IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno LI, 2009, Numero 3, Pagina 149

 

 

La pace nell’era della globalizzazione
 
 
Tutti vogliono la pace, ma all’atto pratico la politica, anche quando si esprime ai massimi livelli di responsabilità di governo, non è in grado di individuare una prospettiva di azione che porti all’abolizione della guerra. A questa contraddizione non è sfuggito neppure il Presidente degli Stati Uniti d’America Barack Obama: nel ricevere il premio Nobel per la pace del 2009 egli si è sentito in dovere di pronunciare un discorso con il quale, in definitiva, ha giustificato il ricorso alle armi da parte del governo americano. Già in apertura, per evitare malintesi sul significato dell’accettazione del premio, il Presidente Obama ha voluto ricordare di parlare anche in qualità di Comandante in Capo di un esercito che sta combattendo due guerre.
Per molti americani, queste parole non sono certamente giunte inaspettate. Infatti a Oslo il Presidente degli Stati Uniti ha ribadito per una platea mondiale quanto aveva già affermato a Chicago nel 2002 nel corso di una manifestazione contro la guerra in Iraq. In quell’occasione, l’allora Senatore Obama aveva chiarito che essere contro quella guerra non significava per gli americani essere contro tutte le guerre: «I don’t oppose all wars» aveva ripetuto più volte nel corso del suo intervento.
Non deve sorprendere che il Presidente degli Stati Uniti sostenga simili posizioni, che del resto la maggior parte degli americani ha mostrato di condividere. Ma deve far riflettere il fatto che, a quasi settant’anni dall’ingresso dell’umanità nell’era atomica, e nonostante gli enormi progressi compiuti sulla strada dell’aumento dell’interdipendenza globale, volere la pace continui a significare — e non certo solo per gli Stati Uniti — prepararsi alla guerra. La cultura sembra impotente di fronte all’analisi delle cause che conducono alla guerra, delle contraddizioni generate dalla politica di potenza e della possibilità di costruire la pace. Ecco come Reinhold Niebuhr — un acuto filosofo del secolo scorso che merita di essere citato tra gli altri in quanto il Presidente Obama, in diverse interviste, ha dichiarato di averlo studiato e di volersi ispirare al suo pensiero — nell’introduzione di una delle sue opere principali, The Irony of American History, nel 1952, sintetizzava la situazione di fronte alla quale si trovavano gli americani: «La nostra civiltà deve essere pronta ad usare le armi atomiche per impedire un conflitto. Essa sa che brandire questa minaccia potrebbe alla fine rendere inevitabile il conflitto, ma sa anche che deve continuare a brandirla… La nostra epoca è condannata a vivere nell’ironia, troppi sogni sono stati crudelmente smentiti dalla storia… Nonostante abbiamo responsabilità mondiali e la nostra debolezza si sia trasformata in forza, la nostra cultura ignora come la potenza possa essere usata e quanto se ne possa abusare. Ma la realtà ultima è che dobbiamo usare la potenza su scala globale».
Dopo oltre mezzo secolo, la rassegnata accettazione della realtà che si legge in queste parole riecheggia nel monito che il Presidente Obama ha rivolto da Oslo all’opinione pubblica mondiale, quando ha sostenuto che l’abolizione della guerra non è all’ordine del giorno nella nostra epoca: «Dobbiamo riconoscere la dura verità che non sradicheremo i conflitti violenti durante la vita che ci è dato vivere. Ci saranno sempre momenti in cui gli Stati — agendo da soli o di concerto fra loro — troveranno l’uso della forza non solo necessario, ma anche moralmente giustificato».
Una simile ammissione non è priva di conseguenze pratiche. Infatti, accettare l’ineluttabilità della guerra, quando si fa politica, e a maggior ragione quando si governa, implica giustificarne il ricorso e renderla moralmente accettabile a chi deve sopportarne i costi. Questo è quanto in effetti ha dovuto fare il Presidente Obama nel suo intervento, in cui ha sostenuto che la guerra è giustificabile «quando soddisfa certe pre-condizioni: se viene condotta come estrema risorsa; per auto-difesa; se l’uso della forza è proporzionale all’offesa subita; se i civili, ogniqualvolta è possibile, vengono risparmiati dalla violenza»; e che il ricorso alla guerra resta una opzione sempre percorribile da parte di uno Stato, in quanto «Io, come qualsiasi capo di Stato, devo riservarmi il diritto di agire unilateralmente se necessario per difendere la mia nazione». Infine, citando il Presidente Kennedy, ha ricordato che una «pace più pratica e meglio raggiungibile richiede una graduale evoluzione delle ‘istituzioni umane’» (di cui il primo passo dovrebbe consistere, secondo il Presidente Obama, nella condivisione fra gli Stati degli «standard che governano l’uso della forza») e che nell’era della globalizzazione, nonostante si possa pensare che il mondo offra sempre maggiori occasioni di cooperazione ed integrazione tra i popoli, «a volte si ha l’impressione che si stiano invece facendo dei passi indietro».
Tutto ciò conferma, qualora ce ne fosse bisogno, che nonostante il cambiamento rappresentato dall’elezione di Barack Obama alla Presidenza degli Stati Uniti, è al momento impensabile che la politica estera e di difesa di questa superpotenza cambi radicalmente rotta. E’ anzi prevedibile che gli USA cerchino di mantenere il più a lungo possibile un ruolo di leadership in campo tecnologico-militare e che, nonostante le proposte di eliminare le armi nucleari avanzate nella primavera scorsa dal Presidente Obama, essi non rinuncino a sviluppare il loro potenziale difensivo in campo nucleare e convenzionale.
 
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Fatte queste considerazioni, non può non colpire il fatto che, ad oltre vent’anni dalla fine della guerra fredda, il discorso di Oslo del Presidente Obama non regga minimamente il confronto, né nella forma né nella sostanza, con il breve messaggio che Michail Gorbaciov inviò nel 1990 al Comitato del Premio Nobel per la Pace per confermare la sua accettazione del premio. Vale la pena ricordare che allora Gorbaciov era ancora il Presidente della superpotenza sovietica e che aveva in quel momento responsabilità del tutto paragonabili, se non superiori, a quelle dell’attuale Presidente americano. In un passaggio chiave di quel breve messaggio si può leggere: «Kant aveva visto che un giorno l’umanità avrebbe dovuto scegliere tra unirsi in una vera unione di Stati o perire in una guerra che avrebbe significato la fine della razza umana. Mentre ci accingiamo ad entrare in un nuovo millennio, è giunta per noi l’ora della verità». Come mai oggi nessuno avrebbe più il coraggio di pronunciare queste parole?
Se non si vuole rimanere prigionieri dell’idea superficiale e ingenua secondo cui la situazione potrebbe essere diversa oggi se alla testa degli Stati Uniti — o di qualche altra potenza — ci fosse un uomo della Provvidenza, è bene non cadere nell’illusione che le grandi svolte in campo internazionale dipendano soprattutto dai comportamenti dei singoli e dai rapporti personali tra chi governa gli Stati. Non si tratta evidentemente di sminuire o negare l’importanza che hanno gli individui nel contribuire a costruire la storia, ma semplicemente di riconoscere che le decisioni cruciali dipendono anche ma non solo dalla loro opera. In particolare, la scelta di fare la guerra o di costruire la pace non è imputabile a singole persone isolate dal contesto storico-politico e sociale in cui si trovano ad agire. In realtà, come ha osservato Mario Albertini, quando è in gioco il destino di un popolo le decisioni cruciali non riguardano mai i soli uomini di Stato, bensì «un gruppo che non si può designare nemmeno con la parola ‘governo’, tanto lo sovrasta, ma solo con la parola ‘Stato’, e solo quando essa è comprensiva anche del concetto di ‘società civile’, vale a dire il gruppo formato dalla relazione sociale che ha sempre costituito, dall’inizio della storia, la massima garanzia di responsabilità nel controllo della condotta umana» (La difesa dell’Europa e il significato delle armi nucleari, in Le Fédéraliste, VI, 1964). Quindi, di norma, le decisioni degli uomini di governo, soprattutto e a maggior ragione nel caso di Stati che per motivi storici e politici hanno maggiori responsabilità nella gestione degli affari mondiali, sono tendenzialmente sempre subordinate al confronto sia con il gruppo di tutte le persone che hanno un interesse vitale nella decisione da prendere, sia con l’esperienza storica fatta o subita. Il passaggio di un rapporto al Congresso degli Stati Uniti del febbraio 1971 dell’allora Presidente degli Stati Uniti Richard Nixon, offre nella fattispecie una testimonianza illuminante della forza pratica di questo vincolo (e indirettamente della intrinseca necessità della continuità nella politica americana). Quando è in gioco la sicurezza di un popolo, spiegava Nixon, «ogni Amministrazione è semplicemente l’anello di una catena», sia nella formazione delle decisioni sia temporalmente, in quanto «essa eredita la forza in essere della nazione. Sono infatti le politiche decise dalle Amministrazioni precedenti che determinano i margini di manovra di quelle future». E così proseguiva: «Sono del tutto consapevole che le mie decisioni per quanto concerne la politica della difesa influenzeranno profondamente l’azione di chi mi succederà. Non posso che riconoscere la mia ignoranza, la mia attuale possibilità di presagire solo in modo imperfetto, e quindi in sostanza di non conoscere, la portata delle crisi che chi seguirà dovrà affrontare. Qui ed ora devo limitarmi ad essere un forte anello della catena».
Con ciò abbiamo elementi sufficienti per comprendere, se non addirittura per giustificare, perché anche il Presidente Obama non può che agire come l’attuale anello della lunga catena che lega il passato con il futuro della sicurezza degli Stati Uniti. E in quanto tale egli non può ignorare l’esistenza del rischio, confermata tra l’altro dal fatto che il suo paese è già in guerra, di dover ancora ricorrere o reagire ad una prova di forza in campo internazionale. Che questa preoccupazione sia fondata trova del resto conferma non solo nell’impetuosa e apparentemente incontrollabile ascesa di nuove potenze a livello mondiale, ma anche nell’oggettiva difficoltà che incontra chiunque sia animato dalla buona intenzione e dalla buona volontà di promuovere, in questa fase storica, se non l’abolizione della guerra, almeno una credibile agenda per il disarmo — nella consapevolezza che il disarmo, di per sé, non può portare automaticamente alla pace mondiale, ma anche che se fosse seriamente promosso e condiviso potrebbe favorire l’instaurazione di quel clima di maggior fiducia reciproca fra gli Stati, indispensabile per promuovere la creazione di un governo mondiale più cooperativo sul terreno della sicurezza internazionale. Un’ennesima prova di questa difficoltà è venuta dalla pubblicazione, solo qualche settimana prima del discorso del Presidente Obama, del rapporto dell’International Commission on Nuclear Non-Proliferation and Disarmament, la commissione intergovernativa co-presieduta dall’australiano Gareth Evans e dal giapponese Yoriko Kawaguchi. Questo rapporto, commissionato in vista della ripresa nel 2010 dei negoziati sulla revisione del Trattato di Non-Proliferazione, conferma quanto sarebbe pericoloso continuare ad illudersi di fondare la sicurezza globale sul mantenimento dello status quo degli equilibri di forza in campo nucleare e convenzionale. Tenendo conto di questo rischio, il rapporto propone ai paesi che hanno già aderito al Trattato di Non-Proliferazione di approvare entro il 2012 un ambizioso piano per la minimizzazione dei rischi collegati alla proliferazione nucleare, riducendo gli arsenali a meno del dieci per cento di quelli esistenti e stabilendo un calendario definito e vincolante per procedere, a partire dal 2025, alla definitiva abolizione delle armi di distruzione di massa. Il problema è che un simile processo, come ammoniscono gli stessi estensori del rapporto, è destinato a rimanere sulla carta, se non verrà nel contempo affrontato e risolto il problema della sicurezza su scala regionale anche in campo convenzionale. Infatti, «se non si farà tutto il possibile per risolvere i vari ‘dilemmi’ regionali nel campo della sicurezza e quindi per riequilibrare gli schieramenti convenzionali, gli USA, la Russia e la Cina non potranno accordarsi su alcun piano di minimizzazione — per non dire di abolizione — delle armi nucleari» (par. 6.16). Questo perché, come spiega il rapporto, a fronte di una riduzione del rischio dell’impiego delle armi nucleari fra potenze nucleari, dovuta all’inaccettabilità dei danni umani e materiali collegati ad un loro eventuale impiego diretto, si è assistito negli ultimi anni ad una preoccupante rivalutazione del ruolo delle armi convenzionali nella difesa di alcuni Stati: «Non possiamo sottovalutare le preoccupazioni espresse dalla Russia, dalla Cina e da altri Stati, a proposito del fatto che un mondo senza armi nucleari, o con un numero molto ridotto di esse, aggraverebbe il loro grado di inferiorità nei confronti della potenza convenzionale di cui dispongono gli USA. E’ un’ironia della sorte il fatto che mentre una crescente valorizzazione degli arsenali convenzionali gioca a favore del disarmo nucleare americano, questo stesso fenomeno è visto con sospetto altrove. Ed è sempre un’ironia della sorte, che mentre in passato, durante la guerra fredda, fu la superiorità in campo convenzionale dell’URSS a dare impulso all’escalation degli arsenali nucleari americani per difendere l’Europa, oggi la Russia teme la superiorità convenzionale degli occidentali ai suoi confini. Per questo occorrerebbe: 1) rivedere il Trattato sullo spiegamento delle forze convenzionali in Europa, negoziato durante gli ultimi anni della guerra fredda ed entrato in vigore nel 1999…; 2) tenere conto delle preoccupazioni di Russia e Cina a proposito dell’espansione dei sistemi missilistici convenzionali degli Stati Uniti, che mettono questi ultimi in una condizione di superiorità strategica, dotandoli della possibilità di sferrare il primo colpo riducendo i rischi di ritorsione» (par. 18.3).
Se queste osservazioni hanno un senso — e per i governi ce l’hanno nella misura in cui devono programmare per tempo investimenti consistenti e stringere alleanze internazionali adeguate ai loro interessi —, non siamo alla vigilia di una stagione pacifica nell’evoluzione dei rapporti internazionali e nel modo di gestirli. Questi dati infatti confermano la necessità per ogni Stato, e a maggior ragione per le vecchie e nuove potenze, di non escludere per il prevedibile futuro la prospettiva dell’uso, o della minaccia dell’uso, della forza; e implicano che ogni paese debba continuare ad organizzare i rapporti all’interno e verso l’esterno con lo scopo precipuo di dotarsi dei mezzi adeguati per salvaguardare la propria sopravvivenza. In definitiva, il fatto che gli attori internazionali ed i loro interessi geopolitici stiano cambiando, come pure stanno cambiando le dottrine militari in relazione ai nuovi mezzi distruttivi di cui dispongono gli Stati, non ha modificato la natura demoniaca della logica di potenza. E’ accettabile abbandonare il governo del mondo a questa logica? Certamente nessun individuo ragionevole lo farebbe.
 
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L’umanità deve dunque scegliere. Può continuare a convivere con la prospettiva, che tutti ritengono irragionevole, di correre i gravi rischi di auto-distruzione impliciti nel mantenimento della guerra nella storia. Oppure può incominciare finalmente a collegare le aspirazioni per un ordine mondiale più equilibrato, democratico, giusto e pacifico, che tutti ritengono invece ragionevole, con l’obiettivo di costruire i presupposti dell’unità politica del genere umano. Il fatto è che in politica la buona volontà e la ragionevolezza non giovano a nulla se non sono associate al potere di incidere sulla realtà effettiva. Questo spiega perché oggi, quando si prende in esame la necessità di integrare o addirittura di unire sempre di più il mondo, si tende realisticamente a fare affidamento sul potere esistente, in massima parte ancora concentrato negli Stati, o al massimo a rivolgersi a quelle istituzioni ed organizzazioni internazionali che sono state via via create dopo la fine della seconda guerra mondiale per promuovere la cooperazione internazionale. Istituzioni ed organizzazioni che però prefigurano solo l’ombra di un sistema di governo mondiale, ma che non lo sono né possono diventarlo in quanto la loro vita e la loro azione si basano proprio su ciò che in prospettiva dovrebbe essere superato per governare razionalmente il mondo: la sovranità degli Stati. Per questo, se si vuole rilanciare un’azione per affermare davvero la pace, non si può e non si deve dare per scontata l’esistenza, oggi, di un quadro mondiale adeguato a favorire la maturazione delle forze in campo e sufficiente a spingere almeno alcuni Stati chiave a promuovere un processo di unificazione politica.
Perché il quadro cambi è invece indispensabile che l’attuale equilibrio mondiale sia modificato dall’ingresso di un altro soggetto, abbastanza forte da non far dipendere la propria sicurezza da altri per non essere ricattabile, ma che, per la sua posizione geopolitica, non possa fare della crescita della potenza militare, di cui dovrà in qualche modo disporre per essere minimamente credibile, il fondamento della sua forza ed influenza nel mondo.
Questo nuovo protagonista dell’equilibrio mondiale non può essere che l’Europa. Soltanto essa, in potenza, ha tutti i requisiti necessari per esercitare il ruolo di mediatore e di promotore di efficaci iniziative tendenti a favorire in primo luogo la riduzione della tensione tra USA e Russia. Solo dagli europei potrebbe venire un impulso a battersi per l’adozione di un’agenda credibile di disarmo — nucleare e convenzionale — proprio a partire dal proprio continente. E ancora, soprattutto dall’Europa potrebbe venire un’azione riequilibratrice nei confronti di un’espansione commerciale ed economica cinese in Africa che, se lasciata senza contrappesi, è destinata ad essere foriera di nuove tensioni. Infine spetterebbe proprio agli europei farsi carico della soluzione dei principali nodi che minano la sicurezza e lo sviluppo nella regione medio orientale.
Ora, la possibilità di fare tutto ciò dipende in ultima istanza dalla capacità degli europei stessi di assicurare, realizzando sul loro continente l’unità politica tra più Stati, una presenza autorevole e indipendente nell’equilibrio mondiale e di dare al resto del pianeta l’esempio della possibilità di allargare la dimensione dello Stato e la sfera del governo dei problemi superando la sovranità degli Stati esistenti. Non si può infatti realisticamente pensare che americani, russi e cinesi possano domani collaborare, insieme agli europei, per porre le basi dell’unità politica del genere umano, se in primo luogo francesi e tedeschi non saranno stati in grado di dar vita, legandosi ad altri Stati con un vincolo federale, ad un primo nucleo di Stato continentale europeo. Uno Stato diverso dai modelli di Stato che già esistono, ma un vero e proprio Stato che possa agire sul piano internazionale, non semplicemente un nuovo Commonwealth o un’unione di Stati, qual è per esempio condannata a rimanere l’Unione europea.
 
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In conclusione, la strada più ragionevole e pacifica per contribuire alla costruzione della pace passa ancora per l’Europa. Per questo la responsabilità storica e politica che pesa sugli europei è enorme. In ogni caso essi non devono illudersi di poter vivere nel benessere e in pace in un mondo interdipendente in cui la guerra resta possibile. Se essi si dimostreranno incapaci di percorrere la strada dell’unità, dando al mantenimento della sovranità dei loro Stati la priorità rispetto al perseguimento degli obiettivi dell’interesse e della sicurezza comuni e della progressiva realizzazione della pace nel mondo, subiranno le conseguenze inevitabili di quella dura realtà di cui il Presidente Obama nel suo discorso sulla pace ha svelato i contorni. 

 

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