IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXXI, 1989, Numero 1, Pagina 61

 

 

GLI ASPETTI POLITICI DELL’EMERGENZA ECOLOGICA
 
 
L’emergenza ecologica è sempre più legata ai mutamenti climatici che potrebbero verificarsi, con conseguenze non ancora localizzabili e quantificabili con precisione, a seguito della continua immissione nell’atmosfera di sostanze — soprattutto anidride carbonica e clorofluorocarburi (CFC) — che stanno modificando gli equilibri della biosfera. A fronte di questi pericoli vi è la difficoltà di riuscire a realizzare in breve tempo delle istituzioni mondiali capaci di gestire la transizione verso consumi e produzioni di massa che siano compatibili sia con i vincoli ecologici del nostro pianeta, sia con la necessità di assicurare a tutti i popoli, e anche alle generazioni future, condizioni di vita dignitose. L’urgenza di questi problemi è tale da aver indotto gli Stati ad occuparsene[1]. Ne sono una prova sia le affermazioni di Gorbaciov sulla necessità di affrontare il problema della sicurezza ecologica mondiale nel quadro della nuova fase di collaborazione fra USA e URSS e nell’ambito dell’ONU sia, più recentemente, le dichiarazioni di Bush e del nuovo segretario di Stato americano Baker il quale, dopo aver lanciato un appello a favore di un’iniziativa internazionale per fermare il global warming causato da sostanze inquinanti e dall’uso di combustibili fossili, ha dichiarato che la «politica ecologica è ormai matura per l’azione». Nel marzo di quest’anno, infine, la conferenza internazionale dell’Aja ha posto esplicitamente il problema della creazione di un’alta autorità in seno all’ONU per affrontare il problema dell’effetto serra[2].
 
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La scienza ha già elaborato gli scenari che descrivono le possibili tappe dell’emergenza ecologica che l’umanità si troverà a dover gestire nei prossimi decenni se non interverranno dei mutamenti sostanziali nella politica ecologica mondiale. Il consumo dei combustibili fossili e la liberazione nell’aria di sostanze quali per esempio i clorofluorocarburi sono al centro dei rapporti scientifici commissionati da governi, fondazioni private e agenzie dell’ONU, e vengono indicati come le cause principali di una probabile accentuazione nei prossimi decenni dell’effetto serra — la cui conseguenza potrebbe essere l’innalzamento della temperatura media sul pianeta e la non prevedibilità delle migrazioni delle precipitazioni piovose e delle zone aride — e dell’assottigliamento della fascia d’ozono, che ridurrebbe l’azione di filtro dei raggi ultravioletti finora garantita dall’atmosfera, con conseguenze nocive sulla salute degli uomini. Questi rapporti dicono che, anche qualora l’umanità riuscisse a bloccare immediatamente le emissioni di queste sostanze, un mutamento dell’evoluzione climatica globale è comunque destinato a manifestarsi nei prossimi decenni.
Fra tutti gli Stati, le superpotenze sono le più interessate alla possibile evoluzione di questi mutamenti, che potrebbero produrre capovolgimenti dei rapporti di forza in certi settori produttivi, come per esempio l’agricoltura. E’ anche per questo che il Congresso USA ha chiesto all’EPA (Environmental Protection Agency) di elaborare un rapporto sui possibili effetti del global warming, da cui emerge, tra l’altro, che «quanto rapidamente il clima potrà cambiare è difficile dirlo, perché gli scienziati sono incerti sia sulla rapidità con la quale gli oceani assorbiranno il calore, sia su alcune reazioni climatiche. La maggior parte degli scienziati è del parere che l’attuale trend delle emissioni continuerà e che il clima cambierà gradualmente, ma ad un ritmo superiore rispetto al passato, nel corso del prossimo secolo. Alcuni scienziati hanno messo in evidenza come l’impatto del global warming potrà manifestarsi già entro il prossimo decennio, ma il pieno effetto del raddoppio dell’anidride carbonica nell’atmosfera probabilmente non si avvertirà fino a dopo il 2050. Altri scienziati suggeriscono che l’attuale struttura dei modelli sulla circolazione generale (CGM), che si basano su di una determinata risposta del sistema oceano-atmosfera, potrebbero essere errati e che improvvisi mutamenti climatici sarebbero allora possibili. Per gli ecosistemi naturali questi mutamenti possono continuare per decenni una volta che il processo di cambiamento climatico è stato innescato. Di conseguenza il paesaggio del Nord America cambierà in un modo non pienamente prevedibile. Gli effetti ultimi dureranno per secoli e saranno irreversibili. Attualmente non sono disponibili le strategie per controbilanciare tali impatti sugli ecosistemi naturali» (ottobre 1988).
Nonostante gli accordi internazionali già stipulati, la situazione non è migliore per quanto riguarda la protezione della fascia d’ozono, la cui riduzione è stata osservata soprattutto, ma ormai non solo, al Polo Sud, tramite i rilevamenti condotti dalla NASA. Per affrontare questo problema nel 1985 è stata convocata una conferenza per conto dell’UNEP (United Nations Environment Programme). Essa aveva adottato una Convenzione (Vienna Convention) e una risoluzione, in seguito alle quali nel settembre 1987, a Montreal, è stato firmato da 24 paesi un Protocollo per la messa al bando dei clorofluorocarburi, entrato in vigore il 1° gennaio 1989. Si è trattato senza dubbio di un primo importante passo verso l’adozione di politiche comuni a livello mondiale in campo ecologico e di un significativo esempio dell’importanza crescente che hanno assunto le iniziative dei movimenti ambientalisti. Ma è stato sufficiente? L’OTA (Office of Technology Assessment) un’agenzia indipendente del Congresso americano, aveva svolto, già nel 1987, una prima analisi del Protocollo di Montreal, mettendone in evidenza alcuni limiti e zone d’ombra[3]. In quel rapporto si sottolineava per esempio l’adozione di un principio che difficilmente potrà essere ignorato in futuri accordi sulla limitazione dell’uso di altre sostanze: il riconoscimento della necessità di differenziare la progressiva eliminazione della produzione e del consumo di CFC a seconda che si tratti di paesi sviluppati oppure no. In base a questo principio i paesi sviluppati dovranno accollarsi i maggiori oneri di ogni politica ecologica. Una prima conclusione cui era giunta l’OTA è la seguente:«Il Protocollo di Montreal può impedire in modo significativo la crescita su scala mondiale del consumo di sostanze che assottigliano la fascia stratosferica d’ozono che circonda la Terra… Tuttavia appare non corretta la convinzione generale che il Protocollo porterà ad una riduzione del 50% delle produzione delle sostanze implicate entro il 1999».
Per giustificare le sue perplessità l’OTA ha studiato quattro possibili scenari. Il primo scenario prevede la ratifica immediata del Protocollo da parte di tutti gli Stati: questo avrebbe come conseguenza una riduzione della produzione di CFC del 40-45% entro il 2009. Il secondo scenario prevede la ratifica del Protocollo da parte di tutti gli Stati tranne Cina, India, Indonesia, Brasile, Arabia Saudita, Iran, Corea del Sud, con la conseguente riduzione, entro il 2009, della produzione del 30% al massimo. Il terzo scenario prevede la ratifica del Protocollo da parte di tutti gli Stati che lo hanno inizialmente firmato, con l’aggiunta di URSS e Australia (ma per l’URSS il Protocollo prevede la possibilità di aumentare la sua produzione di due terzi prima di incominciare la riduzione); in questo caso, entro il 2009, si potrebbe assistere ad un aumento della produzione di CFC fino al 20%. Il quarto scenario prevede, a scopo dimostrativo, che cosa succederebbe se il Protocollo non fosse mai stato ratificato: un aumento dal 40 al 60% della produzione di CFC entro il 2009. L’OTA così concludeva: «Anche con una collaborazione internazionale attraverso il trattato, le analisi dell’OTA suggeriscono che la riduzione delle sostanze responsabili della riduzione della fascia d’ozono sarà inferiore e più lenta di quanto precedentemente previsto. Maggiori riduzioni nel consumo delle sostanze responsabili dell’erosione della fascia d’ozono potrebbero verificarsi qualora: 1) i provvedimenti del Protocollo siano resi più restrittivi; 2) i consumi si riducano maggiormente rispetto a quanto previsto dal Protocollo, cosa che potrebbe verificarsi se gli Stati prendessero delle iniziative unilaterali rivolte a questo scopo o se si verificassero dei diffusi mutamenti nel comportamento dei consumatori; 3) il consumo di CFC e di alogeni nei paesi in via di sviluppo cresca più lentamente rispetto alle previsioni dell’EPA e dell’OTA».
Le prime due raccomandazioni dell’OTA sono state già accolte da USA, CEE — i maggiori produttori e consumatori di CFC — e Canada, che, alla vigilia della conferenza internazionale sulla protezione della fascia d’ozono tenutasi a Londra, hanno annunciato di voler andare oltre il Protocollo di Montreal, impegnandosi a sostituire completamente la produzione di CFC con altre sostanze che non danneggino la fascia d’ozono. Sulla terza raccomandazione la conferenza di Londra ha invece mostrato quanto sia tuttora difficile conciliare gli interessi dei paesi industrializzati con quelli in via di sviluppo. URSS, Cina e India hanno infatti manifestato l’intenzione non solo di non voler andare oltre i limiti fissati dal Protocollo di Montreal, ma anche di voler ritardare il più possibile una riduzione della produzione di CFC e, come ha dichiarato Mostafa Tolba, direttore del Programma per l’Ambiente dell’ONU, «le dichiarazioni dei paesi in via di sviluppo dimostrano che sono necessari degli impegni specifici. Sono necessari dei meccanismi internazionali compensativi nei confronti dei paesi in via di sviluppo per quanto riguarda il futuro impiego di CFC e di alcune delle loro risorse naturali, nell’interesse della salvaguardia dell’ambiente. Abbiamo bisogno di un piano concordato a livello internazionale per reperire nuove risorse per gli anni Novanta e oltre. Un tale piano potrebbe includere il condono dei debiti in cambio della protezione dell’ambiente, l’impiego delle risorse rese disponibili dal disarmo e una tassazione che favorisca lo sviluppo di nuove tecnologie».
 
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Come dimostrano il caso del Protocollo di Montreal e le successive iniziative internazionali, gli accordi internazionali sono necessari per incominciare a uscire dall’emergenza ecologica, ma non sono sufficienti, da soli, per garantire una effettiva transizione verso un mondo ecologicamente più sicuro. L’effetto serra è emblematico, perché per affrontarlo non basta accordarsi sulla limitazione della produzione e dell’uso di alcune sostanze, ma occorre una vera e propria pianificazione mondiale dei consumi energetici oltre che dello sfruttamento di importanti serbatoi di risorse naturali, come gli oceani e le foreste tropicali. Finora il mercato non è riuscito a conciliare, su scala mondiale, la crescente domanda di energia nel mondo con la necessità di ridurre i consumi di combustibili fossili. Basti pensare che dopo il 1973, l’anno dello shock petrolifero, per quanto riguarda le risorse energetiche sono ancora quelle convenzionali — petrolio, gas naturale, carbone e nucleare — a dominare l’offerta mondiale di energia, con una quota, nel 1985, dell’88%, e che, nel settembre scorso a Berlino, la Banca mondiale ha confermato che la distruzione delle foreste tropicali nel 1987 ha avuto un ritmo quattro volte superiore rispetto all’86. Sulla base dell’attuale trend mondiale, e senza una pianificazione articolata dei consumi energetici dal livello nazionale a quello mondiale è difficile prevedere un aumento significativo dell’uso di risorse rinnovabili non tradizionali — da quella solare, all’eolica ecc. — in tempi inferiori (40-50 anni) rispetto a quelli impiegati dal carbone, dal petrolio o dal metano per affermarsi. Con questi tempi, il raddoppio dell’immissione di anidride carbonica nell’atmosfera è certo, e la sua conseguenza sarebbe l’inevitabile manifestarsi dell’effetto serra. Inoltre non bisogna dimenticare che una larga percentuale dei consumi energetici basati sull’uso di combustibili fossili riguarda un settore, quello dei trasporti (pubblici, privati e commerciali) — negli USA il 70% circa del petrolio consumato è assorbito da questo settore —, che può sì essere suscettibile di ulteriori miglioramenti per quanto riguarda la riduzione dei consumi e delle sostanze inquinanti rilasciate nell’atmosfera, ma che è ancora fortemente arretrato in gran parte del mondo, ed è certo prevedibile un suo sviluppo negli anni futuri. Basti pensare che l’URSS è tuttora oltre il cinquantesimo posto a livello mondiale per numero di autoveicoli per mille abitanti.
In questa situazione vi è ancora una grande incertezza sulle vie da seguire. Due tendenze meritano di essere citate in quanto rappresentano un modo abbastanza diffuso di pensare e di agire. La prima è esemplificata dal rapporto The Rollercoaster Oil: A Call for Action, pubblicato nel 1987 dal Fund for Renewable Energy and the Environment (FREE), e dalla testimonianza resa nel marzo 1989 dalla Public Citizen, una organizzazione di ricerca senza fini di lucro, di fronte alla sottocommissione per la ricerca energetica e lo sviluppo del Congresso USA. Il primo rapporto presenta una strategia per favorire la transizione degli USA verso il superamento dell’uso del petrolio e verso un sistema basato su fonti energetiche rinnovabili, ma, pur tenendo presente la necessità di una strategia globale per fronteggiare il global warming, si limita a proporre una strategia nazionale che, viste le dimensioni mondiali del problema, non può essere efficace. La testimonianza della Public Citizen evidenzia invece la necessità di incrementare il bilancio USA destinato alla ricerca e allo sviluppo delle energie alternative in modo da portare al 15-20% la quota dei consumi energetici relativi ad esse entro la fine del secolo.
La seconda tendenza è invece esemplificata da alcune iniziative promosse dal FOE (Friends of Earth). Queste iniziative pongono l’accento sulla necessità di preservare una parte del patrimonio comune di tutta l’umanità quale è la foresta amazzonica. Il FOE sostiene per esempio, e con ragione, che la costruzione delle dighe previste dal piano energetico brasiliano (Plano 2010) darebbe un ulteriore colpo alla deforestazione dell’Amazzonia, ma come alternativa propone una politica di riduzione dei consumi elettrici attraverso una ottimizzazione dei rendimenti delle apparecchiature elettriche, difficilmente attuabile da parte di un paese in via di sviluppo in meno di un ventennio.
Queste tendenze hanno un elemento in comune che le rende poco credibili: l’idea che sia possibile convincere gli Stati ad adottare spontaneamente buone politiche ecologiche senza sottoporli ad una legislazione mondiale che limiti la loro sovranità.
 
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Come orientare dunque la transizione verso un mondo ecologicamente più sicuro? Una prima risposta è stata data dal Rapporto Bruntland attraverso la definizione del concetto dello sviluppo sostenibile. «Lo sviluppo sostenibile è quello sviluppo che concilia il soddisfacimento dei bisogni attuali senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i loro bisogni. Esso contiene due concetti chiave: il concetto dei bisogni, in particolare dei bisogni essenziali dei poveri del mondo, ai quali dovrebbe essere data precedenza assoluta; e l’idea delle limitazioni imposte dallo stato dello sviluppo tecnologico e dell’organizzazione sociale alla capacità dell’ambiente di soddisfare i bisogni attuali e futuri». Si tratta, come si può notare, di concetti chiave che sono ormai alla base dell’azione non solo dei movimenti ecologisti, ma, come dimostrano il Protocollo di Montreal e la Conferenza dell’Aja, anche di molti Stati. Il fatto è, come abbiamo già detto, che per essere efficace una politica ecologica internazionale richiede la collaborazione di tutti gli Stati.
A questo proposito due considerazioni, una che riguarda la politica energetica, l’altra di carattere istituzionale, possono contribuire a sgombrare il campo dall’illusione di poter salvare il pianeta — un problema nuovo per l’umanità — con strumenti o superati (le politiche nazionali) o inadeguati (lo sfruttamento delle sole fonti energetiche naturali rinnovabili per garantire la sopravvivenza e lo sviluppo di un pianeta con oltre cinque miliardi di persone).
Sul piano energetico, se la riduzione delle emissioni di anidride carbonica è indispensabile per fermare l’effetto serra, occorre pianificare il superamento dell’uso dei combustibili fossili sia nel settore della produzione dell’energia elettrica, sia in quello dei consumi pubblici e privati — il settore dei trasporti. Si tratta cioè di portare davvero a compimento l’era dell’elettrificazione del modo di produrre e di consumare, obiettivo che fu, non bisogna dimenticarlo, il sogno di numerosi ecologisti e urbanisti, come Lewis Mumford, già negli anni Trenta. Questo non è possibile se non nel quadro dell’avvio di un nuovo ciclo di trasformazioni territoriali ed urbanistiche mondiali, imperniato sullo sviluppo delle linee ferroviarie ad alta velocità, sulla ramificazione dei trasporti pubblici elettrificati, sulla progressiva conversione degli autoveicoli a combustione con quelli elettrici — a partire da quelli a circolazione urbana. In questa prospettiva i consumi elettrici, pur con la dovuta attenzione ai possibili miglioramenti in termini di efficienza e di riduzione dei consumi, sarebbero però destinati a raggiungere dimensioni ben superiori alle stime attuali. Ma per perseguire questo obiettivo l’umanità non potrebbe prescindere dall’impiego di tutte le risorse attualmente disponibili alternative ai combustibili fossili, inclusa l’energia nucleare da fissione, il cui impiego dovrebbe essere strettamente limitato al tempo necessario per sviluppare la tecnologia della fusione nucleare e il cui programma di sviluppo dovrebbe essere sottoposto ad una autorità mondiale che fissi norme di sicurezza e di regolamentazione del trasferimento del materiale fissile. La creazione di una simile autorità si rende del resto necessaria per gestire una situazione in cui ormai esistono paesi, come la Francia e il Giappone, il cui sistema di approvvigionamento energetico è ormai largamente dipendente dal nucleare — la Francia è diventata addirittura indispensabile alla rete distributiva di energia elettrica di parte della Comunità europea — e altri, come l’URSS, che, nonostante l’incidente di Chernobyl, hanno deciso di aumentare entro il 2000 la quota di energia elettrica prodotta con l’uso di combustibile nucleare. Il problema inoltre è quello di dotare questa autorità delle risorse finanziarie necessarie per promuovere le ricerche e lo sviluppo di tutte le energie alternative, in quanto, se è vero come affermano gran parte dei movimenti ecologisti, che i finanziamenti per promuovere lo sviluppo delle produzioni di energia alternativa sono attualmente molto inferiori rispetto ai finanziamenti concessi alla ricerca per l’utilizzazione della fusione nucleare — negli USA il rapporto è di circa1 a 3 —, è altrettanto vero che questi ultimi rappresentano una somma del tutto trascurabile rispetto a quanto tuttora si spende per la politica di difesa — negli USA il rapporto è di circa 1 a 1000.
L’ipotesi di creare una autorità mondiale che avesse queste competenze era del resto stata sostenuta dallo stesso Einstein subito dopo la seconda guerra mondiale. Questa autorità potrebbe inoltre riscuotere una tassa climatica internazionale (climate protection tax) sull’uso dei combustibili fossili al fine di: a) finanziare la fase di transizione all’elettrificazione completa e all’uso civile della fusione; b) gestire la conversione dei debiti del Terzo mondo in investimenti ecologici, finanziando la riforestazione. A proposito del primo punto è opportuno sottolineare, come ha messo in evidenza The Rollercoaster Study citato prima, che una tassa di soli 4,60 dollari al barile di petrolio (con un aggravio di soli 11 centesimi di dollaro per gallone per gli automobilisti), consentirebbe di ricavare annualmente, solo negli USA, 53 miliardi di dollari. Per quanto riguarda invece il secondo punto, è sufficiente rilevare che non è pensabile salvare le foreste tropicali, che rappresentano ancora il 7% della superficie terrestre, senza dare loro lo status di patrimonio dell’umanità, sottoponendole ad una tutela mondiale. Non è un obiettivo facilmente perseguibile senza una forte collaborazione internazionale, se si pensa che tuttora solo l’1% della superficie terrestre, escluse le terre antartiche e la Groelandia, è in qualche modo protetta attraverso le legislazioni nazionali.
In questa ottica la distensione e il processo di trasformazione dell’ONU in un vero governo democratico mondiale sono destinate a diventare due condizioni indispensabili per affrontare l’emergenza ecologica.
Sul piano istituzionale infine, The World Commission on Environment and Development ha già elaborato dei Legal Principles lor Environmental Protection and Sustainable Development che definiscono i limiti d’azione dei singoli Stati in campo ecologico, nonché le loro responsabilità e alcuni meccanismi di soluzione delle dispute. Ma quale autorità imporrà loro di rispettare questi principi? Quale autorità potrà raccogliere le risorse finanziarie necessarie per avviare dei piani di riconversione mondiali della produzione e del consumo di energia? E a quale autorità verrà attribuito il potere di decidere quando e se la protezione ambientale debba essere parte integrante della pianificazione dei diversi Stati? Le agenzie dell’ONU, il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale potrebbero diventare i pilastri di un primo nucleo di governo mondiale in campo ecologico. Ma perché questo sia credibile, occorre da un lato mostrare che è possibile e necessario avviare, nel quadro dell’ONU, un processo di trasferimento di parte della sovranità degli Stati dal livello nazionale e continentale al livello mondiale. A questo proposito ogni ulteriore ritardo nella trasformazione della Comunità europea in una vera Unione costituirebbe un vero e proprio sabotaggio del processo di democratizzazione dei rapporti internazionali e quindi dell’elaborazione di una efficace politica ecologica mondiale. D’altro lato occorrerebbe coinvolgere al più presto l’URSS nella gestione del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale in quanto non è pensabile sviluppare un’iniziativa ecologica internazionale efficace senza includere il mondo socialista che si configura sempre di più, per il tipo di problemi politici ed economici che deve affrontare, come l’anello di congiunzione fra i paesi sviluppati e quelli del Terzo mondo.
In conclusione si può dire che affermare che la «politica ecologica è matura per l’azione», ha ormai un senso solo nella misura in cui si ammette che anche la trasformazione dell’ONU in un vero governo democratico del mondo è matura per l’azione. In questa prospettiva è necessario rafforzare la collaborazione non solo fra i federalisti in Europa e nel mondo, ma anche fra i federalisti e i movimenti ecologisti in generale.
 
Franco Spoltore
 
 


[1] Si vedano in proposito: Our Common Future, The World Commission on Environment and Development, Oxford, Oxford University Press, 1987; State of the World, 1988, A WorldWatch Institute Report on Progress Toward a Sustainable Society, New York - London, W.W. Norton & Company, 1988.
[2] La conferenza internazionale svoltasi a Torino in gennaio, organizzata dalla Fondazione S. Paolo, ha invece proposto l’istituzione di un fondo mondiale per la protezione del clima del nostro pianeta.
[3] Le due Conferenze internazionali svoltesi a Londra e all’Aja nella prima metà del marzo 1989 a pochi giorni di distanza l’una dall’altra hanno in sostanza confermato le indicazioni fomite dall’OTA.

 

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