IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXX, 1988, Numero 1, Pagina 67

 

 

GIUSEPPE ANTONIO BORGESE
 
 
Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952), italiano di nascita, era un professore di letteratura presso l’Università di Chicago ed è stato un autorevole fautore del governo mondiale globale. Nel 1945, egli diede vita alla Commissione per elaborare una costituzione mondiale, a cui aderirono Robert M. Hutchins, Mortimer Adler, Richard McKeon, Reinhold Niebuhr, Rexford Tugwell e altri importanti docenti americani ed emigrati politici. Egli diede un contributo alla redazione della bozza che poi divenne il Progetto preliminare di una costituzione mondiale, elaborato dalla Commissione di Chicago (1948). Fu editore e direttore di Common Cause (1947-1951), il giornale della Commissione — allora il più importante e informato giornale del Movimento dei federalisti mondiali. Iniziò la sua attività politica nel World Movement for World Federal Government (che poi divenne World Association of World Federalists), sostenendo al Congresso di Stoccolma del 1949 un approccio costituzionale, ma opponendosi alla proposta ufficiosa, più rivoluzionaria, di una Convenzione dei popoli, caldeggiata dal parlamentare inglese Henry Usborne. Borgese diede un contributo sostanziale ad un’analisi dell’idea moderna di giustizia, che costituisse la base per un ordine legale mondiale accettabile sia per i capitalisti che per i comunisti e per il blocco emergente dei paesi coloniali. «La pace e la giustizia si affermano o precipitano insieme», era uno dei suoi grandi principi, che egli proclamò nel Preambolo del Progetto preliminare. Un altro suo principio, che richiamava l’imperativo kantiano, era: «Il governo mondiale è necessario, dunque è possibile».
Borgese aveva una profonda fiducia nella democrazia, propria di un uomo che aveva lottato tutta la vita contro il fascismo, e, dopo la vittoria degli Alleati sul fascismo, sul nazismo e sul militarismo giapponese, egli credette che l’umanità fosse pronta per la democrazia mondiale. La sua conoscenza della letteratura mondiale, l’esperienza delle due guerre e la sua presenza all’Università di Chicago, quando furono condotti i primi studi sull’energia atomica, lo convinsero che la guerra poteva e doveva essere abolita, e che un governo mondiale democratico e dotato di pieni e reali poteri per raggiungere la pace e la giustizia era storicamente necessario e politicamente possibile. Egli definì il Progetto preliminare per una costituzione mondiale una «proposta fatta alla storia… un mito, intendendo per mito ciò che, incarnando la fede e la speranza della propria era, è mediatore tra l’ideale e il reale, e spinge la mente all’azione».
Tutto il suo insegnamento, i suoi scritti poetici e l’attività politica che condusse verso la fine della sua vita mirarono a dimostrare che la creazione del governo mondiale globale, il solo che, a suo giudizio, poteva abolire effettivamente la guerra, era una direttiva praticabile di politica estera per tutti gli Stati alla metà del XX secolo. Egli giudicò la «guerra fredda» come una disputa sul significato essenziale della giustizia, sulla quale il governo mondiale, inevitabile e necessario, sarebbe stato basato. Borgese fu un vivace antagonista di Grenville Clark, il principale sostenitore del governo mondiale parziale (con poteri limitati al mantenimento della sicurezza internazionale), che il nostro autore definì uno «Stato di polizia mondiale, impossibile da istituire quanto nefasto se fosse stato attuabile»; fu inoltre un avversario di Reinhold Niebuhr, che presto si dissociò dalla Commissione e divenne il più influente difensore della politica statunitense di contenimento del comunismo. Niebuhr polemizzò, e lo fece con correttezza, contro il governo mondiale su alcuni giornali, come Foreign Affairs, sulla base della considerazione che esso presumeva l’esistenza di una comunità mondiale e non teneva conto del fatto che la natura umana è imperfetta, e Borgese gli sferrò un attacco personale, definendolo «una malalingua… fautore della guerra, anche se non del tutto guerrafondaio». Queste parole danno l’idea della personalità di Borgese, una personalità passionale, combattiva, polemica e spassionata.
Borgese oltraggiava, seccava, deliziava e offriva insegnamenti ai suoi lettori e ai suoi studenti. Di lui come insegnante a Chicago è stato detto: «Egli appare ai suoi studenti americani come una specie di condottiero benefico, che, senza volerlo, all’inizio li sbigottisce con i suoi modi stravaganti e la sua retorica appassionata, ma che presto si guadagna il loro profondo affetto e la loro gratitudine». Egli stimolava la gente: di tutti i sostenitori del governo mondiale del suo tempo, probabilmente solo Einstein, che usava metodi più moderati, ebbe un’influenza maggiore.
Il nostro autore nacque nel 1882 a Polizzi Generosa, un villaggio al centro della Sicilia. Il padre Antonio, un avvocato di provincia e un umanista, avvicinò il figlio alla poesia latina e alla letteratura classica. Giuseppe frequentò la scuola a Palermo e in seguito si iscrisse all’Università di Firenze, dove si laureò nel 1903. Sulla sua tesi di laurea, Storia della critica romantica in Italia, esercitò un grande influsso Benedetto Croce, che la fece pubblicare su La Critica (1904). Essa ebbe subito successo: fu definita «un capolavoro di analisi, di interpretazione e di esposizione» e fu spesso ristampata. Negli anni successivi Borgese fece tirocinio sia come critico letterario sia come scrittore a Napoli, Berlino e Torino. Si allontanò dal nazionalismo reazionario di Gabriele D’Annunzio, di cui fu seguace per un breve periodo, per aderire al liberalismo democratico nel 1909; in seguito insegnò letteratura tedesca presso l’Università di Roma (1910-1917) e di Milano (1917-1925) e continuò ad insegnare estetica e storia della critica in quest’ultima città dal 1926 al 1931. Nel corso di questi trent’anni sviluppò una teoria estetica radicalmente diversa da quella di Croce. Un’opera d’arte, secondo la sua Poetica della unità (1934), non è frutto di un’ispirazione primitiva e inconsapevole, ma è parte di un tutto organico, condiviso da ogni artista, che egli chiamò «Bibbia dell’umanità».
Durante la prima guerra mondiale, nel 1917, Borgese fu alla guida del Press and Propaganda Bureau of Italy, e l’anno successivo diresse la sezione italiana della delegazione interalleata a Londra. Più tardi scrisse: «Ho svolto ogni azione possibile in favore di un’Europa unita e democratica, in linea con i propositi di Wilson». Nel corso di questi anni Borgese scrisse una serie di articoli e libri, fra cui sono da segnalare, per la favorevole accoglienza ricevuta, il suo primo romanzo, Rubè (1921) e la raccolta di racconti brevi Pellegrino appassionato (1933), che egli definì «il più caro dei miei lavori creativi».
Nel 1931 , quando Mussolini richiese a tutti i professori italiani il giuramento di fedeltà allo Stato fascista, Borgese si trovava presso l’Università di California come visiting professor e non ritornò in Italia. «Andai in esilio, egli spiegò, quando ciò fu inevitabile e necessario». «Il fascismo voleva fagocitare ogni cosa… Io non volevo essere fagocitato e non volevo permettere che la mia coscienza lo fosse». Più tardi egli scrisse una lettera aperta a Mussolini: «Il mio domicilio può essere solo là dove sia permesso a uno scrittore di essere veramente tale, …dove esista la libertà indispensabile sia per la vita intellettuale sia per l’affermazione della giustizia». Dopo aver viaggiato parecchi anni durante la «grande depressione», per motivi di studio, nel 1936 Borgese fu invitato all’Università di Chicago. Nel 1938 divenne cittadino americano, perfezionò l’inglese «per dargli un accento romano», come disse il collega antropologo Robert Redfield, e successivamente sposò Elizabeth Veronica Mann, la figlia più giovane di Thomas Mann. Ella divenne autonomamente una attiva sostenitrice del governo mondiale e negli ultimi anni ha dato un sostanziale contributo alla «Legge dei mari».
Il percorso intellettuale di Borgese verso l’idea del governo mondiale si può così riassumere: pubblicò in inglese Goliath: The March of Fascism (1937), una storia critica di quell’epoca citata ancora oggi. Dopo la crisi di Monaco riunì Thomas Mann, Lewis Murnford, Herbert Agar, Reinhold Niebuhr e altri in quello che egli denominò un «consiglio di saggi», al fine di redigere un manifesto politico per la democrazia mondiale come sbocco della guerra, The City of Man (1940). Questo «consiglio» è stato in un certo senso precursore della successiva Committee to Frame a World Constitution. Nel 1943 Borgese ampliò lo stesso tema in Common Cause, titolo che fu ripreso per il giornale della Commissione. Due anni più tardi, dopo lo scoppio della bomba atomica, egli persuase il cancelliere Hutchins, convinto da allora che non ci sarebbe dovuta essere mai più un’altra guerra, a dare il suo appoggio alla Commissione. «Il coraggio intellettuale che ha rotto l’atomo», scrissero Borgese e McKeon, «dovrebbe essere mobilitato, in questa università, per unire il mondo».
In seguito, la Commissione di Chicago, in una Convenzione che assunse il compito di elaborare la costituzione mondiale, tenne tredici incontri fino alla metà del 1947. Essa discusse attentamente cinque progetti di costituzione mondiale, produsse 4.500 pagine di documenti — i World Federalist Papers, una splendida collezione (ora disponibile su microfilm presso la biblioteca Regenstein dell’Università di Chicago) contenente riflessioni profonde sul problema fondamentale dell’epoca — e avviò le pubblicazioni del giornale Common Cause. I World Federalist Papers e Common Cause sono certamente un valido punto di partenza per coloro che vogliono affrontare il problema del governo mondiale. Borgese e altri della Commissione furono allarmati dall’improvvisa rottura dell’alleanza russo-americana nata in tempo di guerra e dall’annuncio della politica di contenimento, polemizzarono sull’opposizione di Henry Wallace alla nuova politica di Truman, tentarono di dirigere l’esiguo ma combattivo Movimento federalista mondiale di allora, e si trovarono senza sostegno dopo l’inizio della guerra di Corea. Con la pubblicazione del penultimo numero di Common Cause (giugno 1951), si aprì un periodo difficile, dopo che Borgese annunciò la soppressione del giornale: «Secondo l’opinione prevalente, il dato di fatto più importante è che ci sono due mondi. Essi possono combattere fino in fondo oppure arrivare a un compromesso o a una tregua, ma non possono unirsi sotto il segno della pace». In quello stesso mese si tenne a Roma un incontro annuale del World Movement for World Federal Government, patrocinato dal Ministro degli Esteri italiano conte Carlo Sforza e a cui rivolse un discorso il papa Pio XII. Ma l’organizzazione conservatrice americana United World Federalists, si rifiutò di partecipare se fossero stati ammessi, anche come osservatori, i Partigiani della pace comunisti, e il Movimento per l’unione mondiale si divise sul problema del comunismo come si erano divise le nazioni. Borgese e sua moglie decisero addirittura di disertare l’incontro e ritornarono a Milano. L’anno successivo, a Firenze, il poeta e profeta della repubblica mondiale, stanco e deluso, morì. Ci rimangono quaranta libri, il suo testamento per l’umanità.
 
 
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UN SOLO MONDO E SETTE PROBLEMI [1]

 
 
L’idea di uno Stato mondiale, predicata da poeti e profeti nel corso dei secoli, ha ricevuto consensi senza precedenti dall’opinione pubblica occidentale dopo il 6 agosto 1945, la data di Hiroshima. L’impulso maggiore è stato dato dalla paura della guerra atomica… Perciò, in generale, il movimento per la fondazione di uno Stato mondiale ha prevalentemente mirato alla creazione di una organizzazione internazionale o sovrannazionale atta a garantire la nostra sicurezza.
…Se l’idea di una autorità mondiale per il controllo atomico senza alcun peso politico è una chimera, non lo è di meno il progetto di far funzionare l’ONU attraverso un’assemblea legislativa eletta dal popolo, nella quale l’ostacolo del veto sovietico possa essere superato da una nostra schiacciante maggioranza ottenuta attraverso manipolazioni.
In contrapposizione a questi deludenti palliativi, possiamo facilmente credere che un vero governo federale mondiale sia necessario e sia dunque possibile. Tuttavia, più siamo soddisfatti di una dichiarazione di fede così astratta e generica, più è probabile che la propaganda per il governo mondiale di per sé vada incontro a risposte sempre più deludenti, con il probabile risultato che essa acquisterebbe tra di noi il significato di una lusinga basata su false speranze e creerebbe negli altri un intrico di pugnaci sospetti.
Perciò, se l’idea del governo mondiale non deve essere screditata per una intera generazione, [abbiamo] il dovere di riflettere intensamente, cioè di affrontare correttamente questa idea e attestare la sua validità in termini chiari e organici. Se un simile tentativo fallisse, sarebbe vantaggioso capire e confessare candidamente che il governo mondiale, nelle attuali circostanze o in quelle prevedibili, è un pio desiderio, o un «mito» — e trarne le conseguenze.
Lo scopo politico di una costituzione mondiale, da sottoporre all’opinione pubblica di tutto il mondo, non deve spaventare o «ingannare» nessuno. I suoi fini e le sue conseguenze dovrebbero suscitare l’approvazione della maggioranza del genere umano, che, con convinzione, induca tutti a comprendere che la pace, attraverso la giustizia e un’autorità mondiale, è una proposta accettabile e desiderabile per ognuno.
Ma, nel momento in cui, dalla confortante sfera di una generica propaganda, arriviamo a formulare programmi specifici, prendiamo coscienza di quanto sia ripido il percorso. Il problema che deve affrontare chiunque progetti una costituzione mondiale è complesso. I suoi sette aspetti fondamentali, diversi anche se collegati, sono i seguenti.
 
Il problema razziale.
 
Se tutte le razze umane dovessero essere rappresentate nel governo mondiale in rapporto alla quantità dei loro appartenenti, la maggioranza assoluta spetterebbe all’insieme dei gruppi dell’Estremo Oriente. In tale caso il governo mondiale non si accorderebbe con la realtà attuale. E’ concepibile un sistema equo ed accettabile di rappresentanza ponderata? Su quali principi deve basarsi?
Può essere trovata una via di mezzo sulla base della quale ai popoli parlanti l’inglese (approssimativamente un decimo della popolazione della Terra) non sia assegnata una falsa maggioranza… e nello stesso tempo essi non siano sottomessi a gruppi che hanno una minore esperienza nel governo rappresentativo?
 
Il problema nazionale.
 
Se il nazionalismo è, come in effetti è, l’ostacolo principale sulla via verso lo Stato mondiale, e se gli Stati nazionali esistenti sono, come in effetti sono, il focolaio delle passioni nazionalistiche, i rappresentanti di un governo sovrannazionale possono essere eletti o scelti dagli attuali Stati nazionali e sedere insieme in assemblee e Consigli di cui fanno parte giganti e nani, Russi e Nicaraguensi? L’alternativa è l’elezione di rappresentanti di unità politiche di recente formazione (le regioni). Ciò potrebbe sembrare utopistico. Ma lo è davvero? Se fosse adottata l’alternativa regionale, come bisognerebbe ridisegnare la mappa del mondo…?
 
Il problema economico.
 
Nel capitalismo occidentale sono penetrati elementi di socialismo così come nel comunismo sovietico sono penetrati elementi di capitalismo. Ma un abisso troppo ampio separa i due sistemi perché si possa gettare un ponte fra di loro. Si può progettare una costituzione mondiale le cui leggi permettano ai due opposti sistemi di convivere pacificamente o di evolvere senza reciproci interventi aggressivi? Se questa possibilità esiste, dovrebbe essere esaminata dettagliatamente e in concreto.
 
Il problema ideologico.
 
Il linguaggio della democrazia è universale; ma la pratica della democrazia — che noi normalmente identifichiamo con il sistema parlamentare — è ristretta ad aree relativamente limitate. Si può progettare una costituzione mondiale nella quale il linguaggio universale della democrazia non rimanga un flatus vocis a meno che il governo mondiale non sia gravato dal compito impossibile di introdurre i nostri usi parlamentari ad esempio nell’Arabia Saudita o ad Haiti? Se questa possibilità esiste, si dovrebbe renderla manifesta senza ambiguità — e con proposte accettabili.
 
Il problema istituzionale.
 
Il potere legislativo del governo mondiale dovrebbe essere così predominante come si suppone che sia nelle democrazie occidentali? In ogni caso, l’assemblea legislativa mondiale dovrebbe essere unicamerale, bicamerale o pluricamerale? Il sistema elettorale dovrebbe essere uninominale o proporzionale? Dovrebbero essere ammesse rappresentanze sindacali o corporative? O quale altro progetto si potrebbe elaborare per evitare che uno Stato mondiale sia dominato da gruppi di pressione mondiali dietro lo schermo altisonante del «Parlamento dell’Uomo» di Tennyson? Sulla base di quali principi dovrebbero essere imposte le tasse federali? E come dovrebbero essere riscosse? Ci dovrebbe essere un Ente per la pianificazione e con quali poteri? Si dovrebbero creare un’area federale o un distretto? Dove? E una valuta federale? Bisognerebbe stabilire pesi e misure standard? Una lingua ufficiale? E quale? Il potere giudiziario dovrebbe essere investito di un’autorità maggiore o minore di quella della Corte suprema degli Stati Uniti? E il potere esecutivo dovrebbe essere più forte o più debole rispetto a quello degli USA? Se del potere esecutivo è investita una Commissione, come possiamo prevedere che esso avrà unità e prestigio? Ma se esso è nelle mani di una sola persona, come possiamo essere abbastanza sicuri che il Presidente mondiale sarà un capo, ma non un despota o un «uomo di paglia»? Questa è una rapida e incompleta esemplificazione delle questioni istituzionali.
 
Il problema etico-politico.
 
Supponendo che il mondo, in genere, non sia assolutamente interessato a sottoscrivere una polizza d’assicurazione contro una guerra atomica senza incassare premi adeguati, quali premi sono richiesti e quali sono disponibili? In altri termini, quale Carta dei diritti umani deve contenere la costituzione mondiale? E questa Carta dei diritti dovrebbe essere concepita come un ampliamento o una restrizione della Carta atlantica e delle «Quattro libertà». Delle «Quattro libertà», la più urgente per noi è la libertà dalla paura, che ha come obiettivi immediati la pace e la sicurezza, mentre quelle essenziali per il mondo esterno sono la libertà dal bisogno e la libertà dalla vergogna, ossia dal senso di inferiorità legato a problemi di razza o di casta. Senza queste due ultime, la pace e la sicurezza hanno uno scarso significato per la stragrande maggioranza del genere umano.
I nostri padri fondatori hanno potuto trascurare il problema dell’inferiorità razziale per tre o più generazioni. Essi pensavano — correttamente, nel quadro di una società poco estesa e in espansione — che il problema economico potesse essere affrontato adeguatamente dalla libera azione reciproca di iniziative concorrenziali; perciò la Carta dei diritti ha un contenuto esclusivamente politico.
La struttura di una società globale e le caratteristiche dell’età in cui viviamo sono molto differenti. Una Carta dei diritti mondiale dovrebbe necessariamente basarsi in larga misura sulle libertà razziali e sui diritti economici, col dovere complementare di astenersi dalla guerra. La democrazia non dovrebbe essere più un meccanismo che difende gli individui dalle ingerenze dello Stato, ma dovrebbe tutelarli assumendosi il compito di pianificare e realizzare il benessere attraverso l’intervento attivo dello Stato mondiale.
Può una simile Carta mondiale dei diritti essere progettata? Può essere messa in pratica senza, non solo limitare le sovranità nazionali, ma anche ridurre drasticamente le libertà individuali e nazionali? Non intaccherebbe il principio di autodeterminazione in questioni, ad esempio, di immigrazione e di tariffe?
Questo è il dissidio cruciale fra «massimalisti», che mirano all’affermazione della giustizia in uno Stato mondiale come fondamento della pace, e i «minimalisti», che vogliono un mondo basato sulla sicurezza e avviato progressivamente verso una doverosa affermazione della giustizia.
 
Il problema militare.
 
Supponendo che possa essere raggiunto un livello al quale il nostro bisogno di sicurezza e la domanda di sviluppo degli altri popoli (diversamente chiamato «giustizia») trovino un punto d’incontro, quali mezzi tecnici e legali dovrebbero e possono essere approntati affinché sia assicurato il monopolio e il controllo delle armi distruttive da parte dello Stato mondiale? Questa è la principale questione che divide gli scienziati atomici dai costituzionalisti mondiali. I primi — insieme a quegli uomini politici… che sono diventati sostenitori del loro pensiero — premono per un controllo internazionale delle armi atomiche come primo passo preliminare dall’attuale situazione di anarchia fra gli Stati a uno Stato mondiale sovrannazionale. I costituzionalisti mondiali ritengono invece che il controllo delle armi atomiche a tutti i livelli possa essere realizzato solo dallo Stato mondiale e sia la somma manifestazione del suo potere, non la premessa o il mezzo che ne permetterebbe la creazione.
 
Se fosse disponibile un progetto plausibile di Stato mondiale, si potrebbe con qualche speranza prevedere che tutti coloro che si dichiarano «neutrali» lo appoggerebbero. Questi… sono disarmati e quasi del tutto privi di risorse e nondimeno costituiscono i quattro quinti del genere umano. Le maggiori difficoltà riguardano l’altro quinto, o, più precisamente, riguardano Russia e America, i due giganti sovrani… Una misera — e subito ritrattata — promessa, come la Carta atlantica, non è rimasta senza conseguenze sul corso degli eventi. Si può sperare che una promessa migliore — e che non sia ritrattata — sarebbe uno strumento molto valido per il mantenimento e il progresso verso la pace, o comunque per porre le fondamenta di una Casa dell’Uomo che sia vivibile, quando usciremo dalle rovine della nostra era.
 
 
 
STRUTTURA DI UNA COSTITUZIONE [2]
 
 
Una costituzione, ogni costituzione, rappresenta tre cose in una. E’ un manifesto o una proclamazione di principi. E’ un organismo politico. E’ un meccanismo giuridico.
In quanto manifesto o proclamazione di principi — quindi in quanto teoria — il progetto preliminare che oggi sottoponiamo alla pubblica e comune valutazione è basato su una convinzione fondamentale, che si articola in quattro punti:
a) la guerra deve e può essere messa fuori legge e la pace può e deve essere realizzata universalmente;
b) il governo mondiale è l’unica alternativa alla distruzione del mondo;
c) «il governo mondiale è necessario, perciò è possibile»;
d) la premessa del governo mondiale e della pace è la giustizia.
La giustizia, a sua volta, è un’idea eterna ed universale, le cui manifestazioni storiche e le cui esigenze hanno assunto caratteristiche via via diverse a seconda delle epoche.
Le richieste di giustizia che emergono nella nostra epoca presentano due aspetti essenziali. Uno è l’aspetto sociale ed economico, nel senso che ogni dichiarazione dei diritti (e dei doveri) civili e politici individuali deve essere completata e resa efficace attraverso un’adeguata dichiarazione dei diritti (e dei doveri) economici. L’altro aspetto, ugualmente molto importante, è quello razziale, nel senso che ogni barriera di questo genere deve essere abbattuta e deve affermarsi, con un atto di volontà, la razza umana civilizzata, una sola razza, al di sopra e al di là di qualsiasi distinzione tribale tra popoli eletti e schiavi, tra razze superiori e derelitti…
In quanto il progetto è un organismo, cioè un sistema di leggi costituzionali, i suoi organi e le sue funzioni sono stati ispirati da un insieme di convinzioni sul trend e sulle necessità dell’evoluzione storica nella fase di cui noi siamo testimoni… Si ritiene (ed è un’opinione sostenuta oggi praticamente a tutti i livelli di pensiero e di progettazione politica) che il cosiddetto Stato-nazione sia per definizione e per sua natura il nemico e l’antagonista dello Stato mondiale… Dunque, se una costituzione mondiale vuole essere accettabile e nello stesso tempo realizzabile, essa deve mantenersi nel giusto mezzo, prevedendo la sopravvivenza degli Stati esistenti (in una struttura che garantisca delle iniziative e una autorità locali), privati, però, delle funzioni e dei poteri che sono fondamentali per il governo mondiale e che non possono essere affidati a entità portate per natura e per tradizione a distruggere, se ne avessero l’opportunità, qualsiasi unione mondiale (come hanno distrutto la Società delle Nazioni e quasi paralizzato l’ONU). Gli autori del progetto preliminare hanno ritenuto che una via di mezzo potrebbe consistere in un sistema elettorale fondato su nove collegi regionali…
Il secondo postulato che sembra essere molto importante per una costituzione mondiale in quanto organismo si riferisce alla democrazia, al sistema rappresentativo e al ruolo dell’esecutivo al loro interno… Per evitare pericoli come una paralisi del sistema parlamentare e l’usurpazione del potere da parte dei «capi», l’esecutivo dovrebbe essere responsabile, ma forte; o meglio, dovrebbe essere forte, ma responsabile e soggetto, nell’esercizio di un legittimo e ampio potere, a controlli e freni, la cui elusione dovrebbe essere impedita da uno stabile equilibrio nella struttura — elettorale, legislativa, giudiziaria, militare — dello Stato mondiale… Ovviamente, i provvedimenti relativi al meccanismo giudiziario e procedurale (quote di rappresentanza, dimensione delle maggioranze, numero e permanenza in carica dei funzionari, veti, emendamenti, ecc.) in una costituzione mondiale, in ogni costituzione, sono gli argomenti più aperti al dibattito e a soluzioni alternative e cambiamenti.
 
 
 
Da FOUNDATIONS OF THE WORLD REPUBLIC [3]
 
 
Non esiste una comunità mondiale, dunque non può esistere un governo mondiale. Se ciò fosse vero, il problema del governo mondiale sarebbe risolto ora e per sempre. Nell’epoca attuale esso è impossibile perché non esiste una comunità mondiale; ma, se sorgesse una comunità mondiale del tutto in grado di gestirsi, un governo, nel senso comune del termine, sarebbe superfluo. La fratellanza fra gli uomini, basata sulla giustizia e sulla libertà, renderebbe inutili giudici e sceriffi.
La storia, se la si esamina correttamente, non insegna che un governo, uno Stato, sorgono quando la corrispondente comunità è del tutto formata. Essa insegna, invece, che un governo, uno Stato, si incontrano a metà strada con i bisogni di una comunità in formazione, che essi nascono nel momento critico in cui una comunità in fieri richiede un modello, l’impronta della legge per plasmare la sua ulteriore maturazione (p. 25).
 
***
 
L’età delle nazioni è davvero superata, ma le nazioni sopravvivono: è questa una contraddizione in termini che si può capire non appena richiamiamo alla memoria analoghi processi di evoluzione di altri organismi sociali, come la famiglia o la città. L’era del matriarcato e del patriarcato è scomparsa, ma la famiglia è rimasta. E’ scomparsa la città-Stato come sede del potere su uno spazio sovraffollato che i cittadini sovrani abbracciavano completamente con lo sguardo; ma questo declino non ha implicato l’estinzione della città, nonostante il suo ruolo si sia ridotto a quello di municipalità (p. 71).
 
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«Le idee dei massimalisti (ha scritto un critico) hanno un valido fondamento, penso, quando affermano che la maggior parte dei popoli del mondo non accetterà alcun governo mondiale se non è convinta che esso sosterrà le sue idee di giustizia; ciò vale sia per gli Indiani e i Cinesi che per i Russi e gli Americani. Ciascun gruppo vorrà evitare un certo tipo di ingiustizia — gli Americani, la guerra e il totalitarismo; i Russi la libertà senza garanzie sociali; gli Indiani e i Cinesi i pregiudizi razziali e le ineguaglianze economiche. Tutti, persino i Russi, sono favorevoli a un mondo unico alle proprie condizioni, e ognuno considera giuste le proprie».
Ma pensano o affermano forse gli Americani che la libertà senza garanzie sociali e il pregiudizio razziale siano giusti? E i Russi predicano forse l’ineguaglianza e la guerra? Gli Indiani sostengono il totalitarismo e i Cinesi la libertà senza l’uguaglianza sociale? La verità è che ciascuna di queste forme di giustizia che si presumono distinte si sovrappone e si integra con le altre, poiché nessuna radicale contrapposizione di dottrine fra i governi è sopravvissuta alla catastrofe nazi-fascista del 1945…
La confusione che sorge dall’introduzione del sentimento nel concetto già ben chiaro di giustizia come insieme di regole può essere superata solo con la fiducia nel fatto che il genere umano è impegnato in un’impresa cosmica, che rende infinitamente preziosa ogni singola persona e richiede che ogni individuo sia integrato nella società globale, così come questa, la comunità mondiale, deve compenetrarsi in ogni individuo. Così, il nostro scopo, simile a quello degli stormi di uccelli migratori, ci chiama a raccolta per stringerci e rispettarci a vicenda; o meglio, come è stato detto, per «amarci l’un l’altro» (pp. 250, 252).
 
(a cura di Joseph Preston Baratta)


[1] Da Common Cause, 1, Luglio 1947.
[2] Da Common Cause, 1, marzo 1948.
[3] Chicago, University of Chicago Press, 1953.

 

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