli effetti sull’evoluzione dei divari interregionali del progressivo completamento del mercato interno entro il 1992, secondo l’ambizioso quanto illusorio obiettivo contenuto nell’Atto Unico europeo.
Com’è noto, le disposizioni dell’Atto Unico, pur prevedendo il raggiungimento dell’integrazione economica completa entro la data indicata, lasciano immutati i meccanismi decisionali che hanno portato alla paralisi la Comunità e che impediscono l’emergere di una volontà e di una capacità autonoma di governo europea, mantenendo sostanzialmente intatto il potere di veto dei singoli paesi membri sulla conduzione delle politiche comuni.
Non occorre essere profeti per pronosticare il fallimento dell’obiettivo del completamento del mercato interno entro il 1992, come in passato non sono stati rispettati gli impegni dei governi di giungere all’unione economica e monetaria entro il 1980 o di passare alla seconda fase dello SME due anni dopo il suo avvio.
Come hanno ormai dimostrato ad abundantiam i numerosi studi in materia e come la lunga esperienza del funzionamento della Comunità insegna, l’integrazione economica completa richiede non soltanto la libera trasferibilità dei prodotti e dei fattori produttivi mobili, ma anche la concomitanza dell’unificazione monetaria e l’unità delle politiche relative ai prodotti e ai fattori, ciò che è impensabile senza una trasformazione profonda della CEE e l’esistenza di un vero governo dell’economia europea, indipendente dai condizionamenti dei governi nazionali.
Ammettendo pertanto che l’impraticabilità dell’obiettivo finale non comporti necessariamente l’insuccesso immediato dei singoli provvedimenti destinati a raggiungerlo in modo graduale, vediamo cosa potrebbe accadere in seguito all’adozione di misure comuni in settori cruciali per l’integrazione. Supponiamo che vengano adottati provvedimenti comuni nel campo della politica monetaria, sotto forma ad esempio di rinunce alla libertà dei paesi membri di governare l’offerta di moneta e di decidere l’evoluzione del tasso di cambio.
I nuovi vincoli cui dovrebbero sottostare i paesi membri comporterebbero accresciuti ostacoli nel processo di riequilibrio della bilancia dei pagamenti sia verso la Comunità, sia verso il resto del mondo, mentre aumenterebbero le difficoltà di scegliere un rapporto ottimale fra inflazione e disoccupazione, ipotizzando l’esistenza di un rapporto alternativo fra le due grandezze (curva di Phillips).
Se invece consideriamo provvedimenti di liberalizzazione nel settore dei movimenti di capitali, dovremo mettere in conto non solo difficoltà aggiuntive nel raggiungimento dell’equilibrio dei conti esteri, ma anche la possibilità che si abbiano trasferimenti di capitali verso le aree caratterizzate dai più elevati tassi di sviluppo.
Quella appena tratteggiata è un’analisi di prima approssimazione, ma sufficiente per mettere in luce come il completamento del mercato interno lungo le linee indicate dall’Atto Unico e in assenza di misure consistenti di riequilibrio, darebbe luogo ad un ulteriore aumento delle disparità fra le regioni centrali e le regioni periferiche della CEE, suscitando le resistenze di queste ultime nei confronti dei trasferimenti di competenze verso il livello europeo.[4]
Che questa non sia un’interpretazione infondata è dimostrato, tra l’altro, dalle reazioni delle autorità monetarie dei paesi a moneta debole dinanzi alla prospettiva di smantellare l’apparato protezionistico, che ostacola i movimenti di capitale con il resto della Comunità. In particolare, in Italia le proposte governative di adeguamento al principio della libera trasferibilità dei capitali nell’ambito CEE hanno suscitato le riserve della banca centrale ed anche di esperti che si professano europeisti.
Il fatto è che la Banca d’Italia, come a suo tempo aveva espresso parere sfavorevole a proposito dell’adesione dell’Italia allo SME, teme ora di perdere la capacità di controllo della politica monetaria, con conseguenze negative in ordine alla gestione dell’economia del paese. Senza contare che la rinuncia alle disposizioni che regolano i movimenti dei capitali potrebbe forse rendere più ardua la partecipazione dell’Italia e degli altri paesi a moneta debole allo SME, dato che — come hanno messo in luce Giavazzi e Giovannini — alcuni controlli dei flussi di fondi fra paesi sono stati specificamente utilizzati per sopportare i vincoli di appartenenza al sistema monetario stesso.[5] Se ciò fosse vero, si assisterebbe al paradosso di impedire i progressi verso la moneta europea in nome del mantenimento del grado di integrazione monetaria già raggiunto.
Come ogni paradosso, tale apparente contraddizione denuncia semplicemente un problema mal posto: in questo caso il tentativo di giungere alla moneta europea al di fuori del corretto contesto di unificazione dei mercati e delle politiche in cui va inserita l’esistenza di uno strumento monetario comune.
All’interno di un’unione economica e monetaria completa, le difficoltà che caratterizzano i processi d’integrazione per tappe non hanno più ragione di essere o risultano fortemente attenuate.
Nel caso specifico, le difficoltà dei paesi meno strutturalmente dotati a causa dei progressi verso il completamento del mercato interno, sia in ordine alla gestione delle loro economie, sia in ordine al probabile aggravarsi dei differenziali di sviluppo interregionali nei confronti dei paesi più avanzati, potrebbero essere superate da meccanismi di redistribuzione automatici di risorse, connessi con l’esistenza di un bilancio adeguato e di un sistema fiscale comunitario, secondo le indicazioni contenute nel Rapporto Mac Dougall.[6]
Naturalmente, la precondizione affinché l’Europa giunga a dotarsi di un sistema fiscale comune in grado di attuare un’efficace politica di riequilibrio territoriale, è costituita dalla trasformazione dell’attuale Comunità in Unione europea.
Al, di là dei possibili palliativi in termini di aumento delle risorse disponibili[7] e di ampliamento delle azioni decise in base a criteri europei e non nazionali, è questo il nodo di fondo che occorre sciogliere per avere una politica regionale europea in grado di far fronte alle sfide poste dall’obiettivo del completamento del mercato interno, in un contesto in cui un terzo dei cittadini europei vivono in regioni caratterizzate da elevata disoccupazione e bassi livelli di reddito.
 
Franco Praussello


[1] Commissione delle CE, Le regioni d’Europa, seconda relazione periodica sulla situazione e sull’evoluzione socio-economica delle regioni della Comunità, COM (84) 40 def., Bruxelles, 1984.
[2] Sugli effetti regionali della ristrutturazione dell’industria in Europa si veda D. Wadley, Restructuration régionale, OCDE, Paris, 1986.
[3] R. Camagni, R. Cappellin, «European Regional Growth and Policy Issues for the 1980s» in Built Environment, n. 7, 1981. Si vedano anche il lavoro di Wadley e il Cap. 7 del documento della Commissione, Le regioni d’Europa, già citati.
[4] Gli estensori dell’Atto Unico si rendono conto, a dire il vero, che l’instaurazione progressiva del mercato interno può comportare uno «sforzo» particolare da parte di «talune economie che presentano differenze di sviluppo» e prevedono che la Commissione possa proporre disposizioni particolari al riguardo. Il loro atteggiamento è tuttavia perfettamente in linea con le norme originarie del Trattato, che non propugnano una politica attiva di riduzione degli squilibri, ma si limitano a tollerare qualche deroga, a titolo eccezionale e transitorio, al principio del libero scambio, cui la filosofia generale della costruzione comunitaria si ispira. Precisa infatti l’ultimo comma dell’Art. 15 dell’Atto Unico che se le disposizioni particolari proposte dalla Commissione assumono la forma di deroghe, esse debbono avere carattere temporaneo e arrecare meno perturbazioni possibili al funzionamento del mercato comune». Si veda Commissione delle CE, «Atto Unico europeo», Bollettino CEE, suppl. n. 2, 1986.
[5] F. Giavazzi, A. Giovannini, «The EMS and the Dollar», in Economic Policy, n. 2, April 1986, ritengono che i controlli sui movimenti di capitale nell’ambito dello SME abbiano la funzione di consentire il funzionamento senza scosse del sistema e quindi di garantirne la sopravvivenza, pur pregiudicando ulteriori avanzamenti sulla via dell’integrazione monetaria.
[6] Commission des CE, Rapport du groupe de réflexion sur le rôle des finances publiques dans l’intégration européenne (Rapport Mac Dougall), Bruxelles, 1977.
[7] Rammentiamo che nel 1987 gli stanziamenti di bilancio del Fondo europeo di sviluppo regionale hanno superato i 3,3 miliardi di Ecu, pari al 9% del totale delle spese comunitarie.

 

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