IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXX, 1988, Numero 3, Pagina 203

 

 

REFERENDUM SULL’UNIONE EUROPEA E COSTITUZIONI NAZIONALI
 
 
Molti di coloro che si oppongono alla proposta di un referendum sull’Unione europea sostengono la sua incompatibilità con l’ordinamento costituzionale dell’uno o dell’altro Stato membro della Comunità.
La verità è che una decisione che comporti una rifondazione dello Stato, che abbia cioè una valenza costituente, non può essere presa che con il consenso del popolo, che del potere costituente è il titolare. E’ indubbio che si tratta di un consenso che in determinate circostanze può essere espresso anche in forme implicite, attraverso un ampio accordo tra le forze politiche che rappresentano il popolo sovrano. Ma è altrettanto indubbio che non ha senso interrogarsi sulla costituzionalità formale di una consultazione popolare che abbia come oggetto la creazione di una nuova comunità politica, cioè la riformulazione delle clausole essenziali del contratto sociale.
Ciò non significa che un referendum sull’Unione europea sia necessariamente conforme alla lettera di tutte le carte costituzionali degli Stati membri della Comunità. Significa che la legittimità della consultazione diretta del popolo su di un tema di natura costituente non si fonda sulla costituzione, ma su un principio di legalità più profondo, che fonda a sua volta la validità della costituzione.
Questo criterio è quello della sovranità popolare, che ha come sua espressione essenziale il potere costituente del popolo. Senza il riconoscimento di quest’ultimo — inteso non certo come finzione giuridica, ma come potere effettivo — il problema della legittimità della costituzione non può trovare soluzione se non attraverso il ricorso a costruzioni puramente formali, e comunque arbitrarie, come quella che consiste nel ricercare, fin quando è possibile, la fonte di legittimità di una costituzione in una costituzione anteriore, e poi in un’altra, fino a giungere a quell’entità misteriosa che Kelsen chiama la «norma fondamentale».
La verità è che, quando vengono posti in discussione i fondamenti stessi della convivenza civile, cioè quando viene rifondato lo Stato, si esce dall’ambito della revisione costituzionale, e la delega attribuita dal popolo, nell’esercizio del suo potere costituente, agli organi ai quali la costituzione ne attribuisce la competenza si deve considerare automaticamente estinta. In questi casi il popolo sovrano ricupera il suo potere originario di stabilire le clausole fondamentali del contratto sociale, senza di che il suo potere costituente si ridurrebbe a puro flatus vocis. Ciò vale in particolare nel caso della più profonda delle trasformazioni delle regole-base della convivenza civile: quella che investe l’ambito della comunità politica, e quindi la stessa identità di coloro che idealmente sottoscrivono il contratto sociale.
Vale del resto la pena di ricordare che, in coerenza con queste considerazioni, una parte autorevole della dottrina interpreta in senso restrittivo quelle norme costituzionali che, come l’art 24 della Grundgesetz e l’art. 11 della Costituzione italiana, prevedono espressamente la possibilità di cessioni di sovranità (Hoheitsrechte nella terminologia della Grundgesetz) da parte dello Stato ad istituzioni od organizzazioni interstatali, sostenendo che di fatto esse si riferiscono soltanto all’eventualità di trasferimenti di competenze rigorosamente delimitate, che comunque non diano luogo alla creazione di una nuova entità statale, anche se imperfetta.
Così come vale la pena di ricordare che la moderna sensibilità giuridica democratica tende a sottoporre all’approvazione diretta delle popolazioni interessate anche le modifiche della sfera di giurisdizione di livelli di governo subordinati, purché dotati di un grado di autonomia più o meno ampio, come gli Stati membri di una federazione, o addirittura le regioni amministrative in uno Stato unitario. È così che la Costituzione italiana prevede l’impiego dello strumento del referendum qualora si tratti di creare nuove regioni o di modificare i confini di quelle esistenti (art. 132), e che nella stessa Repubblica Federale di Germania ogni modifica del numero e dei confini dei Länder deve essere approvata con referendum (art. 29 della Grundgesetz).
Resta il fatto, di cui ho già fatto cenno, che l’avocazione a sé da parte del popolo del potere costituente può rimanere allo stato potenziale quando un ampio accordo tra le forze politiche rendesse superflua l’espressione diretta della volontà popolare. Ma ciò non toglie che: a) l’espressione diretta della volontà popolare relativamente ad una decisione di carattere costituente sia il modo giuridicamente più inattaccabile per sancirne la legittimità e che, b) in particolare, in una situazione come quella della Comunità, nella quale alla conclamata volontà degli uomini politici di realizzare l’Unione fa riscontro la perdurante assenza di risultati concreti, il ricorso alla consultazione diretta del popolo costituirebbe, politicamente, la via maestra per dare un impulso decisivo al processo.
Dichiarare oggi che si è per l’Unione europea ma contro il referendum significa quindi riconoscere implicitamente che si pensa all’Unione come ad una delle tante escogitazioni istituzionali di cui è costellata la storia del processo di integrazione, e che ripropongono in forme sempre diverse una sostanza che non muta mai: il carattere intergovernativo del meccanismo decisionale. Il che equivale a riconoscere che si è contro l’Unione.
 
Francesco Rossolillo

 

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