IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXXI, 1989, Numero 2, Pagina 119

 

 

UNPRECEDENTE STORICO DI GRANDE IMPORTANZA
 
 
Il referendum di indirizzo, che si è tenuto in Italia in occasione dell’elezione europea del giugno 1989, ripropone la strada costituente per giungere alla Federazione europea, conferendo al Parlamento europeo il compito di redigere un trattato-costituzione che trasformi la Comunità in una vera Unione europea con un governo democratico ed efficace responsabile di fronte al Parlamento europeo. Questo trattato-costituzione dovrebbe essere trasmesso direttamente per la ratifica agli Stati membri ed entrare in vigore con la sua approvazione da parte di un numero anche limitato di Stati. Con questo atto l’Italia riconquista quel ruolo d’iniziativa sul terreno dell’unificazione politica dell’Europa che ha già svolto con vigore all’epoca di De Gasperi.
Occorre infatti ricordare che, se un mandato costituente verrà effettivamente conferito al Parlamento europeo, non sarà il primo nella storia della costruzione europea. Pochi lo sanno, ma vi è un precedente di grande importanza. Si tratta della decisione presa, il 10 settembre 1952, dai governi della Comunità europea del carbone e dell’acciaio, cioè dalla CECA, la prima forma della Comunità.
Nel testo di quella decisione si diceva: «Considerato che l’obiettivo finale dei sei governi è stato e resta quello d’arrivare alla costituzione di una Comunità politica europea la più ampia possibile; considerato che, su domanda del governo italiano, è stato inserito nel Trattato istitutivo della Comunità europea di difesa, firmato il 27 maggio 1952, l’articolo 38 che ha per oggetto quello di conferire all’Assemblea di questa Comunità lo studio per costituire una nuova Assemblea eletta democraticamente sicché la stessa possa costituire un elemento di una più complessa struttura federale o confederale, fondata sul principio della separazione dei poteri e caratterizzata in particolare da un sistema rappresentativo bicamerale; ricordato che, nella sua risoluzione n. 14 adottata il 30 maggio 1952, l’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa ha chiesto agli Stati membri della Comunità europea di difesa di scegliere, tenendo conto della procedura più rapida, l’Assemblea che sarà incaricata d’elaborare lo statuto di una Comunità politica di carattere sovrannazionale, che sia aperta a tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa e che offra possibilità di associazione a quanti di questi non aderissero a questa Comunità; coscienti che la costituzione di una Comunità politica europea con struttura federale o confederale dipende dalla costituzione di una base comune per lo sviluppo economico e dalla fusione degli interessi essenziali degli Stati membri; i sei Ministri degli Esteri della Comunità del carbone e dell’ acciaio, riuniti a Lussemburgo il 10 settembre 1952, hanno preso la seguente decisione che tiene conto delle considerazioni precedenti e del loro desiderio di accelerare lo studio del progetto summenzionato, assicurandogli il massimo possibile d’autorità: A) i membri dell’Assemblea della CECA sono invitati, ispirandosi ai principi dell’articolo 38 del Trattato istitutivo della CED e senza pregiudizio per le disposizioni di questo Trattato, a elaborare un progetto di Trattato istitutivo di una Comunità politica europea…; B) l’Assemblea… determinerà le condizioni alle quali alcuni rappresentanti di altri paesi, e in particolare di quelli che sono membri del Consiglio d’Europa, potranno essere associati a questi lavori in qualità d’osservatori; […] E) i governi dichiarano espressamente di volersi ispirare alle proposte del governo britannico che tendono a stabilire i legami più stretti possibili tra la futura Comunità politica e il Consiglio d’Europa. In vista di ciò, l’elaborazione dello statuto di questa Comunità deve essere intrapresa e compiuta in collegamento permanente con gli organismi del Consiglio d’Europa…».
La situazione era allora assai diversa da quella attuale. Nel cuore della guerra fredda, gli Americani, con la dottrina Truman (11 marzo 1947), avevano preso definitivamente atto che la minaccia alla loro sicurezza e a quella della loro zona d’influenza non proveniva più dalla Germania, ma dall’Unione Sovietica e, con il Piano Marshall (5 giugno 1947), s’erano impegnati con un piano d’aiuti nella ricostruzione dell’Europa occidentale, che costituiva la posta del conflitto di potenza e insieme il fronte più esposto della difesa americana. La ricostruzione economica era la premessa di quella militare e mirava soprattutto a colmare il vuoto di potere nello spazio tedesco che di quel fronte costituiva il bastione più avanzato. La Francia, che non aveva dimenticato le disfatte militari del 1870, della prima e della seconda guerra mondiale, non poteva accettare né l’una, né l’altra. E fu in quella situazione che Monnet propose di fondare la Comunità europea, di devolvere cioè a un’autorità sovrannazionale, dotata di istituzioni che avrebbero dovuto prefigurare quelle di una vera e propria «Federazione europea», il controllo del carbone e dell’acciaio, cioè delle fonti principali dell’energia (e quindi dello sviluppo economico) e dell’industria pesante (e quindi della potenza militare). Si trattava in sostanza di rovesciare l’atteggiamento fondamentale degli Europei nei confronti del vicino che, in situazioni d’anarchia internazionale era per antonomasia il nemico potenziale o attuale, e che, nella Comunità, diventava il partner naturale e più stretto. Questa concezione, che rivoluzionava il corso degli avvenimenti europei e che spiega il carattere così diverso del secondo dopoguerra rispetto al primo, portò Schuman, il Ministro degli Esteri francese, a proporre il 9 maggio 1950 la fondazione della CECA. A questa proposta aderirono Italia, RFdG, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo.
Nell’estate del 1950, lo scoppio della guerra di Corea e l’esigenza di dislocare truppe sul fronte orientale disimpegnandole dallo spazio tedesco, spinsero gli Americani a forzare i tempi per il riarmo della Germania. La reazione della Francia era prevedibile e non tardò a manifestarsi. In quella situazione di impasse, Monnet propose ancora una volta la formula comunitaria (Comunità europea di difesa), e Pleven, il 27 ottobre dello stesso anno, la fece propria, trovando l’adesione degli stessi paesi che avevano aderito alla CECA.
Fare un esercito comune, rinviando sine die la fondazione dello Stato europeo, cioè del potere democratico capace di controllarlo, non era così facile. Senza Stato europeo, delle due una: o l’esercito europeo, con comando unico ed efficace (e quindi il potere, conferito al Capo di stato maggiore, di dichiarare la guerra, prelevare contingenti militari e imposte, convertire l’economia di pace in economia di guerra, ecc.), e ciò avrebbe significato de facto la subordinazione del potere civile (dei sei poteri civili) a quello militare (comune), cioè una forma di governo aberrante rispetto ai principi di legittimità democratica affermati dalla guerra di liberazione; o la supremazia del potere civile sul potere militare, e ciò avrebbe ridotto l’esercito europeo a nient’altro che una tradizionale coalizione di eserciti nazionali, con tutta l’inefficienza e la precarietà che le hanno sempre caratterizzate e che apparivano particolarmente nefaste di fronte alla minaccia staliniana e al minore impegno americano nel teatro europeo. Furono queste le considerazioni che il Movimento federalista europeo, con un memorandum di Altiero Spinelli, portò all’attenzione di De Gasperi nell’estate del 1951 e che indussero quest’ultimo a riconoscere che «dunque, i federalisti avevano ragione» e a battersi per la fondazione dello Stato europeo. In una storica riunione dei sei Ministri degli Esteri della Comunità, tenutasi a Strasburgo l’11 dicembre 1951, De Gasperi ottenne che nel Trattato CED fosse inserito un articolo —, l’articolo 38 — che attribuiva all’ Assemblea della CED il compito di studiare le modalità della sua elezione a suffragio universale diretto, i poteri da conferirle e la riforma delle istituzioni («l’organizzazione definitiva che prenderà il posto dell’attuale organizzazione provvisoria dovrà avete un carattere federale o confederale»). Nonostante il compromesso che De Gasperi fu costretto ad accettare (la natura «federale o confederale» delle istituzioni), la decisione affermava inequivocabilmente il principio costituente, cioè il principio democratico: la Comunità politica non poteva che costituirsi mediante il consenso popolare e cioè il voto europeo e il mandato costituente ai rappresentanti del popolo europeo.
Rivelatasi più laboriosa del previsto l’approvazione del Trattato CED e quindi l’attuazione dell’articolo 38, De Gasperi, costituitasi ufficialmente l’Alta Autorità della CECA il 10 agosto 1952 e convocata l’Assemblea per il 10 settembre, ottenne che in quella stessa data si riunisse il Consiglio dei Ministri e le conferisse il mandato previsto dall’articolo 38 del Trattato CED. Ottenuto il mandato, l’Assemblea, divenuta in seguito nota come «Assemblea ad hoc», si mise senza indugio al lavoro e, il 10 marzo 1953, consegnò ai sei governi degli Stati membri un progetto di statuto della Comunità politica europea.
Com’è noto, quest’avventurasi concluse infelicemente. Il progetto di statuto venne affidato a una conferenza diplomatica che si protrasse con alterne vicende sino a che, il 30 agosto 1954, la CED cadde di fronte al Parlamento francese e accomunò nel suo destino quello della Comunità politica, con il risultato del riarmo tedesco, pudicamente mascherato dalla fondazione dell’Unione europea occidentale, una coalizione tradizionale di eserciti nazionali, al servizio del protettore d’oltre-Atlantico e, a dispetto di quanti ancor oggi vorrebbero resuscitarla, morta ancor prima di nascere.
Ogni grande lotta, però, non è mai senza risultato. Così, svanita la prospettiva dell’esercito europeo e dello Stato europeo, l’unificazione riprese subito la sua strada imboccando quella assai meno diretta dell’integrazione economica con il progetto del Mercato comune, che era apertamente previsto dallo statuto della Comunità politica e che sopravvisse al suo insuccesso.
Al di là dei suoi esiti, questa vicenda induce ad alcune riflessioni. Quell’iniziativa costituente è da ascriversi all’Italia. Già allora c’era il problema della Gran Bretagna, ma De Gasperi non si lasciò intimorire da quella difficoltà: i Sei avrebbero continuato sulla strada dell’unificazione, fino alla fondazione della Comunità politica, tenendo costantemente aperta la porta, addirittura invitando tutti i paesi del Consiglio d’Europa, l’istituzione europea che raccoglieva tutti gli Stati europei soggetti alla protezione americana, a inviare osservatori ai lavori costituenti in vista di una loro auspicata e prossima adesione. Non basta. De Gasperi sapeva che in democrazia non è possibile fondare uno Stato senza la partecipazione popolare e si batté perché l’Assemblea della Comunità fosse eletta a suffragio universale diretto e investita del potere costituente. Né lo spaventava il possibile esito confederale, cioè intergovernativo e non democratico, del travaglio costituente, perché sapeva che, avviato il processo di fondazione dello Stato europeo sulla strada maestra della democrazia, la sua conclusione federale, cioè quella che avrebbe posto il potere europeo in relazione con il popolo europeo, era destinata prima o poi a realizzarsi. Chi oggi ritiene che l’atteggiamento preclusivo del Regno Unito e quello incerto di altri Stati membri spaventati dalle conseguenze di una possibile rottura con i britannici costituiscano una difficoltà insormontabile, ha dunque torto. E ha torto ugualmente chi ritiene che l’Italia, mettendosi con il referendum su una linea di collisione con il Regno Unito, persegua una politica velleitaria o addirittura donchisciottesca. In democrazia, la via democratica non è mai velleitaria.
Ma v’è di più. E’ vero che quella iniziativa, che, pur nata nel grembo della solidarietà atlantica, aveva oggettivamente il senso di una lotta per l’indipendenza europea e per il superamento dei blocchi, fu possibile di fronte a un problema del tutto eccezionale come quello del riarmo della Germania, un problema di cui è difficile cogliere il carattere cogente solo dimenticando la tragedia della seconda guerra mondiale e l’orrore della violenza nazista. E’ vero anche che l’aggressività staliniana aveva provocato in Europa occidentale l’ossessione che Annibale fosse alle porte. E’ vero infine che in quella situazione straordinaria l’iniziativa federalista poté avvalersi della statura straordinaria di Spinelli e il fronte dei governi di quella altrettanto straordinaria di De Gasperi. Ma non va neppure dimenticato che tutto ciò avvenne in società europee profondamente lacerate alloro interno dalla miseria del dopoguerra e soprattutto dall’equilibrio bipolare che si rifletteva sugli equilibri politici interni, schierando sul fronte anti-europeo grandi masse popolari organizzate e orientate dai partiti, come quelli comunisti e socialisti, subordinati alla potenza sovietica o, come nel caso della SPD, affascinati dalla sirena del neutralismo e della riunificazione nazionale. Oggi abbiamo alle spalle trent’anni di mercato comune, una tumultuosa crescita economica che ha praticamente cancellato quelle lacerazioni sociali, l’eurosocialismo prima e l’eurocomunismo poi, il fallimento della cooperazione intergovernativa di fronte allo shock petrolifero e al gioco scopertamente imperiale del dollaro, l’elezione diretta del Parlamento europeo, lo SME, il Trattato d’Unione elaborato dal Parlamento europeo, la battaglia per affermarlo, l’Atto Unico, cioè l’impegno a costruire entro il 1993 l’Unione economica, i lavori del Comitato Delors, cioè il tentativo di costruire l’Unione monetaria. E non va soprattutto dimenticato che con il referendum i cittadini di un intero Stato si sono schierati su quella che nel 1952 fu la posizione dei soli federalisti e di De Gasperi. Ciò dovrebbe indurre all’azione anche chi, pur condividendo gli obiettivi dei federalisti, mantiene perplessità sull’esito della lotta da loro proposta. Una lotta che per altro — è bene ribadirlo — per i democratici non ha alternative.
 
Luigi V. Majocchi

 

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