IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno LII, 2010, Numero 1, Pagina 14

 

 

Il contributo di Francesco Rossolillo alla cultura federalista
 
SERGIO PISTONE
 
 
I due volumi in cui Giovanni Vigo ha raccolto gli scritti fondamentali di Francesco Rossolillo[1], che ci ha lasciati il 24 febbraio 2005 all’età di 67 anni, testimoniano l’eccezionale valore del suo contributo alla cultura federalista, integrata da un impareggiabile impegno militante nella lotta per la federazione europea. I temi che lo hanno maggiormente coinvolto sono: il senso della storia e il suo rapporto con l’azione politica, la rivoluzione, il significato della sovranità popolare, il polo comunitario del federalismo e i suoi rapporti con la pianificazione territoriale, la strategia della lotta per l’Europa unita e il ruolo dei federalisti, l’analisi e l’interpretazione dei grandi fatti politici e culturali con i quali un militante federalista deve misurarsi per sostituire il punto di vista nazionale con quello federalistico. La lettura di questi scritti, apparsi fra il 1960 e il 2005, è un sussidio essenziale per comprendere a fondo la straordinaria esperienza intellettuale e politica, che è tuttora pienamente vitale, dei federalisti aventi in Mario Albertini il loro maestro. Per offrire un assaggio di quest’opera, cercherò in queste pagine di evidenziare, in termini necessariamente schematici, quello che mi pare essere uno dei contributi essenziali dato da Rossolillo al pensiero federalista. Per far ciò, debbo partire da una puntualizzazione degli aspetti più qualificanti della riflessione federalista sviluppata da Altiero Spinelli e da Mario Albertini, per poi dare un’idea del passo avanti che io ritengo più significativo compiuto da Rossolillo.
 
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Spinelli è il padre fondatore del federalismo come pensiero politico attivo, vale a dire come teoria che si traduce in impegno politico concreto diretto a cambiare la realtà. Come ha detto Norberto Bobbio[2], con l’autore del Manifesto di Ventotene l’idea della Federazione europea compie un salto qualitativo, si trasforma cioè in un vero e proprio programma politico. In altre parole si istituisce un nesso organico fra una chiarificazione teorica, estremamente lucida e di grande respiro, delle ragioni per cui si deve realizzare la Federazione europea e dei precisi principi politico-strategici e anche organizzativi che devono guidare un movimento politico che si pone come compito la realizzazione del federalismo sopranazionale.
Per quanto riguarda l’aspetto teorico del discorso di Spinelli[3], la sua essenza è riassumibile nella tesi della priorità della costruzione della Federazione europea rispetto alle lotte per la trasformazione in senso liberale, democratico e della giustizia sociale degli Stati nazionali, nella convinzione cioè che la costruzione della pace attraverso la Federazione europea – vista come prima tappa storica e forza trainante in direzione dell’obiettivo della federazione mondiale – rappresenti la via imprescindibile del progresso storico. In sostanza, Spinelli porta a conclusione il discorso, avviato da Luigi Einaudi e dai federalisti britannici nell’epoca delle guerre mondiali, che vede nella crisi storica del sistema degli Stati nazionali sovrani la radice profonda dei mali del mondo contemporaneo[4]. Ridotto all’osso, il concetto di crisi dello Stato nazionale indica la contraddizione fra l’evoluzione del modo di produzione industriale che, realizzando un’interdipendenza crescente al di là delle barriere nazionali, spinge alla creazione di entità statali di dimensioni continentali e, tendenzialmente, all’unificazione del genere umano, e le dimensioni storicamente superate degli Stati nazionali europei. Precisamente questa contraddizione è la radice profonda delle guerre mondiali e del totalitarismo nazista, che devono essere visti come i fondamentali e interconnessi elementi strutturali del tentativo di soluzione egemonico-imperiale del problema dell’unità europea. Se il sistema della sovranità nazionale assoluta ha bloccato il progresso economico-sociale e politico in Europa, d’altra parte il crollo della potenza degli Stati nazionali europei ha aperto la strada alla loro unificazione pacifica, che deve essere perseguita appunto come obiettivo politico prioritario, e cioè come prealable rispetto alle lotte per il rinnovamento interno degli Stati nazionali. Senza il superamento, con la Federazione europea, dell’anarchia internazionale, l’inadeguatezza degli Stati nazionali rispetto ai problemi di fondo aventi dimensioni sopranazionali e la conflittualità endemica legata alla sovranità assoluta renderanno inevitabilmente precari i progressi liberali, democratici e sociali e nuove paurose catastrofi spazzeranno via la civiltà. Da qui una nuova dicotomia – proclamata nel Manifesto di Ventotene nel 1941 – fra le forze del progresso e quelle della conservazione. Essa non si identifica più con la linea tradizionale della maggiore o minore libertà, uguaglianza, giustizia sociale da realizzare all’interno degli Stati nazionali[5], bensì con la linea che divide i difensori della sovranità nazionale assoluta dai sostenitori del suo superamento attraverso il federalismo sopranazionale, cioè l’unico sistema in grado di gestire in modo democratico e pacifico l’interdipendenza prodotta dalla rivoluzione industriale.
Il discorso teorico di Spinelli sulla priorità dell’obiettivo del federalismo sopranazionale rispetto a quelli indicati dalle grandi ideologie emancipatrici del mondo moderno (che partendo dall’Illuminismo hanno indicato la via del progresso dell’umanità) viene integrato, come si è detto, da un discorso politico-strategico-organizzativo che chiarisce le condizioni necessarie perché la lotta per la Federazione europea possa essere condotta in modo non velleitario (superando cioè l’approccio essenzialmente utopistico prevalente prima della svolta impressa da Spinelli). Questo discorso, che è già sostanzialmente presente nel Manifesto di Ventotene e che si precisa nei primi anni del dopoguerra allorché inizia effettivamente la lotta per la Federazione europea, si può riassumere, per coglierne l’essenza, nella tesi secondo cui i governi democratici nazionali sono allo stesso tempo strumenti e ostacoli rispetto all’unificazione europea[6]. Sono strumenti in un duplice senso. Intanto, la costruzione in modo pacifico e democratico (cioè all’opposto di una unificazione imperiale-egemonica) dell’unità europea non può che fondarsi sulle libere decisioni dei governi democratici. Soprattutto, i governi democratici europei sono spinti ad attuare una politica di unificazione sopranazionale da un potente fattore storico di lunga durata: la crisi strutturale degli Stati nazionali che ha fatto emergere l’alternativa “unirsi o perire” e, quindi, una esigenza profondamente radicata di cooperare pacificamente in modo duraturo per poter progredire sul piano economico-sociale, civile e politico. Se in questo senso i governi democratici nazionali sono strumenti, sono altresì ostacoli rispetto all’unificazione europea in conseguenza della tendenza strutturale (già chiarita da Machiavelli) del potere alla propria autoconservazione. Raggiungere un’unità europea democratica ed efficace significa costruire una federazione e, quindi, il trasferimento di una parte sostanziale del potere dalle istituzioni nazionali a quelle sopranazionali. E’ pertanto naturale che le classi detentrici del potere politico nazionale tendano pervicacemente a conservare il loro potere e si orientino, di conseguenza, verso la cooperazione internazionale su base confederale piuttosto che verso il fede-ralismo sopranazionale.
Tre sono le implicazioni fondamentali per la lotta federalista che derivano da questa situazione caratterizzante il problema dell’unificazione europea. In primo luogo, è indispensabile che si formi ed operi con continuità un soggetto politico autonomo rispetto ai governi e ai partiti nazionali, in grado quindi di spingerli a fare ciò che spontaneamente non possono fare, cioè a superare i limiti internazionalistico-confederali della loro politica europeistica. Deve dunque attivarsi una forza federalista che abbia come unico obiettivo l’unificazione federale sopranazionale, che persegua l’unione di tutti coloro che sono favorevoli a questo obiettivo, indipendentemente dai loro orientamenti ideologici (purché appartenenti all’arco delle ideologie emancipatrici), che abbia una struttura sopranazionale, in modo da imporre un programma e una disciplina comuni a tutti i federalisti d’Europa, che infine sappia mobilitare l’opinione pubblica, pur senza partecipare alla lotta per il potere nazionale.
In secondo luogo, i federalisti devono imporre come procedura per realizzare l’unità europea un metodo costituente democratico (che si ispiri al modello della Convenzione costituzionale di Filadelfia del 1787, da cui nacque la Costituzione degli Stati Uniti d’America, cioè il primo Stato federale della storia) in alternativa al metodo delle conferenze intergovernative. In quest’ultimo caso protagonisti sono i rappresentanti dei governi che deliberano all’unanimità e in segreto e le loro proposte (i progetti di trattati) devono essere ratificate all’unanimità dagli Stati partecipanti all’unificazione. In tal modo le resistenze nazionalistiche sono in grado di impedire coerenti e risolutivi esiti federali. Per contro in una costituente sopranazionale protagonisti sono i rappresentanti dei cittadini europei (favorevoli in grande maggioranza ad una unione efficace e democratica, data l’esperienza dell’impotenza e dell’inadeguatezza degli Stati nazionali), le delibere sono trasparenti e a maggioranza ed è prevista la ratifica a maggioranza. Il che rende possibili esiti federali. La terza direttiva della strategia della lotta federalista concepita da Spinelli consiste nello sfruttamento delle contraddizioni dell’integrazione europea che i governi devono promuovere in conseguenza della crisi strutturale degli Stati nazionali. Il processo integrativo non conduce automaticamente alla Federazione europea a causa della tendenza dell’autoconservazione del potere che spinge alle inadeguate scelte funzionalistico-confederali e al rinvio sine die dell’unificazione federale. D’altra parte questo approccio alimenta delle gravi contraddizioni che sono sostanzialmente individuabili nei deficit di efficienza e di democrazia. Il primo deficit consiste nel fatto che le istituzioni dell’integrazione europea, fondate in ultima analisi sulle decisioni unanimi dei governi nazionali, sono troppo deboli e si dimostrano incapaci di funzionare adeguatamente nei momenti difficili, quando i problemi da affrontare sono troppo impegnativi. Di conseguenza, i progressi ottenuti nei momenti più favorevoli vengono messi in discussione nei momenti critici. Ne deriva una frustrazione delle aspettative alimentate dallo sviluppo dell’integrazione europea, la quale può essere trasformata in sostegno a soluzioni federali. Il deficit di democrazia è legato al fatto che, in assenza di istituzioni autenticamente federali, si ha il trasferimento di decisioni di importanza cruciale a livello sovranazionale senza che a tale livello venga realizzato un sistema compiutamente democratico. Questa situazione è destinata a produrre un disagio nei partiti e nell’opinione pubblica di orientamento democratico che può essere indirizzato verso l’idea della democrazia sopranazionale (cioè federale). La strategia federalista deve dunque costantemente sforzarsi di sfruttare, attraverso una pressione fondata sulla mobilitazione dei cittadini, queste contraddizioni dell’integrazione europea e le situazioni critiche che inevitabilmente ne derivano per strappare l’attivazione di una procedura costituente democratica e, quindi, ottenere la costituzione federale europea.
 
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Abbiamo visto l’essenza del discorso federalista di Spinelli e va sottolineato che il carattere innovativo e la solidità di questo discorso sono le fondamenta su cui si è costruito un movimento politico (il Movimento Federalista Europeo) capace di presentarsi con una fisionomia e un ruolo autonomi rispetto alle organizzazioni politiche tradizionali e di esercitare, guidando uno schieramento europeista sopranazionale, un’influenza effettiva sul processo di unificazione europea[7]. Dobbiamo ora vedere le integrazioni e gli approfondimenti di importanza fondamentale che sono stati introdotti da Mario Albertini rispetto alle acquisizioni di Spinelli, e che hanno fornito un contributo decisivo allo sviluppo della lotta federalista.
Riassumendo schematicamente questo contributo[8] si può dire anzitutto che esso coincide con l’impegno a costruire una forza politica federalista realmente e permanentemente autonoma e perciò in grado di guidare l’insieme delle organizzazioni europeistiche ed anche gli europeisti presenti nei partiti, nelle organizzazioni economico-sociali e nel mondo della cultura verso una lotta efficace per la costituente e per la Federazione europea. Albertini, che all’inizio degli anni ’60 sostituì Spinelli alla guida del MFE, fu il principale animatore sul piano teorico e pratico di questi impegno per l’autonomia federalista che può essere schematizzato nella teorizzazione di tre principi fondamentali sul piano politico, organizzativo e finanziario[9].
Il primo principio, quello dell’autonomia politica, si è manifestato attraverso il rifiuto, da parte del nucleo di militanti che hanno assicurato la direzione e la gestione del MFE, di identificarsi con un qualsiasi partito nazionale. Questa scelta ha permesso, nei momenti opportuni, di instaurare utilissimi rapporti di collaborazione e di alleanza tattica con i partiti democratici salvaguardando allo stesso tempo pienamente l’indipendenza del MFE. Il secondo principio riguarda la formazione e la selezione dei militanti. Esse sono state guidate dall’esigenza di evitare i condizionamenti che sarebbero stati imposti al movimento da un apparato amministrativo pesante e costoso, dipendente perciò inevitabilmente, per la sua sopravvivenza, essenzialmente da finanziamenti esterni. Di conseguenza si è stabilito che tutti i militanti federalisti fossero militanti a mezzo tempo, con un lavoro in grado di garantire la loro indipendenza economica, pur consentendo loro di disporre di un sufficiente tempo libero da dedicare all’attività federalista. In tal modo si è potuta creare un’organizzazione poco costosa e, quindi, totalmente al riparo da qualsiasi tentativo di pressione o di ricatto da parte di qualunque forza politica o economica. Il terzo principio è infine quello dell’autonomia finanziaria e ha avuto come sua istituzione specifica l’autofinanziamento. Esso significa concretamente che i militanti reclutati da allora nel MFE hanno sempre saputo che il lavoro federalista non avrebbe mai procurato loro denaro, ma al contrario gliene sarebbe costato. Questa impostazione, che ha da allora costituito la base finanziaria dell’autonomia del MFE, non ha impedito che esso ricevesse anche finanziamenti esterni, ma essi sono stati usati soprattutto per finanziare azioni specifiche, mentre la struttura permanente dell’organizzazione ha sempre funzionato grazie alle sue “risorse proprie”, il che ha rappresentato una condizione ulteriore dell’impermeabilità a qualsiasi influenza esterna.
Al di là di tutto ciò, il fondamento basilare dell’autonomia politica, organizzativa e finanziaria del MFE, che Albertini è riuscito a realizzare come acquisizione permanente, è rappresentato dall’autonomia culturale. Solo una forte motivazione culturale (oltre ovviamente a quella morale), cioè la convinzione che la dottrina federalista avesse qualcosa di realmente nuovo da dire, in termini di valori e di comprensione della situazione storica, rispetto al pensiero politico dominante, poteva in effetti alimentare un impegno a lungo termine, spesso faticoso e difficile, e che rinunciava alle motivazioni del potere e del denaro, in un numero di militanti sufficiente per costituire una forza federalista autonoma in grado di incidere sulla realtà. Ebbene, Albertini ha svolto precisamente un grandioso lavoro di approfondimento teorico del federalismo che ha fatto emergere questa motivazione ed ha altresì arricchito in modo molto grandioso il pensiero federalista. Due sono i risultati più significativi di questo approfondimento teorico che occorre qui, sia pure molto sinteticamente, segnalare.
In primo luogo, Albertini ha svolto una critica radicale dell’idea di nazione[10] che, sviluppando talune intuizioni di Proudhon, ha messo in luce come le nazioni non siano realtà preesistenti agli Stati nazionali, bensì un riflesso ideologico dell’appartenenza agli Stati burocratici e accentrati affermatisi nel continente europeo a partire dalla rivoluzione francese. In sostanza la coscienza nazionale come fatto diffuso nella popolazione è stata non la premessa ma la conseguenza della formazione degli Stati nazionali e di programmi politici diretti a imporre l’unità di lingua, di cultura e di tradizioni in tutto il territorio dello Stato. Il che ha comportato la sistematica distruzione delle nazionalità spontanee, cioè del senso di appartenenza alle comunità naturali (l’orizzonte territoriale della nascita e della vita degli individui, le nazioni nel senso etimologico del termine) e il trasferimento allo Stato di questo senso di appartenenza, in modo da creare un lealismo esclusivo e, quindi, la base di una politica estera aggressiva.
Questa critica dell’idea di nazione è diretta a superare un grave limite delle ideologie politiche – quella liberale, quella democratica e quella socialista – a cui si ispirano i partiti democratici europei. Queste ideologie sono universaliste e, quindi, favorevoli in termini di principio all’unificazione sopranazionale. Nello stesso tempo però tendono a mitizzare gli Stati nazionali che sono visti più come istituzioni “naturali”, in quanto fondate sulle “preesistenti” (ma si tratta appunto di una automistificazione ideologica) nazioni, che come istituzioni storicamente determinate e perciò storicamente superabili. Pertanto tendono strutturalmente (anche per questo motivo, oltre che per la tendenza dei partiti nazionali a conservare il proprio potere) a concepire l’unificazione sopranazionale più come cooperazione fra Stati nazionali che come superamento della sovranità nazionale assoluta.
Inoltre, va sottolineato che il lavoro teorico di Albertini centrato sulla demistificazione dell’ideologia nazionale costituisce un’integrazione di grandissima importanza del pensiero federalista elaborato da Spinelli. Nel discorso sviluppato dal fondatore del MFE sono in effetti centrali il concetto di crisi storica dello Stato nazionale sovrano e le indicazioni sugli strumenti e le azioni politiche concrete attraverso cui perseguire il superamento di questo sistema istituzionale, ma manca l’elaborazione di una critica scientifica dell’idea di nazione, che di tale sistema costituisce il fondamento ideologico.
A questo grande contributo di Albertini al pensiero federalista se ne aggiunge un altro ancora più importante, che costituisce anch’esso il superamento di un limite del discorso di Spinelli. Come si è visto, il contributo teorico primario di Spinelli coincide con la tesi della priorità della lotta per il federalismo sopranazionale rispetto alle lotte per la trasformazione interna in senso liberale, democratico e della giustizia sociale degli Stati nazionali. Ciò significa che il federalismo contiene la risposta alle sfide cruciali emergenti dal processo storico trainato dalla rivoluzione industriale avanzata, e che esso indica quindi la strada del progresso storico nel momento in cui si stanno esaurendo le spinte provenienti dalle grandi ideologie emancipatrici di origine illuministica. A questa visione si accompagna, d’altro canto, una concezione troppo angusta della dottrina federalista, che è intesa essenzialmente come la teoria dello Stato federale, cioè come una tecnica costituzionale in grado di consentire la coesistenza pacifica di un insieme di governi indipendenti e coordinati. Una simile impostazione è chiaramente non all’altezza della convinzione che il federalismo tracci la strada del progresso storico. Perché questa affermazione sia solidamente fondata, nel corpo della dottrina federalista deve necessariamente rientrare la definizione della specificità del valore guida dell’impegno federalista e del suo rapporto con i valori delle ideologie emancipatrici di cui il federalismo è l’erede, e vi deve rientrare altresì una visione chiara e vigorosa del processo storico che rende politicamente attuale il federalismo come risposta valida alle sfide cruciali della nostra epoca e, quindi, l’indicazione degli strumenti concettuali con cui affrontare rigorosamente il problema della comprensione del processo storico. Qui interviene in modo grandiosamente chiarificatore Albertini con il discorso secondo cui il federalismo, lungi dall’essere semplicemente la teoria dello Stato federale, è un’ideologia politica in senso pieno. Esso è cioè paragonabile al liberalismo, alla democrazia e al socialismo ed è in grado di recepire nel proprio corpo dottrinale i contributi fondamentali proposti dalle grandi ideologie emancipatrici del mondo moderno e, nello stesso tempo, di superarne i limiti e di ottenere una comprensione più adeguata dei fondamentali problemi della nostra epoca[11].
Secondo questa visione il federalismo è, al pari delle altre ideologie, caratterizzato in primo luogo da un aspetto di valore. Se per il liberalismo il fine ultimo è la libertà, per la democrazia l’uguaglianza e per il socialismo la giustizia sociale, per il federalismo è la pace. Essa non è alternativa rispetto a questi valori, ma li ricomprende in sé a un livello più alto, in quanto l’eliminazione dell’anarchia internazionale (implicante la subordinazione di ogni altro valore all’esigenza della sicurezza dello Stato) è la condizione imprescindibile del pieno spiegamento della libertà, dell’uguaglianza e della giustizia sociale e, quindi, della possibilità di eliminare ogni forma di subordinazione della persona umana da parte dei suoi simili. In questa prospettiva Albertini recupera le fondamentali tesi politiche, giuridiche e storico-filosofiche di Kant (il culmine dell’Illuminismo), la cui attualità è stata messa all’ordine del giorno dalla crisi degli Stati nazionali e dalla crescente interdipendenza dell’azione umana al di là delle frontiere nazionali, di cui l’integrazione europea è la manifestazione più avanzata[12]. Questi fenomeni vengono considerati da Albertini come premesse della federazione mondiale, cioè della realizzazione della pace perpetua. Ed egli giunge ad affermare con eccezionale chiarezza che il superare con la federazione europea il lealismo nazionale esclusivo significherebbe il superamento della cultura della divisione del genere umano, implicante la legittimazione del dovere di uccidere per la nazione, e l’affermazione del diritto di non uccidere nella prospettiva della sua piena attuazione con la federazione mondiale. Le guerre mondiali, la scoperta delle armi nucleari, l’interdipendenza internazionale crescente suggeriscono che si stia avverando la previsione di Kant, secondo la quale solo l’esperienza della distruttività della guerra, in combinazione con lo spirito commerciale (implicante appunto una crescente interdipendenza), avrebbe indotto gli Stati a rinunciare alla loro “libertà selvaggia” e a piegarsi a una legge comune.
Il federalismo è, in secondo luogo, caratterizzato da un aspetto di struttura e cioè dall’indicazione dello Stato federale come la forma di organizzazione del potere che permette di superare le strutture chiuse e accentrate dello Stato nazionale verso il basso con la formazione di vere e proprie autonomie regionali e locali e verso l’alto con la realizzazione di effettive forme di solidarietà politiche e sociali al di sopra degli Stati nazionali.
In terzo luogo il federalismo è caratterizzato da un aspetto storico-sociale cioè dall’individuazione del contesto storico nel quale è possibile realizzare un valore attraverso una struttura adeguata del potere. Questo aspetto è indicato nel superamento della divisione del genere umano in classi e in nazioni antagonistiche, che rende possibile sviluppare il pluralismo tipico della società federale, espresso dal principio dell’unità nella diversità. Infatti nelle società federali il lealismo verso la società complessiva coesiste con quello verso le comunità territoriali più piccole (regioni, province, città, quartieri) in un rapporto non gerarchico. Questo equilibrio sociale si è sviluppato solo parzialmente nelle società federali esistite finora, perché da una parte, la lotta di classe (che potrà essere superata solo con il pieno sviluppo della rivoluzione scientifica implicante il superamento della condizione proletaria) ha fatto prevalere il senso di appartenenza alla classe su ogni altra forma di solidarietà sociale e ha impedito che si radicassero forti legami di solidarietà nelle comunità regionali e locali e, d’altra parte, la lotta tra gli Stati sul piano internazionale (che potrà essere sradicata solo con il processo di unificazione del mondo intero, che avrà nella federazione europea il suo punto di partenza) ha determinato il rafforzamento del potere centrale a scapito dei poteri locali[13].
Nel quadro della concezione del federalismo come ideologia, va ancora aggiunto, Albertini fornisce una periodizzazione molto convincente delle fasi di sviluppo del pensiero federalistico. La prima fase, che va dalla Rivoluzione francese alla prima guerra mondiale, è caratterizzata dall’affermazione, sia pure soltanto sul piano dei principi, della componente comunitaria e cosmopolitica del federalismo contro gli aspetti autoritari e bellicosi dello Stato nazionale. Nella seconda fase, che va dalla prima alla seconda guerra mondiale, i criteri del federalismo furono impiegati per interpretare la crisi dello Stato nazionale e del sistema europeo delle potenze. Nella terza fase, cominciata dopo la seconda guerra mondiale e tuttora in corso, l’impiego degli schemi concettuali e degli strumenti politici e istituzionali del federalismo serve a risolvere la crisi dell’Europa.
La costruzione della Federazione europea si presenta dunque come l’evento cruciale della nostra epoca, ossia come la prima affermazione del corso federalistico della storia, che culminerà con la realizzazione della pace attraverso la federazione mondiale. Il federalismo ha dunque nel nostro tempo un ruolo analogo a quello svolto in passato dalle ideologie liberale, democratica e socialista: attraverso l’elaborazione e l’affermazione della cultura della pace, propone un progetto di società capace di dare una risposta ai maggiori problemi della nostra epoca (da quelli posti dall’interdipendenza globale, a quelli della sicurezza, a quelli ambientali, che necessitano sia una riconversione in senso ecologico del modello economico che una pianificazione articolata del governo del territorio) e riapre la possibilità di pensare l’avvenire, che si era offuscata nell’ambito delle ideologie tradizionali a causa dell’esaurimento della loro spinta rivoluzionaria[14].
La convinzione raggiunta da Albertini che il federalismo sia, nel senso che abbiamo visto, un’ideologia, apre un campo enorme di riflessione teorica e di sforzo analitico, necessari per fondare su basi solide e rigorose questa convinzione. Qui si colloca l’impegno intellettuale di Francesco Rossolillo e si ritrova, in sostanza, il filo conduttore dei suoi scritti, che hanno in effetti fornito un contributo di valore straordinario al chiarimento della concezione del federalismo come ideologia. L’aspetto a mio parere più importante di questo contributo, e sul quale in questa sede intendo richiamare l’attenzione, è rappresentato in particolare dallo sforzo di sviluppare un discorso sulla questione del senso della storia e del suo rapporto con l’azione politica che coincide con il titolo del saggio più importante di Rossolillo e che è ripreso come titolo della raccolta dei suoi scritti[15].
Va sottolineato anzitutto che la concezione del federalismo come ideologia non può non affrontare la questione del senso della storia e del suo rapporto con l’azione politica. Se si è convinti che il federalismo è l’orientamento teorico-pratico che indica la via del progresso, dell’avanzamento cioè verso un mondo migliore, si deve avere un criterio per giudicare ciò che è meglio e ciò che è peggio, in modo da poter stabilire cos’è il progresso. Questo implica innanzitutto il rifiuto del relativismo e la necessità di fare riferimento all’esistenza di valori assoluti, che trovano il proprio fondamento nell’essenza della persona umana. L’idea del progresso comporta quindi che la storia abbia un senso dato dalla progressiva (ancorché asintotica e interrotta da momenti di arretramento) realizzazione dei valori che costituiscono l’essenza della persona umana. Se ciò è chiaro, l’impegno cruciale consiste nell’affrontare in modo convincente e rigoroso questo discorso che si colloca nel contesto prettamente filosofico. Con le sue riflessioni Rossolillo ha fornito al riguardo un contributo di cui i federalisti non possono non tenere conto e che cerco di presentare qui nei suoi aspetti essenziali.
Comincio citando un brano del saggio Federalismo ed emancipazione umana, che è stato scritto nel 1990, ma che contiene la professione di fede che sta alla base della riflessione filosofica condotta da Rossolillo a partire dal 1966. “Chiunque decida di impegnarsi in politica per un mondo migliore – e non nell’intento di illustrare se stesso o di acquistare potere – fa perciò stesso una duplice professione di fede, quale ne sia il suo grado di consapevolezza. Egli deve credere che la parola ‘migliore’ abbia, almeno virtualmente, lo stesso contenuto semantico per tutti gli uomini, sia per i contemporanei che per coloro che verranno, cioè si applichi a situazioni più vicine di quella attuale ad un modello di convivenza fondato su valori condivisi da tutti. Ciò significa che egli deve credere all’esistenza di valori assoluti. Ed egli deve insieme credere che questi valori tendano a realizzarsi progressivamente nella storia, perché chi si batte per trasformare le condizioni della convivenza non può non pensare che i risultati dei suoi sforzi, nel concatenarsi degli eventi, potranno essere a loro volta la causa di irreversibili involuzioni o ritorni indietro nel cammino dell’emancipazione umana, il che accadrebbe se la storia fosse un succedersi tumultuoso e casuale di eventi contraddittori, cioè fosse priva di senso”[16].
La base su cui, secondo Rossolillo (che sviluppa e approfondisce a questo riguardo spunti presenti nell’insegnamento di Albertini), si può costruire in modo convincente il discorso sul senso della storia è la filosofia della storia di Kant, che diventa un elemento integrante fondamentale della concezione del federalismo come ideologia. Dalle riflessioni di Kant[17] emerge in sostanza che il senso della storia – dominata dalla tensione fra ragione ed istinto – consiste nella costruzione, attraverso un progresso infinito, di un mondo fondato sulla ragione e sull’autonomia morale. I momenti fondamentali del progresso storico sono: la formazione dello Stato che, superando la libertà selvaggia degli uomini propria dello stato di natura, elimina al proprio interno la violenza nelle relazioni tra gli uomini; la trasformazione in direzione repubblicana dello Stato, che significa concretamente il progresso in direzione liberale e democratica; la pace, e cioè l’eliminazione della violenza nelle relazioni internazionali, attraverso il superamento, con la federazione, della libertà selvaggia (cioè della sovranità assoluta) degli Stati: questo progresso renderà possibile la piena realizzazione del regime repubblicano, in quanto supererà alla radice il primato della sicurezza (la legge della ragion di Stato imposta dall’anarchia internazionale) e aprirà la strada al regno dei fini, vale a dire alla comunità in cui tutti gli uomini tratteranno i loro simili sempre come fini e mai come mezzi, ossia una condizione in cui si spiegherà pienamente l’essenza dell’uomo fondata sulla ragione e sull’autonomia morale.
Il progresso storico così inteso ha la sua forza propulsiva nella tensione fra ragione ed istinto: nel linguaggio kantiano esso è il frutto di un “disegno della natura” animato dal fattore oggettivo della “insocievole socievolezza”. In sostanza, gli uomini sono costretti, per sopravvivere come specie, ad entrare in rapporti sempre più stretti ed intensi fra di loro, fatto che produce inevitabilmente conflittualità e, allo stesso tempo, la necessità di superarla, sempre per poter sopravvivere. Da qui la spinta al progresso nelle sue tappe successive fino al traguardo della pace perpetua.
Come abbiamo già visto parlando di Albertini, Kant fornisce anche due indicazioni concrete e veramente illuminanti sulla spinta oggettiva verso la pace derivante dall’insocievole socievolezza degli uomini. Si tratta dello spirito commerciale – che comporta un’interdipendenza crescente (contenente vantaggi e conflitti) che si estende gradualmente al mondo intero – e della crescente distruttività delle guerre, legata all’incessante progresso scientifico e tecnico, che alla lunga apre la strada all’autodistruzione dell’umanità e pone il problema di realizzare un sistema generale ed efficace di soluzione pacifica dei conflitti.
Se la filosofia della storia di Kant fornisce, come chiarisce Albertini, la struttura essenziale su cui poggia la visione del processo storico che è alla base della concezione del federalismo come ideologia, occorre d’altra parte, secondo Rossolillo, individuare e mettere in luce i fondamenti teorici della costruzione kantiana della storia intesa come progresso. A questo scopo Rossolillo analizza e chiarisce il nesso fra la filosofia della storia di Kant e la sua filosofia morale.
L’assunto basilare della filosofia morale di Kant consiste nella tesi secondo cui, se il fondamento insostituibile della conoscenza è dato dalle categorie a priori (trascendentali) della ragione pura, il fondamento indispensabile dell’impegno morale (della ragion pratica) è dato dall’imperativo categorico, cioè dal dovere per se stesso, che è il contenuto della coscienza – un fatto non dimostrabile, ma senza cui non ha senso parlare di impegno morale e di moralità. Sull’imperativo categorico – che si traduce nelle tre massime della morale: l’universalità della norma, il dovere di trattare ogni persona sempre come fine e mai come mezzo, l’impegno a realizzare l’universale regno dei fini – si fonda la teoria del primato della ragion pratica, partendo dalla quale Kant individua nella Critica della ragion pratica i suoi tre noti postulati: l’immortalità dell’anima, la libertà del volere, l’esistenza di Dio[18].
Ebbene, secondo Rossolillo, questo modo di procedere trova una sua estensione nella parte finale della Critica del giudizio in cui si legge: “Quello di fine ultimo è soltanto un concetto della nostra ragion pratica, e non può essere ricavato da dati dell’esperienza in vista di un giudizio teoretico sulla natura né essere riferito alla conoscenza della stessa. Non vi è alcun uso possibile di questo concetto se non per la ragion pratica secondo leggi morali; e il fine ultimo della creazione è quella costituzione del mondo che coincide con ciò che noi possiamo indicare come determinato secondo leggi, cioè con il fine ultimo della nostra ragion pura pratica, nella misura in cui è pratica. Ora, noi abbiamo, grazie alla legge morale, che ci impone tale fine ultimo, e ciò da un punto di vista pratico, e cioè per applicare le nostre forze alla sua realizzazione, un fondamento per ammettere la possibilità, la realizzabilità di tale fine ultimo e quindi anche…una natura delle cose che si accordi con tutto ciò.”[19]
In sostanza, Kant sostiene che esiste una tendenziale coincidenza fra la moralità e la natura (ossia tra moralità e storia, intesa come il processo nel corso del quale si costruiscono le condizioni per l’emergere della moralità). Secondo Rossolillo c’è dunque un quarto postulato, benché non esplicito, della ragion pratica, che coincide con l’idea della storia come progresso infinito verso la costituzione di un mondo in cui la moralità si spieghi pienamente: se così non fosse, verrebbe a cadere la stessa ragion d’essere dell’impegno morale, che sarebbe destinato a naufragare nell’insensatezza di un mondo privo di significato e di prospettive.
Rossolillo, inoltre, si propone di integrare il discorso di Kant con una visione più adeguata del ruolo svolto dall’azione consapevole degli uomini nel processo storico. In effetti, nella visione kantiana, la coincidenza tendenziale fra storia e moralità viene descritta come determinata da un disegno della natura (che si serve dell’insocievole socievolezza degli uomini), e il momento dell’intervento attivo della persona umana guidata dall’imperativo morale non viene chiarito. Qui c’è un limite condizionato dalla situazione storica. Nell’epoca in cui Kant elabora la sua filosofia della storia il ruolo attivo dell’uomo (e quindi del suo impegno morale) nel processo storico comincia appena a manifestarsi (la Rivoluzione francese ne è il primo esempio). L’esperienza dello sforzo deliberato di cambiare il mondo, di farlo progredire applicando alla realtà sociale un pensiero politico – vale a dire le ideologie liberale e democratica (ed embrionalmente quella socialista) che emergono dall’Illuminismo – non è ancora diffusa; la base materiale di tale esperienza si trova infatti nell’avvio della rivoluzione industriale, ancora agli albori ai tempi di Kant. Perciò nella sua filosofia della storia c’è uno scarto profondo fra l’impegno morale e il processo storico. L’impegno morale è concepito solo come morale assoluta (l’imperativo categorico) e non si individua il modo in cui la moralità (attraverso l’azione consapevole degli individui) può diventare agente del divenire storico.
Il superamento di questo limite di Kant è realizzabile, secondo Rossolillo, integrando la filosofia kantiana della storia con la teoria della morale di Max Weber, che introduce la distinzione fra etica assoluta o dei principi ed etica della responsabilità[20]. Quest’ultima, a differenza della prima (che significa obbedienza al comando della coscienza indipendentemente dalle conseguenze dell’azione comandata), prescrive il raggiungimento di un fine, e quindi la necessità, in vista del fine, di tenere conto delle conseguenze possibili e prevedibili. Essa rispecchia il fatto che con la rivoluzione industriale l’uomo acquista una possibilità (che non esisteva nel quadro dei precedenti modi di produzione) di padroneggiare la realtà, e quindi di cercare di determinarla.
L’etica della responsabilità rappresenta pertanto la modalità attraverso la quale l’impegno morale diventa un agente della storia e, in quanto tale, strumento consapevole del suo sviluppo progressivo. Come già la morale della convinzione, essa postula – anche se in Weber, che aveva una Weltanschauung relativista, ciò non emerge – una concezione della storia come progresso indefinito verso una condizione migliore: proprio per il fatto di affermare che (entro limiti comunque definiti) il fine giustifica i mezzi, essa pone innanzitutto il problema delle basi su cui fondare la giustificazione dei fini cui si sacrifica la purezza dell’imperativo categorico; e pertanto non può non accompagnarsi ad una visione rigorosa del processo storico inteso come progresso indefinito verso un condizione migliore: “Infatti noi sappiamo che le conseguenze delle nostre azioni provocheranno a loro volta altre conseguenze che sfuggiranno al nostro controllo: e se fosse pensabile che queste ulteriori conse-guenze saranno degenerative (quanto meno definitivamente degenerative), cioè che la storia fosse casuale, noi non potremmo mai essere moralmente legittimati a trasgredire agli imperativi dell’etica dei principi, a dire una sola menzogna, in nome di un fine che, nella catena dello sviluppo storico, potrebbe divenire a sua volta la causa di catastrofi, di guerre e di dolori”[21].
Questo discorso, di cui ho cercato di presentare l’essenza, sul nesso fra la filosofia della storia di Kant e la sua filosofia morale – in particolare sulla concezione progressiva della storia come quarto postulato (implicito) della ragion pratica – e sull’integrazione delle tesi kantiane con la distinzione weberiana fra l’etica dei principi e l’etica della responsabilità costituisce, a mio avviso, il contributo più importante dato da Rossolillo al chiarimento della concezione del federalismo come ideologia. Si tratta di un approfondimento del pensiero federalista, intorno a cui si deve ulteriormente lavorare – essendo il federalismo, come dice Rossolillo, un pensiero in divenire, un compito assai più che un risultato[22] –, ma che rappresenta una base imprescindibile per chi si sforza di essere pienamente consapevole della centralità del federalismo come risposta alle sfide della nostra epoca.
Un’ultima osservazione. Un discorso come quello federalista della scuola albertiniana che rifiuta il relativismo e crede quindi nell’esistenza di un’essenza della persona umana (il fondamento dei valori assoluti), nella ricerca della verità (di cui nessuno ovviamente ha il monopolio), nella storia come progresso indefinito verso un mondo migliore (che non implica né determinismo, né semplicistico ottimismo), è in contrasto stridente con le tendenze oggi molto diffuse orientate al relativismo, allo scetticismo, al “pensiero debole”, che vedono implicazioni totalitarie in ogni tentativo di comprensione storico-sociale globale e, quindi, in ogni visione della storia come progresso. Queste tendenze sono, a ben vedere, un riflesso passivo della crisi delle grandi ideologie emancipatrici, dell’incapacità di capire che, di fronte all’esaurimento della loro spinta rivoluzionaria, il progresso può essere pensato e perseguito concretamente con un’ideologia che superi questo esaurimento indicando la pace come l’obiettivo supremo della politica nella nostra epoca[23].
 
 


[1] Francesco Rossolillo, Senso della storia e azione politica (vol. I, Il senso della storia, vol. II, La battaglia per la Federazione europea), a cura di Giovanni Vigo, Bologna, Il Mulino, 2009.
[2] Norberto Bobbio, Il federalismo nel dibattito politico e culturale della Resistenza (relazione tenuta a Milano nel 1973 in occasione del trentesimo anniversario della fondazione del Movimento Federalista Europeo), pubblicata in Altiero Spinelli, Il Manifesto di Ventotene, Bologna, Il Mulino, 1991.
[3] Si vedano: Lucio Levi, Altiero Spinelli, fondatore del movimento per l’unità europea”, in Altiero Spinelli e Ernesto Rossi, Il Manifesto di Ventotene. Prefazione di Eugenio Colorni, presentazione di Tommaso Padoa-Schioppa, Milano, Mondadori, 2006; Piero Graglia, Altiero Spinelli, Bologna, Il Mulino, 2008; Sergio Pistone, Introduzione alla ristampa anastatica del Manifesto di Ventotene, a cura della Consulta Europea del Consiglio Regionale del Piemonte, Celid, Torino, 2007 (4° ristampa).
[4] Si vedano Altiero Spinelli, La crisi degli Stati nazionali, a cura e con Introduzione di Lucio Levi, Bologna, Il Mulino, 1991 e Lucio Levi, Il pensiero federalista, Bari, Laterza, 2002, trad. ingl., Federalist Thinking, New York, University Press of America, 2008.
[5] Va sottolineato che Spinelli ha ben chiara la convergenza storica delle ideologie liberale, democratica e socialista nello Stato democratico moderno, che deve essere nello stesso tempo liberale e sociale. Spinelli, d’altro canto, supera i limiti dell’internazionalismo proprio di queste ideologie, che tendono a vedere la pace fra gli Stati come una conseguenza automatica dell’affermazione al loro interno dei principi, rispettivamente, liberali, democratici e socialisti. Sulla critica federalista all’internazionalismo si vedano in particolare: Lucio Levi, L’internationalisme ne suffit pas. Internationalisme marxiste et fédéralisme, Lyon, Fédérop, 1984; Id., “Internazionalismo”, in Enciclopedia delle Scienze Sociali, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1996; Corrado Malandrino, Federalismo. Storia, idee, modelli, Roma, Carocci, 1998.
[6] Cfr. Altiero Spinelli, Una strategia per gli Stati Uniti d’Europa, a cura e con Introduzione di Sergio Pistone, Bologna, Il Mulino, 1989.
[7] Rinvio ai miei scritti: The Union of European Federalists, Milano, Giuffrè, 2008 e “Altiero Spinelli and European Unification”, in The European Union Review, n. 1, 2009, ove sottolineo in particolare che i passi avanti fondamentali del processo di integrazione europea sono anche legati al fatto che si è potuto limitare il monopolio esclusivo dei governi nella funzione costituente introducendovi alcuni aspetti del modello di Filadelfia.
[8] Di Mario Albertini sono apparsi fra il 2006 e il 2010 Tutti gli scritti in nove volumi a cura di Nicoletta Mosconi, Bologna, Il Mulino. Sempre Nicoletta Mosconi ha curato i due volumi Una rivoluzione pacifica. Dalle nazioni all’Europa e Nazionalismo e federalismo, Bologna, Il Mulino, 1999, che raccolgono molti fra i più importanti scritti di Albertini.
[9] Al riguardo si vedano in particolare: Francesco Rossolillo, “I rapporti fra politica e cultura nell’esperienza del MFE italiano”, in Il Federalista, n. 1, 1984; Il Movimento Federalista Europeo, opuscolo pubblicato dal CESFER, Pavia, 1986; L’organizzazione della lotta federalista, opuscolo pubblicato dal CESFER, Pavia, 1986; Sante Granelli, Movimento, partito o gruppo di pressione?, opuscolo pubblicato dal CESFER, Pavia, 1993. Si vedano inoltre: Lucio Levi, Sergio Pistone, Trent’anni di vita del Movimento Federalista Europeo, Milano, Franco Angeli, 1973; Sergio Pistone, Il passaggio della leadership del Movimento Federalista Europeo da Altiero Spinelli a Mario Albertini; Giovanni Vigo, “Mario Albertini: l’azione militante”, in Fabio Zucca (a cura di), Europeismo e federalismo in Lombardia dal Risorgimento all’Unione Europea, Bologna, Il Mulino, 2007.
[10] Cfr. in particolare Mario Albertini, Lo Stato nazionale, Milano, Giuffrè,1960 (ultima ed.Bologna,Il Mulino, 1996), trad.francese, Lyon, Fédérop, 1978; Id., “Idea nazionale e ideali di unità supernazionale in Italia”, in Nuove questioni di storia del Risorgimento e dell’unità d’ Italia, Milano, Marzorati,1961; Id., “Per un uso controllato della terminologia nazionale e supernazionale”, in Il Federalista, n.1,1961; Id., Il Risorgimento e l’unità europea, Napoli, Guida, 1979. Per un inquadramento della critica di Albertini dell’idea di nazione nel dibattito teorico e politico su questo tema si vedano Sergio Pistone, Friedrich Meinecke e la crisi dello Stato nazionale tedesco,Torino, Giappichelli,1969 e Lucio Levi, Letture su Stato nazionale e nazionalismo, Torino, Celid, 1995.
[11] Cfr. in particolare Il federalismo e lo Stato federale. Antologia e definizione, Milano, Giuffrè, 1963, ripubblicato con aggiornamenti con il titolo Il federalismo, Bologna, Il Mulino, 1979 e 1993; Id., Vers une théorie positive du fédéralisme, in “Le Fédéraliste”, n.4, 1963; Id., “L’utopie’ d’Olivetti”, in Le Fédéraliste, n. 2,1965; Id., Proudhon, Firenze, Vallecchi, 1974. Si veda inoltre il capitolo “Il federalismo come ideologia”, in Lucio Levi, Il pensiero federalista, cit. e Flavio Terranova, Il federalismo di Mario Albertini, Milano, Giuffrè, 2003. Va precisato che il concetto di ideologia è utilizzato in questo contesto non nel senso (che risale a Marx) di automistificazione, bensì nel senso di dottrina politica, cioè di pensiero politico attivo orientato al cambiamento e quindi al progresso della società umana.
[12] Cfr. Immanuel Kant, La pace,la ragione e la storia, a cura di Mario Albertini, Bologna, Il Mulino, 1985.
[13] Va sottolineato che nel lavoro di chiarimento dell’aspetto storico-sociale del federalismo Albertini ha utilizzato una rielaborazione critica della teoria marxiana del materialismo storico e della teoria della ragion di Stato, proponendo in particolare una sintesi di grande valore euristico fra i due approcci. Al riguardo si vedano i due saggi di Luisa Trumellini, “Le riflessioni di Mario Albertini per una rielaborazione critica del materialismo storico” e “Le riflessioni di Mario Albertini sulla filosofia della storia di Kant e la sua integrazione con il materialismo storico”, in Il Federalista, 2008, n. 1 e 2009, n. 2. Si vedano inoltre: Sergio Pistone, Politica di potenza e imperialismo. L’analisi dell’imperialismo alla luce della dottrina della ragion di Stato, Milano, Franco Angeli, 1973; Id. Ludwig Dehio, Napoli, Guida,1977; Id. Ragion di Stato, Relazioni internazionali, Imperialismo, Celid, Torino, 1984; Lucio Levi, Crisi dello Stato e governo del mondo, Torino, Giappichelli, 2005; Roberto Castaldi, Federalism and Material Interdipendence, Milano, Giuffrè,2008.
[14] La concezione del federalismo come ideologia ha dei momenti di contatto e di convergenza con la concezione del federalismo integrale (avente in Alexandre Marc il suo massimo esponente) a cui deve essere riconosciuto come dice Lucio Levi (Il pensiero federalista, cit. p. 126) “il merito di aver avviato già negli anni 1930 una critica severa degli aspetti autoritari della struttura dello Stato nazionale e dell’ideologia che lo sostiene, e una riflessione di carattere globale sul federalismo come alternativa alla crisi del nostro tempo”. D’altra parte “Il suo limite teorico più grave sta nel non avere sviluppato un interesse primario nell’elaborare i concetti necessari a interpretare il corso oggettivo della storia… Un impegno federalista che non si voglia limitare semplicemente alla critica della realtà (alla sua negazione), ma si proponga anche di riuscire nell’azione concreta di cambiare il mondo, ha l’obbligo di non staccarsi mai dai processi reali, ma deve parteciparvi attivamente al fine di conoscerli. E ciò esige che si definiscano degli obiettivi interni al processo storico in corso e compatibili con le condizioni storiche nel nostro tempo. Per il federalismo integrale vale la stessa critica che Marx ed Engels rivolsero al “socialismo utopistico”, il quale invece di ricercare nel processo storico e nelle sue contraddizioni gli elementi per affermare l’alternativa socialista, si affidava semplicemente alla forza delle idee, alla buona volontà”. Per una visione panoramica del federalismo integrale si veda Alexandre Marc, Europa e federalismo globale, Firenze, Il Ventilabro, 1996.
[15] Il saggio di Rossolillo, Senso della storia e azione politica, Milano, Giuffré, 1972 è ripubblicato nella raccolta di scritti curata da GiovanniVigo. Il tema affrontato in questo saggio viene sviluppato in numerosi altri scritti raccolti da Vigo, fra i quali ricordiamo in particolare: Considérations sur l’essai sur Lénine de Lukacs (1966); Quelques considérations sur le concept de sens de l’histoire (1968); Note sulla coscienza rivoluzionaria (1970); Il federalismo nella società industriale (1984); Il federalismo e le grandi ideologie (1989); Federalismo ed emancipazione umana (1990); Appunti sulla sovranità (2001); Il rivoluzionario (2005).
[16] Senso della storia e azione politica, I vol., p. 657.
[17] I saggi fondamentali di Kant al riguardo sono: Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico; Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?; Congetture sull’origine della storia; Sopra il detto comune: “Questo può essere giusto in realtà, ma non vale per la pratica”; Per la pace perpetua. Progetto filosofico; Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio. Essi sono raccolti in Immanuel Kant, La pace, la ragione e la storia, a cura di Mario Albertini, cit.
[18] Va precisato che quando Kant parla di Dio pensa al teismo razionalistico dell’Illuminismo, non al Dio-persona della religione cristiana.
[19] Senso della storia e azione politica, I vol., pp. 45-46. Sulla coincidenza in Kant fra il concetto di regno universale dei fini e il concetto di comunità si veda Alberto Pirni, Kant filosofo della comunità, Pisa, Edizioni ETS, 2006.
[20] Cfr. Max Weber, “Politik als Beruf”, conferenza tenuta nel 1919 e pubblicata nella raccolta edita da Johannes Winckelmann, Gesammelte politische Schriften, Tübingen, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), 1958. Nell’edizione italiana di “Politik als Beruf” (“La Politica come professione” in Il lavoro intellettuale come professione, Torino, Einaudi, 1948) il traduttore Antonio Giolitti rende l’espressione Gesinnungsethik (che fa il paio con Verantwortungsethik: etica della responsabilità) con quella di “etica della convinzione”. Rossolillo preferisce “etica dei principi” pur rendendosi conto che anche questa traduzione è imperfetta perché la espressione Gesinnung non denota i principi considerati indipendentemente dagli uomini che credono in essi, bensì i principi di qualcuno. D’altro canto l’espressione “etica dei principi” è in grado di denotare con più chiarezza un atteggiamento che è guidato dall’obbedienza incondizionata a un principio e non mette in conto le conseguenze dell’azione; mentre l’elemento soggettivo della convinzione è presente anche nell’etica della responsabilità.
[21] Senso della storia e azione politica, vol. I, p. 49.
[22] Senso della storia e azione politica, vol. I, p. 655.
[23] Per la critica delle concezioni relativistiche, e che vedono implicazioni totalitarie in ogni sistema di pensiero aspirante a una visione e ad una emancipazione globale, è di grande valore il libro di Slavoj Zizek, In difesa delle cause perse. Materiali per la rivoluzione globale, Milano, Ponte alle Grazie, 2009.

 

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