IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno LI, 2009, Numero 3, Pagina 157

 

 

LO SVILUPPO DELL’ ISLAM NEL VECCHIO CONTINENTE E LA SFIDA DELLA LAICITA’
 
 
Se la battaglia per l’unità europea avrà successo la nostra società potrà finalmente disporre di nuovi strumenti per risolvere molte delle questioni che le vecchie Nazioni europee non riescono ad affrontare. Fra queste diventa sempre più urgente l’affermazione di un nuovo e più equilibrato rapporto tra Stato e religione e quindi una riformulazione del principio fondamentale di laicità. Negli ultimi decenni l’Europa si è profondamente trasformata in seguito al costante processo di secolarizzazione della società e all’arrivo di milioni di emigrati da tutti i continenti. Più la società europea diventa complessa e ricca di culture differenti, più la laicità diventa necessaria per garantire prosperità e pace. La laicità pone infatti le basi per una solidarietà di valori e di esistenza che trascende le differenze culturali e religiose, unendo tutti in una comune visione del futuro. Ma quanto a lungo le nostre società potranno permettersi il lusso della laicità? La decadenza economica e culturale degli Stati nazione europei, rende sempre meno credibili per i cittadini di nuova o antica generazione tanto la proclamazione di principi, quanto le promesse di felicità che stanno alla base del patto sociale.
Per comprendere quanto sia urgente ripensare la laicità all’interno di una statualità europea è interessante osservare le esperienze di integrazione delle comunità islamiche nei diversi Stati nazionali. Il numero dei musulmani nel vecchio continente è di circa 17 milioni con una distribuzione alquanto eterogenea: se in Francia e in Germania essi costituiscono circa il 5% della popolazione, in Gran Bretagna scendono al 3% e in Italia al 2%. La Francia e la Gran Bretagna hanno iniziato a ricevere emigrati dai loro imperi coloniali sin a partire dagli anni ‘50; in Germania l’immigrazione è iniziata negli anni ‘60 dalla Turchia, per poi intensificarsi negli anni ‘90 anche dall’Europa dell’Est e dall’Asia centrale; l’Italia ha conosciuto l’immigrazione dal nord Africa a partire dagli anni ‘80 e dai Balcani negli anni ‘90. Il processo migratorio legale e clandestino continua tuttora, nonostante i governi europei cerchino di ridurne i flussi. Tutti i Paesi dell’Europa occidentale sono stati costretti a fare presto i conti con la necessità di integrare i milioni di stranieri arrivati sul loro territorio. Le scelte nelle politiche di integrazione sono essenzialmente nazionali e rispecchiano la cultura politica e l’esperienza dei singoli Stati europei.
La Francia ha puntato su una rigorosa applicazione del principio di laicità e su un addestramento insistente ai valori della Repubblica. Ad essere integrate non sono le comunità di stranieri ma i singoli individui. Nel pieno rispetto della laicità nessun ente religioso riceve sussidi o finanziamenti dallo Stato e dal 2004 una legge vieta l’ostentazione di simboli religiosi nei luoghi pubblici. I laboratori del processo di integrazione sono stati per decenni la scuola pubblica, il servizio militare e le associazioni religiose. Se per anni questo modello è stato stimato e preso ad esempio da altri Paesi europei, lo scoppio delle violenze nelle banlieues negli ultimi anni ha reso evidenti i suoi limiti e quanto sia ancora difficile sentirsi Francesi per i cittadini di origine araba e asiatica. Le lacune del modello francese consistono per lo più nell’incapacità dello Stato di rendere credibili quei valori costituzionali posti a base della Repubblica e dell’identità nazionale. I continui tagli al Welfare, la scarsa attenzione per i fenomeni discriminatori nel mondo del lavoro e la generale immobilità sociale hanno reso il motto di «libertà, uguaglianza e fraternità», scritto a chiare lettere su ogni edificio pubblico, quasi una beffa per i giovani delle periferie discriminati e senza opportunità per il futuro. Dando uno sguardo allo stato dell’Islam francese, si possono notare due tendenze antitetiche. Da una parte i moderati si fanno portavoce di una evoluzione dell’Islam nel rispetto dei valori della laicità e della democrazia. Il rettore della grande Moschea di Parigi, Dalil Baubakeur in una recente intervista ha affermato che l’Islam deve evolversi e rispettare i diritti della persona, rifiutando precetti coranici come la poligamia, la lapidazione delle adultere, il matrimonio della bambine in pubertà e l’oppressione delle donne in genere. E’ questo il volto dell’Islam con cui le autorità francesi preferiscono dialogare: la presidenza Sarkozy sta addirittura riflettendo sull’opportunità di finanziare direttamente le moschee e i centri di cultura islamica moderati per favorire lo sviluppo di un Islam francese, sul modello del gallicanesimo. Una scelta simile può essere bene compresa se si pensa all’altra faccia dell’Islam, decisamente illiberale. A partire dagli anni ‘90 si sono sviluppati nelle periferie delle grandi città movimenti islamici chiaramente integralisti che fanno facilmente proseliti tra le fila degli emarginati e dei poveri. Ne è un esempio la diffusione del Safismo, movimento radicale influenzato dagli Imam sauditi che propone di imitare in tutto lo stile di vita del Profeta ed evitare le contaminazioni della cultura occidentale. Non è un segreto che all’interno di questi movimenti si operi il reclutamento di terroristi da mandare in Afghanistan e in Iraq o da utilizzare per attacchi nei Paesi occidentali. Evidentemente il fenomeno delle reislamizzazione delle periferie si sviluppa là dove le politiche di integrazione non riescono a fornire un senso di identità e a garantire un futuro dignitoso, soprattutto per i giovani. In questo contesto le parole di miele di predicatori estremisti fanno facilmente breccia nelle cuore di persone che soffrono dell’emarginazione sociale, della povertà e della discriminazione.
La Gran Bretagna ha realizzato un modello di integrazione fondato sul multiculturalismo, cioè sulla convivenza di più comunità etniche sul territorio britannico nel pieno rispetto reciproco. Evitando ogni forma di pressione che vada al di là del rispetto della legge e del pagamento delle tasse i cittadini britannici di origine pakistana o cinese possono condurre uno stile di vita pressoché identico a quello che conducevano nel loro paese di origine. La Gran Bretagna ha quindi optato per un processo di integrazione lento e poco invasivo delle diverse comunità che popolano il suo territorio. Dando prova di grande tolleranza nessuna legge inglese obbliga alcun cittadino a dimettere i propri segni religiosi o a fare professioni di fedeltà alla Regina. Gli effetti del modello di integrazione britannico sono evidenti sullo stato di integrazione della comunità islamica britannica di origine pakistana e indonesiana. Si tratta di gruppi tendenzialmente chiusi che hanno difficoltà a fondersi naturalmente nel tessuto sociale inglese. A confermare questa tendenza sono l’aumento delle scuole private musulmane dove le famiglie preferiscono mandare i loro figli oppure la comparsa nelle grandi città di tribunali coranici a cui la legge britannica riconosce giurisdizione per questione di divorzio o eredità. In generale, al di là della chiusura delle diverse comunità etniche e religiose, moltissimi britannici di origine straniera trovano il loro spazio nella società britannica specialmente in quei settori dell’economia, come quello bancario o finanziario, più competitivi e meno soggetti alla discriminazione. Solo una piccola parte dei musulmani ritiene che la democrazia non sia permessa nell’Islam, mentre la maggioranza partecipa al dibattito politico, vota, è eletta e si impegna nella società civile. Eppure specialmente negli ultimi dieci anni si stanno moltiplicando fenomeni preoccupanti: bande di inglesi e gang di pakistani si scontrano periodicamente nelle periferie di Londra e Manchester, giovani musulmani inglesi bruciano la bandiera britannica nei parchi pubblici, il tasso di «suicidi» delle ragazze islamiche che provano a emanciparsi da famiglie ultraconservatrici si è triplicato. Il fatto che a realizzare gli attentati terroristici di Londra siano stati terroristi islamici nati e cresciuti in Gran Bretagna è un’ulteriore prova delle pecche del sistema. Evidentemente i limiti del multiculturalismo britannico consistono nel processo di ghettizzazione della società e quindi nella creazione di blocchi separati diversissimi tra di loro per condizioni di vita e visione del mondo. E’ nei quartieri arabi di Londra e Manchester che la povertà e la frustrazione sociale oltre che la tendenziale chiusura delle comunità stesse hanno reso facile il gioco dei predicatori islamici fondamentalisti. Anche in Gran Bretagna come in Francia gli Imam non si sono formati in loco, ma vengono per lo più invitati dai Paesi islamici, mentre le moschee ricevono finanziamenti da fondazioni islamiche straniere e conservatrici. Ancora più che in Francia, lo Stato non ha saputo istituzionalizzare un dialogo efficace con le diverse autorità del mondo musulmano britannico, che viene sostanzialmente lasciato a se stesso.
Il modello tedesco ha conosciuto una costante evoluzione negli ultimi decenni in seguito alle trasformazioni del processo di immigrazione straniera. Se negli anni ‘60 e ‘70 i Gastarbeiter extracomunitari erano trattati come ospiti di passaggio, la crescita di comunità stabili come quella turca ha reso presto necessario un aggiornamento delle leggi tedesche, specialmente in materia di cittadinanza e assistenza sociale. Non è facile individuare un unico modello nazionale essendo molte le politiche intrecciate a quelle dell’integrazione, come la scuola, di competenza regionale. Evidentemente anche la Germania tenta un addestramento ai valori della Repubblica ma attraverso la cultura del lavoro. La disponibilità di un posto di lavoro è la condizione essenziale per poter vivere e mettere radici nella società tedesca. Secondo la legge sulla cittadinanza, modificata nel 2003 dalla coalizione rosso verde, per diventare cittadini tedeschi è necessario poter provvedere al proprio mantenimento e a quello della propria famiglia, essere residenti da almeno otto anni sul territorio tedesco, la rinuncia alla cittadinanza d’origine, l’assenza di condanne penali, una conoscenza sufficiente della lingua tedesca e il giuramento di fedeltà alla Costituzione. Lo stesso vale per l’assistenza sociale: gli immigrati che riescono ad ottenere lo stato di rifugiato possono godere di un assegno mensile, un’abitazione e persino l’assicurazione sanitaria, ma devono cercare in breve tempo un posto di lavoro. Evidentemente il buon funzionamento dello Stato sociale tedesco è un ottimo terreno per far crescere un senso di fedeltà alla Repubblica. Eppure, nonostante questi presupposti anche la Germania soffre di grandi difficoltà nell’integrare le comunità straniere. Kreuzberg e Leverkusen sono delle piccole città turche dentro i grandi agglomerati di Berlino e Colonia, dove molti faticano a parlare correttamente tedesco ed è diffusa la criminalità. La percentuale di abbandono delle scuole pubbliche tra i giovani di origine turca è tre volte superiore rispetto alla media nazionale e i delitti d’onore delle giovani ragazze islamiche non sono rari. Anche la presenza dei Tedeschi di nuova generazione nei palazzi del potere è piuttosto scarsa, nonostante rilevanti eccezioni, come il nuovo segretario dei Verdi Cem Oedzemir, giovane tedesco di origine turca. Per favorire l’integrazione e combattere la criminalità, a Berlino, a partire dal 2006, un poliziotto su dieci è di origine straniera. E’ interessante notare la dicotomia interna alla comunità musulmana tedesca, divisa tra quella turca e quella araba. La prima è essenzialmente indifferente alla questione palestinese e alle suggestioni dell’Islam radicale; il suo interesse principale è quello di fare pressione per una maggiore emancipazione dei Turchi nella società tedesca e per l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea. Le esperienze legate al fondamentalismo islamico si sono invece verificate nella comunità araba: si pensi a Muhammed Atta, leader dei dirottatori dell’undici settembre, che ha vissuto per lungo tempo ad Amburgo e al fatto che in Germania operavano i nuclei più importanti di Al-Qaeda in Europa. Ci sono dei motivi per cui i fondamentalisti privilegiano la Germania. Innanzitutto lo Sozialstaat sostiene economicamente gli immigrati, specialmente se acquistano lo status di rifugiato politico. In secondo luogo il sistema legale tedesco rende più facile lo sviluppo di attività clandestine, essendo impossibile, in assenza di prove certe, arrestare e condannare un fondamentalista.
Per concludere è urgente lo sviluppo di un Islam europeo che condivida i valori della civiltà occidentale e partecipi al suo sviluppo e al suo arricchimento. Al di là delle banali critiche dei movimenti xenofobi, anche l’Islam può vivere e prosperare in società laiche e democratiche, come ha dimostrato l’esperienza di milioni di cittadini europei di religione musulmana perfettamente integrati. Per favorire lo sviluppo di un Islam europeo è necessario innanzitutto arrestare l’influenza dei Paesi arabi nella formazione degli Imam che predicano in Europa ed emarginare gli estremisti che usano una visione fanatica della religione come strumento politico. In secondo luogo è bene istituire un dialogo costante tra Stato e religione nel rispetto del principio di laicità e di libertà religiosa. Per garantire questo processo è necessaria l’azione di uno Stato che offra e renda credibile un progetto di vita condiviso da tutti i cittadini al di là della loro fede. Non bisogna cedere alla tentazione di stigmatizzare le culture diverse dalla nostra e bollarle come incompatibili o addirittura nemiche. Le civiltà che popolano il pianeta, per il fatto stesso di portare questo nome, sanno confrontarsi e intrecciarsi a vicenda nel reciproco vantaggio. L’Europa, forte della sua storia millenaria di immigrazione e emigrazione, ha tutti gli strumenti per fare proprie le nuove culture che vivono sul continente arricchendosi della loro diversità. Nel caso dell’Islam è necessario lo sforzo dei Musulmani europei di condannare le suggestioni radicali che negano la vera religione e rendono difficile l’integrazione. Ma sono soprattutto gli Europei ad avere la grande responsabilità di accogliere i nuovi arrivati rendendoli partecipi della loro visione della società e della politica. Se l’integrazione è da sempre il motore del progresso di una civiltà, non tutte le comunità politiche nella Storia hanno saputo pagare i grandi costi economici e ideali che essa comporta. E’ quanto sta accadendo agli Stati-nazione Europei in declino tanto sul piano economico che su quello culturale. Diventa allora sempre più urgente la creazione di un soggetto politico nuovo che abbia la capacità di vincere la sfida dell’integrazione e arresti la decadenza a cui il Continente sembra condannato. La battaglia per l’unificazione europea è una sfida di civiltà: solo la creazione di una grande Stato federale garantirà le risorse per coinvolgere tutti gi cittadini europei in un progetto di felicità condivisa.
 
Luca Lionello

 

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