IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno LI, 2009, Numero 3, Pagina 197

 

 

IL 1989 E IL DIBATTITO SUL NUOVO QUADRO DELL’INTEGRAZIONE EUROPEA
 
 
Il 5 novembre 2009, alla vigilia dell’anniversario dei vent’anni dalla caduta del muro di Berlino, il Ministero degli affari esteri francese ha reso pubblici sul suo portale Internet molti documenti diplomatici del proprio archivio fino a quel momento classificati come riservati e quindi non consultabili.[1] Il materiale così messo a disposizione dal governo francese non solo fornisce elementi utili all’inquadramento storico di alcuni avvenimenti, ma conferma anche il ruolo contraddittorio giocato dalla Francia, da un lato nel promuovere lo sviluppo dell’integrazione europea e dall’altro nel cercare di tenerlo politicamente sotto controllo. Un ruolo perfettamente spiegato da Altiero Spinelli, secondo il quale tutti i governi nazionali sarebbero stati destinati fino alla fine ad essere nello stesso tempo strumenti ed ostacoli rispetto alla realizzazione dell’unità europea.
Ciò è particolarmente vero per la Francia. Infatti, ogniqualvolta negli ultimi sessant’anni il destino e il ruolo di questo paese sono stati messi gravemente in discussione dall’evoluzione del quadro storico-politico, è dal suo governo e dalla sua classe dirigente che è venuto l’impulso decisivo per promuovere un’iniziativa in campo europeo che consentisse — rilanciando l’Europa, cioè l’unico quadro credibile d’azione, dopo la seconda guerra mondiale, per ciascun paese europeo — di preservare una prospettiva di vita dello Stato francese (e non solo). Nella misura in cui la costruzione europea è stata ed è spiegabile come un processo dialettico, in cui il risultato è dipeso e continua a dipendere dall’interazione di interessi ed elementi in contrasto, l’analisi della politica europea della Francia si rivela dunque una chiave di lettura particolarmente utile.
Questo sembra confermato anche considerando la posizione della Francia alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, quando era ormai diffusa la consapevolezza, almeno nelle classi dirigenti dei principali paesi europei, che il quadro politico stesse cambiando in modo dirompente per gli equilibri di potere sia in Europa sia nel mondo. Ancora una volta le scadenze europee fornirono al governo francese l’occasione per esprimere agli altri partners europei i propri dubbi sul futuro dell’Europa. In questo quadro nell’autunno del 1989, in vista del vertice europeo di dicembre a Strasburgo, che avrebbe dovuto decidere la convocazione di una conferenza intergovernativa e il mandato da attribuirle per completare l’unione economica e monetaria, il governo francese propose agli altri undici partner europei un documento informale, un «non-papier» nel gergo diplomatico, per avviare una riflessione su «Comment concilier construction européenne et unité allemande», di cui ripubblichiamo di seguito un ampio estratto.[2] Il documento era stato predisposto dal Centre d’Analyse et de Prévision (CAP).[3] Lo stesso centro che, per esempio, nel 1973 aveva analizzato le possibili conseguenze negative dell’allargamento della Comunità alla Gran Bretagna e che aveva proposto un rafforzamento delle istituzioni comunitarie attraverso un’iniziativa francese per rilanciare l’Europa politica a partire dall’elezione diretta dell’Assemblea parlamentare europea, procedura che fino a quel momento era stata osteggiata dalla Francia.[4]
Per richiamare il contesto in cui questo documento venne prodotto, vale la pena ricordare che in quegli anni era sì molto diffusa la preoccupazione a proposito della riunificazione tedesca, ma solo pochi governi e organizzazioni federaliste europee si preoccuparono di promuovere un dibattito e una riflessione sulle sue implicazioni storico-politiche. Sicuramente solo pochi governi e federalisti europei erano consapevoli della necessità di pensare in termini nuovi il rilancio dell’Europa politica. E’ significativo in proposito il fatto che molti passaggi del documento francese del 1989 riecheggino preoccupazioni ed argomentazioni rintracciabili anche nei documenti e nelle prese di posizione delle organizzazioni federaliste europee in quegli anni. Del resto, quando si analizza con razionalità il problema dell’alternativa europea al declino degli Stati europei presi singolarmente, come ha fatto il CAP, diventa ineludibile la questione del se e del come trasformare una costruzione prevalentemente economica e monetaria in una federazione europea. In ogni caso nel 1989 i rischi della progressiva diluizione dell’Europa in un’area di libero scambio e dell’emarginazione degli Europei dalla politica mondiale (e tra questi in primo luogo dei francesi) erano così concreti, da non poter essere ignorati quando si prendeva in considerazione il futuro dell’Europa.
Il fatto poi che questi rischi siano tuttora attuali, non fa che confermare da un lato quanto fossero fondate quelle preoccupazioni e, dall’altro, quanto poco sia stato fatto per prevenirli e scongiurarli. Oggi è evidente che sarebbe stato necessario andare oltre il progetto di unione monetaria. Allora tutto ciò fu chiaro dal punto di vista dell’analisi agli estensori del «non-papier» del 1989 ma, dal punto di vista del che fare, lo fu solo nell’ambito del federalismo europeo. Come si legge dalla nota del CAP, la conferenza intergovernativa che era in procinto di essere convocata per decidere l’unione monetaria, avrebbe potuto e dovuto vedere il suo mandato esteso al dominio istituzionale. Con il senno di poi sappiamo che purtroppo questo tentativo di imprimere un’accelerazione al processo di integrazione era minato dalle persistenti (e in alcuni paesi crescenti) resistenze a cedere la sovranità; esso arrivava tardi ed evidentemente non aveva il pieno sostegno politico della Germania, che già estendeva il suo sguardo ad Est e non era disposta a barattare il sostegno internazionale alla propria riunificazione sull’altare di una divisione in campo europeo tra paesi favorevoli e contrari all’unità politica; l’Italia era distratta da una delle sue ricorrenti ed incombenti crisi di governo. Il risultato fu che il comunicato finale del vertice dei Capi di Stato e di governo europei riunitosi a Strasburgo l’8 dicembre 1989, non riprese affatto le considerazioni proposte dal CAP e rinviò alla primavera del 1990 la valutazione politica sulla riunificazione tedesca (Vertice di Dublino). Quel comunicato si limitò a confermare la convocazione della conferenza intergovernativa «destinata a elaborare una modifica del Trattato in vista delle tappe finali dell’Uem», senza sciogliere l’intreccio politico determinato dalla riunificazione tedesca, dall’ormai certo allargamento della Comunità verso l’Europa centrale ed orientale e dall’ambiguo ruolo riformatore cui era stato relegato il Parlamento europeo dopo l’insabbiamento del progetto Spinelli. I Capi di Stato e di governo resero poi omaggio, a parole, alla democrazia europea, auspicando che «nella prospettiva della nuova legislatura del Parlamento europeo che avrà inizio nel 1994,… l’Unione economica e monetaria rispetti pienamente l’esigenza democratica», ma senza indicare alcun disegno strategico o percorso politico. In questo modo gli europei ottennero sì dai governi un calendario e degli impegni per la realizzazione dell’unione monetaria, ma vennero già dal secolo scorso lasciati indifesi nei confronti della inevitabile diluizione del progetto politico europeo. Le rivendicazioni costituenti dei federalisti europei, che avevano manifestato per le strade di Strasburgo durante il vertice, vennero ignorate.
Vale la pena ricordare, per mettere nella giusta ottica il documento francese del 1989 considerando anche le strade che questo non prese in considerazione ma che si sarebbe potuto imboccare, il contenuto delle rivendicazioni federaliste di allora, che tendevano, in una logica diversa ma non in antitesi con la riflessione promossa dal CAP, a tenere sul campo, forse per l’ultima volta con qualche probabilità di successo, il ruolo costituente del Parlamento europeo:
«Non si può rafforzare davvero la Comunità se si cerca di identificare vanamente un grado intermedio, che non esiste, tra la Comunità com’è ora, e la Comunità con una prima forma di governo democratico. Resta da considerare il problema della accelerazione di cui tutti riconoscono la necessità, ma solo a parole. In realtà i fatti non aspettano. Con gli orientamenti attuali, la Comunità dovrebbe avere una moneta propria verso il 2000, e una prima forma di vero governo dopo l’inizio del 2000. Ciò equivale a dire che la Comunità acquisterebbe una effettiva capacità d’azione solo a cose fatte per quanto riguarda la sistemazione globale dell’Europa, la cui costruzione marcia ormai con la stessa velocità della riunificazione tedesca. Ma con una prospettiva di questo genere non si può nemmeno sapere se perdureranno, o se verranno a mancare, i presupposti politici dell’esistenza stessa della Comunità. E’ evidente che la Comunità va rafforzata subito. E’ evidente che non ha nessun senso aspettare… E’ evidente che nessun ostacolo impedisce ai governi di attribuire subito, prima di iniziare i lavori per l’unione monetaria, un mandato costituente al Parlamento europeo. Ed è evidente che un atto di questo genere, che modificando il sistema delle aspettative muterebbe subito anche la situazione di potere, avrebbe una ripercussione enorme non solo in Europa, ma in tutto il mondo».[5]
 
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Oggi tutti sanno che l’Unione europea non ha la sostanza politica necessaria per affrontare le sfide poste dal nuovo quadro di potere mondiale e dalla globalizzazione. Il processo di unificazione, nonostante la creazione della moneta e l’entrata in vigore nel frattempo di quattro nuovi Trattati, si trova nell’impasse. E tutto questo accade perché, in ultima analisi, nel 1989 e negli anni immediatamente successivi i governi europei, ed in particolare alcuni tra di essi, a partire dalla Francia e dalla Germania, non seppero e non vollero trarre le conseguenze delle analisi che pure avevano fatto. Cioè, che sarebbe stato necessario fare un salto più grande di quello, pur importante (e senza il quale la disintegrazione dell’Europa sarebbe già cosa fatta) dell’unione monetaria. A chi dubita che le opinioni pubbliche dei paesi chiave non avrebbero capito e appoggiato, allora, un atto politicamente coraggioso si può ricordare un sondaggio promosso all’epoca dall’Eurobarometro tra il 15 ottobre e il 22 novembre 1989 per determinare l’impatto degli avvenimenti che si stavano verificando: i tedeschi dell’Ovest accettavano e sostenevano per il 78% la riunificazione tedesca (medie analoghe si registravano negli altri paesi), ma la percentuale scendeva al 18% qualora questa avesse implicato l’abbandono del progetto europeo promosso dai fondatori.
In questi ultimi due decenni la Comunità è cresciuta di dimensioni fino a diventare l’Unione europea allargata che conosciamo; la riunificazione tedesca non ha significato la fine del processo di integrazione e gli Europei godono tuttora di una condizione privilegiata in termini di sicurezza e prosperità rispetto alle popolazioni di altri continenti. Ma il fatto che la natura, il quadro e gli obiettivi dell’integrazione siano cambiati, senza che i problemi posti a suo tempo dal CAP siano stati affrontati e risolti, legittima i dubbi sulla solidità delle fondamenta su cui poggia l’edificio europeo e sul futuro del nostro continente.
Il fatto è che nel 2009, ancor più che nel 1989, non basta porsi genericamente nell’ottica del rilancio dell’Europa: bisogna decidere di farla davvero. Sapendo che farla significa risolvere il problema di creare uno Stato federale europeo a partire da un nucleo di paesi.
 
 
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«Non-paper» deL CAP
per la riunione informale dei Dodici
 
Parigi, 24 ottobre 1989
 
 
Argomento: Architettura europea
 
Poiché il tempo felice delle certezze è in via di esaurimento, è urgente elaborare risposte comuni ai problemi evocati fino a poco fa come lontane ipotesi, ma ormai all’ordine del giorno. Su questo punto si può essere d’accordo senza difficoltà. Ma lo stato delle nostre reciproche riflessioni e l’estrema fluidità della situazione possono far apparire l’obiettivo come molto ambizioso: non si potranno trovare tutte le risposte. In assenza di risposte immediate, è imperativo, almeno, porre con chiarezza tutti i veri problemi.
La presente nota ha quindi come oggetto non quello di definire i numerosi scenari possibili, bensì di esaminare, prima dello svolgimento possibile o probabile dei fatti, quali sono le decisioni che i Dodici e la Comunità devono prendere prima di «passare la commessa» all’Architetto.
Che cosa vuole l’Europa? Le risposte, si sa, rischiano di essere numerose, in funzione delle sensibilità degli uni e degli altri. Tuttavia sembra urgente mettere un po’ di ordine nell’attuale situazione in cui si dice tutto e il contrario di tutto, in cui le dichiarazioni di un giorno sono superate o contraddette da quelle del giorno dopo. Per l’Europa è arrivata l’ora delle scelte e non è nella confusione che esse devono essere elaborate. Affinché il dibattito si avvii su buone basi, le poche seguenti domande devono ricevere una risposta comune il più chiara possibile:
     si vuol fare l’Europa dell’integrazione o quella della cooperazione?
     occorre adattare le istituzioni?
     l’integrazione politica deve comportare la dimensione della sicurezza?
     come affrontare la — o le — questioni tedesche?
 
Il ritorno dell’ideale e i suoi inconvenienti
 
Bisognerebbe sottolineare, preliminarmente, che, sebbene oggi il tempo stringa, tutti gli interrogativi a cui bisogna rispondere erano sottintesi fin dal momento in cui la Comunità si era riconciliata con l’ambizione delle sue origini: operare, attraverso la creazione di solidarietà economiche, per l’apertura politica delle nostre società. La Comunità ha una finalità politica; stupisce che dopo averlo ampiamente dimenticato, lo si dica ormai apertamente e che si moltiplichino i riferimenti a Jean Monnet.
Certo, le questioni europee sono passate in pochi mesi da un dibattito perfettamente canalizzato tra specialisti a un tema di bruciante attualità. Eppure, sono più di due anni che la Comunità ha ricevuto il suo primo shock. Fino all’entrata in vigore dell’Atto Unico, l’Europa si era persa in una visione tecnica di se stessa, nonostante sforzi reali in senso opposto (elezione a suffragio universale del Parlamento, creazione dell’ECU). Il dilemma approfondimento/allargamento aveva funzionato appieno. Dopo l’Atto Unico, il passo volontaristico scelto dalla Comunità le ha restituito la visione globale che le mancava. L’ambiguità sulla sua vera natura è stata tolta.
Che ce lo si auguri o che lo si deplori, l’obiettivo di un vero mercato unico nel 1993 oltrepassa largamente le considerazioni economiche (la nozione di politica estera europea è espressamente presente nell’Atto Unico). Quanto all’Unione Economica e Monetaria, secondo il Presidente della Commissione, essa è una nuova tappa che si pone al confine tra l’integrazione economica e la costruzione politica; è uno «strumento». L’ambizione apertamente dichiarata dai promotori della Comunità è quindi di riprendere l’opera interrotta con il fallimento della CED.
Il secondo shock è più recente. Per di più, esso è sufficientemente forte da non rischiare di passare inosservato. Le forze che hanno creato e mantenuto l’equilibrio in Europa alla fine della seconda guerra mondiale vacillano: l’Est-Ovest si impone nel dibattito europeo. Contemporaneamente, il successo del modello — o dell’esempio — europeo dà alla Comunità un’attrattiva particolare agli occhi dei suoi vicini. Questa forza di attrazione, di natura essenzialmente economica, ma non priva di significato politico, spinge ad elaborare politiche comunitarie di vicinato (proximité). Esse si rivolgono particolarmente ai paesi dell’EFTA e, forse, a certi paesi dell’Est, come dichiarava J. Delors alla fine della riunione informale dei ministri degli esteri a Escalimont il 14 ottobre.
Dopo il tempo delle certezza, ecco quindi l’ora delle scelte. Come trattare le nuove domande di adesione? Le relazioni con gli altri paesi dell’Europa occidentale devono portare a una vasta zona di libero scambio, oppure offrire soluzioni alternative all’adesione? La Comunità economica europea deve diventare un’unione politica? In caso affermativo è accettabile lo schema di ispirazione federalista o quasi-federalista? Lo si può evitare? La dimensione politica dell’Europa deve o no includere le questioni della sicurezza? E’ necessario riformare le istituzioni per tener conto della potenziale evoluzione del ruolo della Comunità? ecc.
Tutte queste questioni, poste un’infinità di volte, possono essere formulate all’infinito. Vi si aggiunge quella della compatibilità tra le scelte da fare.
 
Le questioni preliminari.
 
Per semplificare, si possono raggruppare in quattro grandi questioni, che sono quelle sulle quali è urgente prendere una decisione. Le risposte che vi saranno date condizioneranno il tracciato delle possibili architetture europee.
 
Prima domanda: si vuol fare l’Europa dell’integrazione o l’Europa della cooperazione?
 
Il dibattito tra allargamento e approfondimento è vecchio come la Comunità. Oggi è rinnovato da due fattori: da un lato l’attrazione economica esercitata dalla CEE su certi Stati della sua periferia, in particolare quelli dell’EFTA, dall’altro l’evoluzione della situazione all’Est. Ma il problema si pone davvero ancora?
Poiché la CEE ha scelto la strada di una maggiore integrazione delle politiche economiche, monetarie e fiscali dei suoi membri, e tenendo presenti le implicazioni politiche di questa scelta, c’è una possibilità alternativa tra “la pausa dell’allargamento” e “la priorità all’approfondimento”?
Per quanto riguarda i paesi preoccupati, soprattutto, di non privarsi dei vantaggi economici del grande mercato, la risposta sembra semplice: bisogna evitare di trovarsi di fronte all’eterno dilemma offrendo loro una alternativa all’adesione. I rischi di una diluizione della CEE sarebbero reali se ogni preoccupazione economica da parte degli «outsiders» della Comunità non trovasse altra risposta che l’accettazione o il rifiuto dell’adesione. Supporre che l’adesione risponda alle loro aspettative — il che è lungi dall’essere esatto per alcuni di essi — sarebbe far deviare l’adesione dal punto di vista di che cos’è la Comunità. In realtà l’adesione non ha come sola motivazione delle preoccupazioni economiche: non è mai stato vero e lo è meno che mai. Per di più, il processo sarebbe difficilmente controllabile: dove fermarsi nell’allargamento?
Di qui la proposta fatta dal Presidente della Commissione ai paesi dell’EFTA nel gennaio 1989, ossia di continuare nel quadro dei rapporti attuali per giungere a una zona di libero scambio, oppure di cercare una nuova forma di associazione, più strutturata sul piano istituzionale.
Le riflessioni in corso sulla costruzione di uno spazio economico comune rappresentano un’alternativa credibile all’adesione. I problemi relativi sono lungi dall’essere risolti, in particolare quello della capacità di questi paesi di organizzarsi, quello del loro coinvolgimento nella presa delle decisioni su questioni di comune interesse (decision-making/shaping), così come tutti gli aspetti istituzionali, ma queste difficoltà non sembrano insormontabili.
Più delicato è l’altro corno del problema: se si può postulare che l’adesione sia una risposta inadeguata a una richiesta di avvicinamento fondata su considerazioni economiche, la difficoltà consiste piuttosto nell’identificazione delle motivazioni dei nostri vicini. La risposta richiama in realtà un’altra domanda: niente adesione quando la domanda è esclusivamente economica, ma quid delle domande «miste», o delle domande la cui portata fosse anche politica?
In particolare, che ne è dell’Austria, per non parlare della Polonia o dell’Ungheria e per non evocare qui il caso della DDR?
Per i paesi appartenenti al blocco orientale, si è tentati da una posizione conservatrice: finché l’Europa non ha affermato la propria identità, essa avrebbe più da perdere che da guadagnare dal prendere in considerazione tali allargamenti, e, con lei, la sicurezza dell’insieme dei paesi occidentali.
Non è più il rischio di diluizione che si dovrebbe contrapporre ai vantaggi dell’integrazione, bensì il rischio della disintegrazione. Sarebbe anche piuttosto contraddittorio pensare, in ragione del successo della Comunità, di allargala a paesi il cui livello di sviluppo economico e il cui sistema di valori sono ancora così diversi dai suoi che un tale allargamento costituirebbe un formidabile rivolgimento delle condizioni che hanno permesso tale successo.
Appare più saggio offrire loro come risposta la soluzione, già proposta per l’EFTA, di uno «spazio economico europeo»: è il senso della recente risposta di J. Delors. A condizione di completare questo risvolto economico con un secondo risvolto di natura culturale e politica: il Consiglio d’Europa avrebbe un ruolo da svolgere; può largamente rispondere alle aspettative dei paesi dell’Europa dell’Est che vogliono avvicinarsi ai valori della cultura occidentale, in particolare nel campo dei diritti umani. Se ne fanno domanda, potrebbe essere incoraggiata la partecipazione di questi paesi, così come la loro adesione a certe convenzioni stipulate sotto l’egida del Consiglio d’Europa.
Rimane una questiona raramente affrontata: questo spazio deve essere concepito come un luogo in cui questi paesi potrebbero fiorire oppure come un «setaccio (sas)» che porti eventualmente a una adesione? Il problema si porrà solo se i dati economici e politici di questi paesi cambieranno radicalmente. Attualmente, esso non si pone (ma nulla vieta di rifletterci su).
Per l’Austria, al contrario, non valgono gli stessi argomenti: il suo livello economico è paragonabile a quello degli Stati membri della Comunità. D’altra parte, non è membro del Patto di Varsavia, per cui la questione è più spesso esaminata dal punto di vista della neutralità.
Su questo problema, alcuni sono piuttosto reticenti sull’adesione, per il motivo che ogni ambiguità che rimanesse circa la piena adesione dell’Austria a tutte le potenzialità dell’Atto Unico andrebbe a detrimento dell’Europa e che non si possono rivedere così radicalmente al ribasso le ambizioni della Cooperazione Politica, mentre altri sono favorevoli a tale adesione.
In realtà, il vero problema non dovrebbe essere invece il seguente: se l’abbandono della neutralità è una premessa indispensabile, quale sarebbe la posizione della Comunità nel caso in cui questa condizione fosse realizzata? Non bisogna che il problema della neutralità mascheri gli altri aspetti del dibattito.
In altre parole, di fondo, la Comunità è favorevole all’adesione dell’Austria? Oppure preferirebbe che restasse nello spazio economico europeo ancora da costruire? Non sembra inutile porsi il problema già da adesso, non perché l’ora della fine della neutralità dell’Austria sia vicina, ma perché è raramente buona norma voler risolvere i problemi ponendo male le questioni.
 
Seconda domanda: bisogna adattare le istituzioni?
 
Nella misura in cui la risposta alla prima domanda consistesse nello scegliere con chiarezza l’integrazione, e quindi le sue conseguenze, è opportuno in verità riformulare questa domanda: anziché chiedersi se bisogna adattare le istituzioni, non è meglio chiedersi: “Come adattare le istituzioni?”?
L’attuale funzionamento delle istituzioni, in realtà, riflette la struttura di quella nuova organizzazione internazionale rappresentata nel 1957 dal Trattato di Roma piuttosto che ciò che la Comunità è divenuta in trent’anni. L’elezione diretta del Parlamento europeo, a partire dal 1974, non ha sostanzialmente modificato le cose.
Finché ci si limitava ad elaborare una tariffa esterna comune o una politica agricola comune, era sufficiente l’equilibrio di poteri previsto dal trattato. Con il progresso dell’integrazione e con l’attuazione dell’Atto Unico, è necessaria un’evoluzione delle istituzioni. E lo sarà ancor di più quando si tratterà di realizzare l’Unione Economica e Monetaria, per non parlare delle tappe ulteriori. Non si può escludere, in realtà, che alcune misure di armonizzazione richieste per giungere al grande mercato unico provochino, se interessano in modo particolare un paese o un settore economico, una reazione anti-europea sia da una parte dell’opinione pubblica di uno Stato membro, sia dallo Stato stesso. Neppure i vantaggi politici a breve termine dello sfruttamento di un tale sentimento anti-europeo da parte di un partito politico devono essere sottovalutati. C’è, già da ora, il rischio reale che in occasione di una particolare misura, un segmento dell’opinione pubblica, un partito, perfino un governo, siano tentati di far prevalere «l’interesse nazionale» contro le esigenze della costruzione europea (si veda, per esempio, la difficile questione dell’IVA).
Riassumendo, se l’adattamento delle istituzioni sembra richiesto per accompagnare il progresso dell’integrazione, esso è fin da ora necessario per dare legittimità all’azione comunitaria, che ha conseguenze sempre più dirette sulla vita degli abitanti degli Stati membri.
Non è forse venuto il momento che questi «abitanti (ressortissants)» divengano dei «cittadini»? Il sistema attuale non permette affatto di rispondere alle accuse di tecnocrazia: un’Europa lontana, fatta da funzionari ciechi e lautamente pagati e da eurocrati che non sono eletti… E’ importante, invece, minimizzare il rischio di fratture tra l’Europa e l’opinione pubblica.
Due ragioni spingono quindi per un progressivo adattamento delle istituzioni: fin da ora la necessità di assicurarsi il sostegno delle opinioni pubbliche, e, a più lungo termine, l’esigenza di un funzionamento democratico di un’Europa più integrata.
C’è, in questo quadro, una scelta alternativa al federalismo? Qualunque sia la forma giuridica precisa — confederazione forte, federazione debole — le possibilità non sono infinite. Alcuni sostengono, è vero, il superamento della teoria classica dello Stato nazionale e fanno appello alla fantasia per contraddire Jean Bodin: il nostro quadro concettuale sarebbe rigido e non adatto, e la Comunità del 1993 dovrebbe assomigliare ad un modello giuridicamente meno costrittivo, più elastico e meno statico rispetto allo Stato (nazionale o federale). E’ il grande ritorno del Sacro [Romano] Impero.
Ma è dimenticare che il cemento della società pre-statuale erano l’Imperatore e/o la chiesa, due entità forti ma simboliche, mentre il cemento delle Comunità è invece la nascente interdipendenza delle loro concrete realtà economiche; è parimenti dimenticare che la giustapposizione di Stati più o meno indipendenti che caratterizzava l’Impero contraddice il modello europeo, che ha per finalità l’integrazione (organi decisionali comuni) e non la cooperazione (conferenza intergovernativa).
La logica dell’integrazione spinge quindi verso il federalismo. Se gli Stati membri vogliono inventare un altro modello, devono farlo molto in fretta. Il Presidente della Commissione, da parte sua, ha già scelto: nel suo discorso di Bonn, il 5 ottobre scorso, ha insistito sul fatto che l’architetture europea è di ispirazione federalista; riprendeva il 7 ottobre nel discorso a Bruges lo schizzo del suo progetto politico («è tempo di far rinascere l’Europa dell’ideale»); l’Agenzia Europa precisava a proposito di Bonn, per chi non l’avesse capito, che mai in un discorso del Presidente Delors, il termine «federale» era comparso altrettante volte…
In queste condizioni, perché il futuro trattato sull’Unione Economica e Monetaria non potrebbe arricchirsi di disposizioni istituzionali?
La conferenza intergovernativa potrebbe allora vedere il suo mandato esteso al dominio istituzionale.
Ma in che direzione bisogna andare? La logica di uno schema federalista richiede una trasformazione dei ruoli rispettivi della Commissione, del Consiglio dei Ministri e del Parlamento. Sono allora possibili due versioni: nella versione più «dura», la Commissione avrebbe il ruolo di un governo, il Consiglio dei Ministri quello di una camera alta, garante dei diritti degli Stati, e il Parlamento quello di una camera bassa; la commissione sarebbe responsabile davanti al Parlamento (le due camere? una sola? per l’investitura o la censura?).
Si può obiettare che la Comunità ha funzionato finora sulla base di una doppia legittimità: quella della Commissione, «guardiano dei trattati», e quella del Consiglio dei Ministri, che assicura il consenso degli Stati. Sarebbe quindi pericoloso far prevalere una di queste due legittimità sull’altra. In questa versione «elastica (souple)» si potrebbe pensare che le questioni importanti siano decise sia dalla Commissione esecutiva, sia dal Consiglio dei Ministri, secondo uno schema vicino al sistema tedesco.
Qualunque sia l’opzione scelta, dallo schema federalista derivano certe implicazioni; tutte le opzioni hanno dei punti in comune: oltre alla generalizzazione della regola della maggioranza per il Consiglio dei Ministri, le competenze (e senza dubbio la modalità di elezione) del Parlamento sarebbero riformate e la Commissione sarebbe veramente responsabile di fronte ad esso.
Di conseguenza, senza procedere oltre nella definizione di un progetto istituzionale che non mancherà di suscitare numerosi dibattiti, si potrebbe procedere abbastanza rapidamente a mettere progressivamente in atto la responsabilizzazione della Commissione e del Parlamento. In una prima tappa l’investitura del Presidente della Commissione da parte del Parlamento avrebbe il vantaggio di conferirgli una maggior autorevolezza (derivata dal ruolo, non solo in funzione della sua personalità). Le modalità di designazione dei commissari, così come le condizioni per l’elezione dei parlamentari europei potrebbero ugualmente essere rapidamente modificate: tra le diverse ipotesi, si potrebbe pensare ad una elezione dei parlamentari nello stesso giorno, su liste in parte europee e non più solo nazionali, a una commissione più nettamente politica, ecc.
 
Terza domanda: l’integrazione politica deve comportare la dimensione della sicurezza?
 
Questa domanda, come la successiva, è stata a lungo considerata prematura. L’accelerazione degli eventi non lascia altra scelta che porsela.
In linea di principio, la domanda sembra semplice: la sola risposta sensata è che, finché le alleanze esistono, il «pilastro» europeo non può che essere il pilastro di un arco che ne comprende almeno un altro, oltre Atlantico; la questione di una difesa europea autonoma non si pone; per di più, la Comunità economica europea raggruppa attualmente Stati che si trovano in situazioni eterogenee (integrati o no; dotati di armi nucleari o no; ospitanti armi nucleari o no; ecc.). Non sarebbero opportuni né il quadro, né il momento.
Tuttavia il problema comincia a porsi, non in funzione della realtà, ma delle potenzialità: se l’Europa avrà un giorno una dimensione politica, questa dovrà o no includere la sicurezza?
Ai due estremi del dibattito, si tratta per gli uni di non escludere a priori l’opzione di una difesa europea, e per gli altri di non escludere l’opzione di un’Europa che accoglie eventualmente degli Stati neutrali, l’Austria o altri.
Ci limiteremo qui a fare alcune osservazioni:
— La prima è che l’Europa ha già una dimensione geopolitica, anzi addirittura una dimensione di sicurezza. Da quando il piano Marshall ha assicurato che i paesi dell’Europa occidentale non collassassero, essi fanno parte dell’equilibrio Est-Ovest; la CEE, per la sua stessa esistenza, non riconosciuta per lungo tempo dai paesi del Patto di Varsavia, è un attore del gioco europeo, mentre lo sviluppo della cooperazione politica va nella direzione del rafforzamento della sua identità; si pone anche il problema se la CSCE non costituisca il quadro adatto per sviluppare e far prevalere le idee della Comunità in materia di sicurezza: gli avvenimenti nella Germania dell’Est, in Polonia o in Ungheria mostrano la forza di attrazione del modello europeo; l’Europa deve dare una risposta alle proposte americane di «partnership»; ancor più precisamente, le capacità dell’Alleanza si basano in parte sulle sue capacità industriali e tecnologiche. Si potrebbero trovare altri argomenti. Ma in ogni caso, si parla dell’Europa occidentale o della CEE? Regna l’ambiguità.
— Bisogna distinguere tra sicurezza e aspetti militari della sicurezza? Secondo questa concezione, la conseguenza ultima dall’integrazione politica della CEE potrebbe essere l’inclusione di preoccupazioni di sicurezza, ma dovrebbe escludere la dimensione militare della sicurezza.
Tale distinzione può essere seducente, in quanto permette di far apparire conciliabili due approcci che si teme siano alla fine incompatibili (l’integrazione politica e l’evoluzione della situazione all’Est). Permette, in certo senso, di non porsi il problema della direzione in cui l’Europa vuole impegnarsi.
Ma non è estremamente teorica? Non si può opporle un altro ragionamento teorico: come farebbe uno Stato (o un gruppi di Stati) ad essere un’entità giuridica e politica riconosciuta, avere una politica estera che lo porti ad esprimere opinioni di cui alcune potrebbero non raccogliere il consenso degli altri membri della comunità internazionale e a rinunciare, se del caso, a far prevalere queste opinioni? Anche in condizioni di distensione, la sua credibilità sarebbe danneggiata sia se la scelta ultima fosse quella di indietreggiare, sia di disfarsi.
— Bisogna osservare che il discorso di J. Delors davanti all’Assemblea del Consiglio d’Europa, in cui sviluppava l’immagine di un’Europa composta da più cerchi concentrici si differenziava su di un punto essenziale da un’altra possibile visione di «cerchi» richiamata in Germania.
Per il Presidente della Commissione, il primo cerchio è costituito dagli Stati della Comunità (che proseguono nella loro integrazione), il secondo raggruppa gli Stati con i quali la CEE ha relazioni economiche sviluppate e strutturate (lo spazio economico europeo), il terzo quelli con cui i legami sono più tenui, ecc… Nello studio tedesco, c’è un cerchio supplementare, più ristretto, un nucleo «duro», un’unione politica di Stati che accettano di andare più avanti rispetto alla CEE: sarebbero gli «Stati Uniti d’Europa», integrati sul piano politico e militare.
La Comunità a dodici, «svuotata» del suo contenuto geopolitico, potrebbe accogliere con maggior facilità gli Stati neutrali o allargarsi per includere altri che lo richiedano; al livello successivo, l’Associazione degli Stati d’Europa potrebbe aprirsi ai paesi dell’Est.
Se la teoria dei cerchi ha l’immenso merito di conciliare l’Europa dell’integrazione con l’Europa della cooperazione consentendo relazioni multiformi a seconda degli interlocutori, resta da definire esattamente il contenuto di ciascuno di questi cerchi. Il primo cerchio, in particolare, è la CEE oppure la creazione di un «sotto-cerchio» permette alla Comunità di sbarazzarsi di ogni contenuto diverso da quelli economici? Questa potrebbe essere una soluzione se la Comunità decidesse di non avere un contenuto militare. Analogamente, l’UEO potrebbe esserne un’altra.
 
Quarta domanda: come affrontare la questione tedesca?
 
Il problema posto alla Comunità dagli eventi nella DDR è in realtà un caso di applicazione della terza problematica presentata sopra: il dibattito, un po’ teorico, sulla necessità di escludere o meno la dimensione della sicurezza dalla Comunità può essere riformulato in modo concreto. Gli obiettivi a lungo temine dell’Europa sono compatibili con la necessaria elasticità richiesta dall’evoluzione del contesto europeo? Bisogna, in nome di un’Unione politica lontana, rifiutarsi di allargare la Comunità? Ancor più precisamente: l’Unione politica europea è o no compatibile con l’obiettivo dell’unità tedesca?
La Comunità è un ostacolo a questa unità?
La domanda è provocatoria. Ma, in via di principio, non si può ammettere che sarebbe meglio preparare la ricerca e le condizioni della compatibilità delle due opzioni, piuttosto che preparare il loro scontro?
Certo, un riavvicinamento effettivo tra le due Germanie non è all’ordine del giorno:
 – fintanto che la DDR è membro del patto di Varsavia;
 – fintanto che i Tedeschi dell’Est rimangono attratti a valori diversi da quelli democratici occidentali;
 – fintanto che l’economia della DDR non è fondata sul mercato e rimane in ritardo sull’economia tedesco-occientale.
Ma se su questi tre punti le cose evolvessero, quale dovrebbe essere la posizione comune? Non si può immaginare di rendere compatibili il riavvicinamento tedesco e la costruzione europea? E’ quello che sta alla base del ragionamento di J. Delors, che ha presentato recentemente l’Europa come condizione e non come ostacolo per il cambiamento. In questa concezione, la soluzione del problema tedesco deve derivare dal rafforzamento della CEE. Lungi dal contrapporre i due concetti, egli ritiene che l’uno sia la soluzione dell’altro.
L’argomento non è solo retorico: la comunità deve rafforzarsi se vuole essere un polo di attrazione e un polo di stabilità; questo rafforzamento è quindi la premessa per ogni allargamento. Siamo pronti ad accettare il corollario ultimo di questa posizione di principio e ad ammettere che l’allargamento sarà possibile dopo il rafforzamento?
 
(a cura di Franco Spoltore)
 


[1] http://www.diplomatie.gouv.fr/fr/ministere_817/archives-patrimoine_3512/chute-du-mur-berlin-ouverture-anticipee-archives-diplomatiques_19850/9-novembre-1989-chute-du-mur-berlin_77597.html.
[2] Il testo, diviso in due file, può essere consultato in francese agli indirizzi: http://www.diplomatie.gouv.fr/fr/IMG/pdf/Document_Acrobat.pdf e http://www.diplomatie.gouv.fr/fr/IMG/pdf/Document_Acrobat2.pdf
[3] Il Centre d’Analyse et de Prévision (CAP) fu creato nel luglio del 1973 dall’allora Ministro degli Affari esteri francese Michel Jobert. La sua esistenza fu formalizzata nell’aprile del 1974, e la sua attività è alle dipendenze dirette del Ministero. Per ulteriori notizie sulla sua storia si può consultare il sito del governo francese dedicato al Centre,
http://www.diplomatie.gouv.fr/fr/centre-analyse-prevision_3121/presentation_6649.html.
[4] Nella nota predisposta dal CAP del 4 settembre 1973, intitolata De la crise de l’Europe et des moyens de la surmonter, redatta per l’allora Ministro degli esteri francese Jean Sauvagnargues, si precisava: «C’est par la création d’un fait nouveau dans le domaine politique que nous pouvons le mieux espérer produire un choc psychologique de nature à taire les égoïsmes et à reverser les forces centrifuges. Ce choc ne peut venir, au départ, que d’un geste de notre part sur le problème des institutions politiques… Ce geste n’a pas besoin d’être considérable: il doit être suffisant cependant pour dissiper la sensation de blocage et faire à nouveau apparaître comme vraisemblable la création, dans un avenir assez rapproché, d’un pouvoir politique et d’un vie politique ‘communautaire’ … On doit sérieusement se demander si une évolution de notre position, jusqu’ici totalement négative, sur le problème de l’élection de l’Assemblée parlementaire européenne au suffrage universel, ne pourrait être envisagé». Nel 1974 il Presidente francese Valéry Giscard d’Estaing avrebbe rilanciato e sostenuto questa opzione a livello europeo. Il testo di questa nota può essere consultato all’indirizzo
http://www.diplomatie.gouv.fr/fr/actions-france_830/chercheurs-historiens_3119/centre-analyse-prevision_3121/IMG/pdf/FD001216.pdf.
[5] Si tratta di un passaggio dell’editoriale Costituente europea subito! pubblicato nell’organo del Movimento Federalista europeo, L’Unità europea, gennaio-febbraio 1990, n. 191-92.

 

 

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