IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno LII, 2010, Numero 2, Pagina 149

 

 

IL FEDERALISMO A TUTTI I LIVELLI*

 

 

La concezione del federalismo come ideologia, che ne fa una teoria generale del pensiero politico, non esclude la considerazione che il nucleo ristretto del federalismo si trovi comunque nel suo aspetto strutturale, vale a dire nello Stato federale, con tutto ciò che ne è conseguito o ne può conseguire in termini anche di refluenze non soltanto di ordine giuridico od istituzionale. E sono infatti proprio le principali caratteristiche del sistema federale che ci conducono a quelle ulteriori considerazioni che valgono ancor meglio a definire il contesto nel quale va a situarsi il federalismo al giorno d’oggi.
Varrà la pena quindi di ribadire anzitutto che è insito nella concezione del federalismo inteso come sviluppo della teoria dello Stato federale il modello di un’organizzazione politica articolata in diversi livelli di governo, e più precisamente, in quella storicamente affermatasi nelle federazioni cosiddette classiche, in due livelli: vale a dire in quello centrale o dello Stato federale e in quello locale o degli Stati federati; e se in questa fondamentale duplicità sta poi in realtà, come tutti sanno, il nocciolo del sistema federale, è anche vero che ne è elemento essenziale l’autonomia costituzionale, cioè il principio per il quale ciascun livello di governo è costituzionalmente tutelato nelle sue competenze e prerogative, al fine evidente di evitare qualsiasi modifica unilaterale del patto o foedus che lega le entità federate. Se questo dell’autonomia costituzionale è il perno fondante del sistema, alquanto diversificate possono essere poi le modalità istituzionali tese ad assicurare l’armonioso funzionamento di un governo tanto complesso, e al quale ineriscono problematiche di straordinaria rilevanza, collegate come sono alle questioni della sovranità e dell’autonomia, al rapporto dei diversi livelli di governo fra di loro e di ciascun livello con i cittadini, e tutto ciò sia sotto il profilo politico che sotto quello economico-sociale.
 In questo senso è da mettere in conto il vario declinare del federalismo istituzionale oltre il classico dual federalism, dal federalismo competitivo al new federalism e al federalismo cooperativo e partecipativo, senza tralasciare il cosiddetto federalismo amministrativo o di esecuzione e il federalismo economico e fiscale. Alla base di tutti questi diversi “federalismi” c’è la consapevolezza dell’effettiva difficoltà di coniugare i diversi poteri esistenti nel medesimo territorio, in modo che ciascuno abbia per così dire una “dose” di sovranità costituzionalmente garantita e realizzi complessivamente un sistema di governo che assicuri in sostanza a ciascun livello di governo, in un determinato ambito o sfera di competenza, di essere insieme indipendente e coordinato, in una parola, a costituirsi in una vicendevole relazione di interdipendenza. Questa può assumere diverse connotazioni a seconda che prevalga in un certo senso l’approccio che sottolinea il criterio dell’indipendenza (e che può ritenersi proprio del modello classico statunitense del federalismo dualistico o competitivo) ovvero del coordinamento (che è proprio del modello classico tedesco del federalismo cooperativo o partecipativo): restando di norma fermo in ogni caso l’assunto che è inibito a ciascun livello di governo (quindi anche, in particolare, al livello centrale) di modificare a proprio vantaggio le proprie ed altrui competenze al di fuori del patto federale.
 In tempi relativamente recenti, all’incirca alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, questa architettura è stata ancor più resa complicata per effetto di due contestuali fenomeni che hanno interessato in particolare l’Europa, vale a dire la nascita e l’avanzamento di opposti processi di unificazione e di frammentazione tra Stati, cui ha peraltro contribuito in misura determinante il gigantesco irrompere nella scena internazionale della globalizzazione. Questa non solo ha messo definitivamente in crisi il modello dello Stato nazionale ma ha anche sollecitato altrettanto specularmente sia aspetti di integrazione che di scontro fra popoli e culture, in un difficile equilibrio che non tutte le organizzazioni statuali si sono dimostrate pronte ad assorbire senza contraccolpi al loro interno. In tal modo, accanto allo straordinario esperimento dell’avvio dell’unità europea a partire da un nucleo di Stati dell’Europa occidentale, che ha trascinato seppur più timidamente analoghi processi in altre parti del mondo, ha avuto luogo l’implosione di intere aree ad est del continente europeo, dall’Unione Sovietica, alla Yugoslavia e alla Cecoslovacchia, e all’interno degli Stati europei la nascita di nuove rivendicazioni autonomistiche di comunità locali spesso fomentate da movimenti etno-regionalisti e talora xenofobi. Lo Stato nazionale di stampo napoleonico, fondato sul centralismo, è stato in un certo senso costretto a venire a patti al suo interno con le comunità regionali, che sono arrivate senza mezzi termini a pretendere forme di decentralizzazione, o, come ora si suole dire, di “devoluzione” verso il livello sub-nazionale di poteri di governo anche significativi, a somiglianza e ad ulteriore incremento di quanto già intervenuto immediatamente al termine della seconda guerra mondiale quando si costituì l’Italia regionale e la Germania federale. Due secoli dopo l’avvento in forze sulla scena internazionale del nazionalismo, e nonostante l’evidente ormai sconfitta storica del modello dello Stato nazione, sempre più incapace di far fronte agli immani problemi posti all’umanità dall’incalzare dei tempi, sembrerebbe quasi che il quadro generale della società globale sia ora caratterizzato da una caotica mescolanza di pulsioni contrastanti, fra aspirazioni all’unità dei popoli e alla tutela dei diritti fondamentali, da un lato, e difesa dei localismi e delle differenziazioni etno-nazionali reali o ritenute tali, dall’altro.
Così, al giorno d’oggi, il federalismo istituzionale si viene ora concretamente ad arricchire, e in termini ben più incisivi e significativi, di un nuovo capitolo, quello del federalismo interno. In realtà, che lo Stato federale, con tutta la sua problematica della gestione ripartita dei poteri di governo, potesse essere visto da un punto di vista teorico sotto un duplice aspetto, era cosa ben nota, una federazione potendosi interpretare tanto come un’associazione di Stati quanto come una riorganizzazione interna ad alta decentralizzazione di uno Stato unitario: ecco perché si può legittimamente ritenere che si possa parlare, accanto al federalismo supernazionale o fra le nazioni (federalismo per aggregazione o per associazione), anche di un federalismo interno o infranazionale (federalismo per disaggregazione o per devoluzione), l’uno e l’altro comunque tendenti a scardinare dall’alto e dal basso il centralismo istituzionale e la sovranità assoluta dello Stato nazionale. Se dunque questi sono quelli che sono stati definiti come i due volti del federalismo, c’è da dire tuttavia che nell’un caso come nell’altro esso si presenta come un sistema istituzionale altamente sofisticato, sempre sottoposto ai rischi di una deriva o nel senso della disgregazione secondo le componenti federate che lo costituiscono ovvero nel senso di un rafforzamento delle tendenze centraliste a scapito dell’autonomia delle comunità locali. Senza indulgere alle valutazioni che nel secolo scorso tendevano soprattutto a considerare lo Stato federale come una costruzione debole, transitoria e destinata alla fine a ridursi a uno o più insiemi di Stati unitari, resta assodato il fatto che il sistema federale, proprio per le sue specialissime caratteristiche, abbisogna, non solo affinché sorga, ma soprattutto affinché duri nel tempo, di un complesso bilanciato di freni e contrappesi di ordine istituzionale, quali sono ben presenti ad esempio nel federalismo degli Stati Uniti, e ancor più di rigorose e puntuali condizioni storico-politiche richiamate nella teoria del federalismo come concezione politica generale.
Il problema poi può diventare in concreto ancor più complesso, se si considera che in tale contesto, la maggiore difficoltà può apparire addirittura quella della stessa possibilità di costruire istituzioni democratiche comuni tra culture identitarie che si asseriscono diverse e in quanto tali inconciliabili: anche se per fortuna, in realtà, è il carattere spesso ideologico e artificiosamente indotto delle comunità regionali o locali a farci capire viceversa quanto sia invece assai più utile riscoprire o confermare ciò che unisce in termini di interessi e ideali, rispetto a ciò che divide per effetto di diversità talora ad arte ingigantite. L’ovvia considerazione che il federalismo istituzionale non può esaurirsi in un fatto di ingegneria istituzionale, occorrendo patentemente anche la sussistenza di determinate condizioni storico-politiche perché gli abitanti di territori contigui possano accettare un certo quantum di unione (o anche una qualche forma di divisione nel caso del federalismo interno), dovrà quindi rapportarsi con la circostanza che in una moderna società sempre più multietnica e multiculturale al di sopra di presunti essenzialismi debbano comunque prevalere le ragioni della comune convivenza in un mondo globale. Ecco perché in sostanza, il federalismo, in qualsiasi modo lo si intenda, anche nel caso quindi del federalismo “per devoluzione” che preveda la creazione di nuovi livelli sub-nazionali di governo, non può favorire oltre misura la divisione e il nazionalismo, fino a giungere ad uno “scontro di civiltà” che rischia di vanificare ogni sforzo teso alla cooperazione tra i popoli nella salvaguardia dei diritti degli individui.
Tutto ciò premesso, non si può tuttavia non convenire ora con coloro che ritengono senz’altro accettabile un’avanzata decentralizzazione delle strutture nazionali, se del caso fino a pervenire ad una vera e propria federalizzazione dello Stato, nell’ambito di una complessiva ridefinizione della società non soltanto nazionale, che segua il criterio di un’armonica diffusione dei livelli di governo, alla stregua anche del principio di sussidiarietà. Il tema, ormai tutt’altro che nuovo in Europa, dove tali processi seppur diversamente differenziati si sono diffusi praticamente nella maggior parte dei paesi membri dell’Unione e perfino in Francia e nel Regno Unito, acquista poi una particolare valenza per l’Italia, dove da un paio di decenni, per effetto del movimento della Lega Nord, il federalismo (nell’accezione quindi più limitata di federalismo interno o infranazionale) è diventato un obiettivo concreto del programma elettorale dei partiti nazionali, soprattutto del centro destra, ma che ha trovato anche ascoltatori e richiami in diversi settori del centro sinistra italiano. D’altra parte, anche in passato, sin dal Risorgimento non era mancato con Cattaneo e Ferrari un esplicito richiamo al federalismo italiano, e anche dopo, con l’avvento del Regno, era riemerso un filone di pensiero che si rifaceva soprattutto all’ispirazione mazziniana o proudhoniana di un federalismo definito a volte “utopico” e che più spesso si concretizzava in una qualche forma di decentramento o di autonomia per gli ex Stati regionali. La verità era che proprio in Italia, la quale fra le nazioni storiche solo in tempi recenti era riuscita ad organizzarsi in forma unitaria su province in cui insistevano diversi Stati, sussistevano ancora al termine del secondo conflitto mondiale — e nonostante l’opera livellatrice del ventennio fascista — costumi, abitudini e perfino idiomi locali ampiamente diversificati, che forse non erano stati oggetto di sufficiente attenzione durante il Risorgimento o anche al momento della costituzione dello Stato nazionale nel 1861.
Nella vicenda peraltro della nascita della Repubblica italiana, non si può dire che la scelta costituente a favore di una larga decentralizzazione sia stata timida ovvero sorda rispetto alle rivendicazioni autonomistiche: anzi, in contrapposizione alle preoccupazioni di coloro che temevano per una possibile disarticolazione dello Stato e perciò rifiutavano un modello più autenticamente “federale”, la soluzione alla fine adottata dello “Stato regionale” da parte dell’Assemblea Costituente, si contraddistingueva per il coraggio oltre che per la prudenza, e in contrapposizione sia al modello dello Stato giacobino che a quello fascista, mirava scopertamente a fornire una concreta risposta di democrazia dal basso e di autogoverno decentralizzato alle diverse popolazioni delle regioni, pur subordinandone tuttavia l’autonomia a un quadro di rispetto delle esigenze di unità della Repubblica. L’istituzione costituzionalmente garantita di regioni autonome con assemblee elettive provviste di potestà legislativa primaria, seppur sotto ordinata a quella dello Stato centrale, e l’attribuzione alle stesse di specifiche competenze a carattere esclusivo o concorrente che daranno adito successivamente perfino al conferimento dei cosiddetti poteri residui, rappresentò in effetti lo sforzo più significativo per la creazione di quella che venne definita in Italia “la Repubblica delle autonomie”.
D’altra parte l’insofferenza nei confronti dello Stato totalitario, che del massimo possibile accentramento sulla figura del capo carismatico aveva creato un vero e proprio dogma, era diventata ormai inevitabile in Europa con il crollo del nazifascismo, e fu facile così far sorgere, accanto all’Italia regionale, una Germania federale e più tardi, caduto il franchismo, una nuova Spagna fondata anch’essa sulle regioni storiche o Comunidades autónomas. Lo Stato nazionale veniva in tal modo a riformare sensibilmente le stesse strutture originarie dello Stato giacobino, fondato da una parte su una forte amministrazione centrale e il sistema prefettizio in periferia, e dall’altra sulla centralità del parlamento nazionale, unico depositario della formazione della legge come massima espressione della volontà nazionale, e come tale in via di principio intoccabile. Il nuovo Stato democratico che sorgeva nel continente europeo dalle ceneri della seconda guerra mondiale, sia che si ispirasse esplicitamente al federalismo sia che prediligesse forme di regionalismo, metteva invero in crisi tale modello, immettendo un nuovo livello di governo (e di normazione) per le entità territoriali sub-nazionali e consentendo per giunta al sistema nel suo complesso di esprimere quel sindacato giudiziale di costituzionalità sulle leggi che è di norma affidato nelle federazioni ad una distinta Corte Suprema.
Si potrebbe certo discutere se l’avvento di tale Stato abbia veramente determinato la “federalizzazione” in senso lato dello Stato nazionale o più semplicemente una larga decentralizzazione delle forme di governo del vecchio Stato unitario. Tralasciando per brevità ogni indagine sulla questione stessa della possibilità di utilizzo delle nozioni di sovranità e di autonomia, con le quali ai giorni nostri si deve ancora fare i conti, il fatto è che le modalità di formazione e trasformazione di Stati a larga decentralizzazione sono divenute con l’andar degli anni sempre più varie oltre che frequenti, e non soltanto in Europa: al punto che ormai non appare facile ad esempio trarre una netta linea di demarcazione fra Stati federati e regioni autonome parlando di entità sotto ordinate di governo. Fermo restando che occorra in ogni caso trovarsi in presenza di livelli di governo che agiscono direttamente sui cittadini, lo stesso “indizio” storico che in un primo approccio avrebbe potuto indurre a ritenere Stati federati piuttosto che regioni autonome quelle entità sub-nazionali che prima si caratterizzavano per l’originarietà dell’ordinamento, appare ormai di una valenza assai relativa di fronte ai casi già citati del cosiddetto “federalismo per disaggregazione”. Fra l’altro, è da sottolineare che al caso del Belgio, il quale a decorrere dagli anni Novanta ha progressivamente trasformato la sua struttura di governo secondo linee formalmente e sostanzialmente federali, si oppone quello dell’Austria, in cui il sistema politico formalmente federale ha finito in gran parte per assumere l’aspetto di uno Stato unitario con una qualche decentralizzazione, peraltro secondo taluni studiosi ancor meno incisivamente che in Spagna dove non è in uso nemmeno il termine di “federale”.
Per questo, secondo l’avviso di una vasta dottrina, in considerazione soprattuttodel progressivo instaurarsi nelle società contemporanee di forme di multilevel governance, non esiste una vera differenziazione fra i due modelli, sussistendo soltanto una questione di grado e non di una diversa categoria concettuale. In ogni caso, pur ammettendo tale assunto, la creazione di un livello di federalismo infranazionale (o di regionalismo avanzato) comporta tuttavia anche talune implicazioni socio-economiche, che specificatamente negli approcci del federalismo economico e del federalismo fiscale trovano una loro rilevanza non marginale. Così, dal punto di vista economico, si sa che la scelta federale intende cogliere le utilità del decentramento politico a fini allocativi delle risorse economiche, considerando alla fine preferibile per l’intero sistema che possano sorgere condizioni competitive nell’offerta di beni e servizi fra le diverse unità sub-nazionali di governo: non per questo tuttavia si può ignorare il problema della delimitazione ottimale e del finanziamento delle unità locali di governo cui affidare funzioni economiche, tenendo conto in particolare degli effetti di ricaduta esterna dei costi e dei benefici derivati, delle diseconomie di scala che inevitabilmente ne conseguirebbero e delle possibili perturbazioni sulla politica economica del governo centrale. Analogamente accade per il federalismo fiscale, con il quale si suole sottolineare l’esigenza di un’effettiva autonomia fiscale del livello infranazionale di governo, tendente nella sostanza ad impedire lo sfruttamento fiscale delle entità territoriali locali da parte delle autorità centrali: senza indulgere peraltro, anche sotto tale profilo, al principio del cosiddetto “giusto ritorno” alle autorità locali delle entrate fiscali riscosse in dati territori, e occorrendo invece istituire adeguati meccanismi orizzontali e verticali di ridistribuzione armonica e solidale dei carichi fiscali tra le diverse entità sub-statali di governo.
Tali diverse modalità di declinazione del federalismo concernono evidentemente questioni generali non necessariamente connesse allo specifico fenomeno del federalismo infranazionale e in particolare della sua attuazione in Italia, ma che in tale modello acquisiscono aspetti più dirompenti, se non altro perché si tratta in questi casi di dar corso con maggiore libertà a un nuovo disegno complessivo della distribuzione dei poteri di governo in una data società, e che può prescindere non solo dall’elemento storico ma anche al limite da un’uguale ripartizione fra le diverse entità locali di governo (federalismo asimmetrico o regionalismo differenziato). Anche se quest’ultimo aspetto della differente devolution fra regioni autonome non sta accadendo in Italia, è un dato di fatto che quivi il processo di “federalizzazione” appare avanzare soprattutto lungo il versante economico e fiscale anziché sotto l’aspetto istituzionale, e volto all’attribuzione di maggiori poteri al livello regionale, indirizzati però principalmente all’autogoverno (self-rule), anziché con riguardo al rafforzamento della partecipazione delle comunità regionali al livello centrale (shared-rule). Tutto ciò spiega, specialmente in Italia, da un lato l’irrisolta questione della composizione del Senato federale o Camera delle regioni, e dall’altro i parecchi dubbi sulla bontà della scelta federale che permangono proprio sui costi del processo: che sotto il pretesto del ravvicinamento dei poteri di governo alle comunità locali, secondo il principio di sussidiarietà, per taluni appare poi destinato soprattutto a drenare risorse finanziarie dallo Stato centrale a favore di alcune regioni (in sostanza quelle del Nord) e in ultima analisi a depauperare il Mezzogiorno.
In ogni caso, in ordine al federalismo infranazionale, pare necessario porre alcuni punti fermi per far sì che la scelta federale all’interno dello Stato abbia non solo l’obiettivo di ridurre al minimo il centralismo tipico dei nostri Stati europei, ma anche quello di non spingerci lungo il terreno scivoloso della rottura dell’unità nazionale, tenendo presente altresì l’esigenza non marginale di agevolare, non di rendere più difficile, il processo di unificazione verso l’alto, cioè verso l’unità europea. In primo luogo, quindi, occorre respingere sia le fantasiose ipotesi separatiste di secessione di alcune comunità locali sotto il profilo di presunte identità nazionali aventi titolo ad erigersi come Stati indipendenti, sia la stessa ipotesi di un’Europa delle regioni in cui scomparirebbero gli Stati nazionali, fondata cioè un conglomerato difficilmente governabile di decine e decine di regioni-Stato, nei confronti delle quali l’Unione europea o sarebbe troppo debole (con ulteriori possibili derive confederali) o sarebbe costretta ad essere troppo forte (con possibili degenerazioni centraliste o autoritarie). Al riguardo si deve rilevare che una federazione può governarsi con risultati accettabili solo in un sistema complesso di pesi e contrappesi, che non attengono soltanto alla forma di governo e al rispetto della separazione dei poteri, ma più in generale anche al numero e alla grandezza degli attori sul campo: che vanno quindi possibilmente sempre equilibrati, favorendo se del caso l’accorpamento delle entità di governo troppo piccole e al limite anche lo scioglimento di quelle troppo grandi. In questo senso, l’estensione del principio dei cheks and balances, tipico del federalismo americano, dalle istituzioni ai soggetti federati, appare più che mai opportuno per evitare che uno o più Stati (o regioni autonome) possano realizzare forme egemoniche di una parte rispetto alle altre, e usufruire di una supremazia di fatto nella gestione degli affari comuni all’interno della federazione: pur con le cautele derivanti dal diverso contesto giuridico e storico-politico, vale la pena rammentare ad esempio il ruolo esorbitante goduto, proprio per effetto della grandezza di uno degli Stati, dalla Prussia dell’Ottocento nella Confederazione germanica, o dalla Russia nella cessata Unione sovietica. Per tali motivi e analoga cautela dovendosi del pari avere nei confronti di Stati troppo minuscoli rispetto alla media dei soggetti federati, questa volta per evitare l’opposta possibilità di tendenziale anarchia, appare opportuno adottare ogni accorgimento utile a modificare tali situazioni, ad esempio in sede di rappresentanza degli Stati nella Camera Alta. D’altra parte, come è ugualmente logico, il criterio principale per la rideterminazione delle circoscrizioni delle entità di governo (laddove non sia troppo difficile procedere in tal senso per motivi di ordine storico) dovrebbe essere esclusivamente territoriale, allo scopo di evitare qualsiasi contaminazione di tipo etno-culturale o presunta tale.
In secondo luogo, ai fini di cui prima si è detto, non guastano nella costruzione del federalismo infranazionale alcuni aspetti o accorgimenti che possano essere di ausilio ad un migliore funzionamento del sistema. Ci si riferisce anzitutto a meccanismi finanziari di perequazione e solidarietà interregionale che si sviluppino possibilmente sia in senso orizzontale che in senso verticale, in modo da escludere politiche locali fondate sul micronazionalismo e l’esclusione e favorire la coesione territoriale e sociale fra le diverse comunità locali. Se uno degli obiettivi del federalismo resta anche l’eliminazione dello sfruttamento fiscale unitamente al rilancio di una sana competitività tra le diverse entità federate, è pur vero che idonee politiche di integrazione sociale e culturale possono talora rivelarsi essenziali per evitare di disperdere quel patrimonio di straordinaria vitalità che è insito nel progetto federale di coniugare efficacemente unità e diversità. Proprio per coinvolgere tutti i cittadini ad una visione il più possibile ampia e differenziata dei problemi di gestione demandati alla cura coordinata dei diversi attori responsabili, occorrerebbe anzi estendere il federalismo a tutti i livelli, quindi anche per le province e i comuni, e naturalmente anche a livello globale fra le diverse Federazioni continentali, per la creazione di un assemblea parlamentare e di un governo mondiale parziale, nel quadro di una riforma democratica dell’ONU. Altri suggerimenti, come l’introduzione del sistema bicamerale anche a livello infranazionale — con un’Assemblea rappresentante della popolazione regionale nel suo insieme e un Consiglio rappresentante di ulteriori entità di governo sotto ordinate (come le province o i dipartimenti, ecc.) e così via — o l’elezione a ruota ai diversi livelli di governo, possibilmente iniziando dal basso, si presentano come necessari correttivi o aggiustamenti per evitare lo scadimento dell’opzione federale infranazionale in un possibile centralismo regionale ovvero in continui conflitti e dissidi derivanti ora dagli opposti localismi ora dai diversi schieramenti politici.
Infine, non sarà del tutto inutile, per coloro che hanno a cuore i problemi dell’unificazione europea, riflettere sul rapporto tra autonomismo e federalismo, che in un primo approccio sembrerebbero così intimamente connessi per via della comune aspirazione a reagire nei confronti dello Stato accentratore. Fa pensare intanto la circostanza che tra i federalisti europei soltanto Piero Calamandrei, persona autorevole del gruppo fiorentino dell’Associazione dei federalisti europei poi confluita nel MFE, fu a suo tempo nettamente a favore del federalismo interno e del regionalismo. Ma ancor più vale la pena forse di rammentare che un federalismo interno italiano basato sulle regioni (ovvero sui comuni secondo un’altra scuola di pensiero che si rifà al movimento comunale del medioevo), e che richiama il progetto degli Stati Uniti d’Italia di Carlo Cattaneo, non destò in generale alcun entusiasmo al tempo della Resistenza in coloro che propugnavano una federazione europea. Così Carlo Rosselli considerò scopertamente un errore il federalismo infranazionale, di fronte alla superiore esigenza di realizzare l’unificazione europea in forma federale; e Umberto Campagnolo, che del Movimento federalista europeo fu segretario nazionale, arrivò anzi a condannare espressamente il federalismo delle autonomie locali come un falso federalismo che andava a ritroso della storia. Lo stesso Altiero Spinelli non fu tenero con tale federalismo, verso il quale nutrì chiaramente ampie riserve, se ne tacque del tutto nel Manifesto e lo indicò comunque altrove come un qualcosa di minore o di vecchio rispetto all’audacia rivoluzionaria del federalismo europeo. Ma probabilmente al federalismo infranazionale si rimproverava soprattutto non la scelta del principio in sé della decentralizzazione, ma il fatto di ignorare la priorità storica oltre che logica della costruzione di una federazione fra gli Stati, in vista della costruzione di un ordine pacifico delle nazioni europee e più in generale del mondo.
In realtà, il federalismo infranazionale sconta proprio la sua vicinanza all’autonomismo, nel momento in cui viene ad amplificarsi oltre misura il suo riferimento alla comunità di base piuttosto che all’umanità nel suo complesso; la visione che ne può conseguire è quindi spesso distorta, perde di vista il principio fondamentale dell’equilibrio tra le ragioni dell’unità accanto a quelle della diversità, e finisce troppo spesso per individuare il suo obiettivo nella rivendicazione di asserite esigenze proprie di una parte limitata del paese anziché nella costruzione di una società complessiva caratterizzata dalla diffusione bilanciata del potere. Questo spiega perché tali rivendicazioni, in un primo tempo apparse di tipo federalista, si siano ben preso tramutate in vere e proprie richieste di stampo nazionalista o micronazionalista, talora con repentino passaggio dalla difesa delle ragioni delle comunità locali alla contraria difesa delle speculari ragioni dello Stato, l’una e l’altra posizione essendo alla fine pienamente compatibile, piuttosto che con un sistema istituzionale a competenze e funzioni ripartite, con un modello strettamente conforme a quello dello Stato a sovranità assoluta. In sostanza, troppo spesso i fautori del movimento autonomistico, non riuscendo a tradurre le loro giuste aspirazioni al rifiuto del centralismo dello Stato in istituzioni idonee ad una società pluralistica a potere diffuso (qual è quella federale), sono rimasti ancorati alla concezione di una mera contrapposizione di distinte società di tipo nazionale: con la conclusione quindi dell’estrema possibilità che le rivendicazioni autonomistiche e lo sbandierato federalismo infranazionale vadano poi a sfociare in atteggiamenti, politiche e strutture che nulla hanno a che fare con il federalismo.
In questo senso il federalismo interno mostra una sua intrinseca debolezza che non appare nel federalismo europeo nei confronti, ad esempio, delle aspirazioni ad istituzioni federali o quasi federali di livello universale: potendosi in tal caso infatti ben concepire un armonico e contestuale svolgimento di espansione del federalismo europeo insieme con i tentativi di instaurare a livello globale un parlamento o un governo mondiale. Inoltre, non si può nemmeno ignorare che troppo spesso (e anche qui l’esempio italiano è illuminante) il federalismo infranazionale rischia di risolversi solo in dichiarazioni di principio, cui si accompagnano poi provvedimenti del governo nazionale di tutt’altro tenore. Ciò non deve poi meravigliare oltre misura, se si pon mente alla natura intrinseca dello Stato nazionale, che difficilmente appare disponibile a cessioni di poteri di governo verso entità sotto ordinate: la cronaca di tutti i giorni, e lo stesso faticoso avanzamento del processo di integrazione europea, c’insegna in effetti che ragioni politiche da sempre dissuadono i detentori del potere nazionale dal cederlo a favore di altri, sicché — anche ad ammettere che il principio della decentralizzazione sia da ritenere aprioristicamente, di per sé e in ogni settore, una scelta positiva — esso viene poi quasi sempre negato nei fatti anche se talora magnificato a parole.
Pur confermandoci pienamente in sintonia con una visione complessiva della società di tipo non nazionale, che ci porta senza tentennamenti a favore di un federalismo generalizzato a tutti i livelli, occorre dunque anche tener conto della ferma considerazione espressa in passato dalla maggior parte dei federalisti europei sulla priorità strategica del federalismo europeo (o più in generale supernazionale) rispetto al federalismo infranazionale. E sembra proprio che possa essere soprattutto l’Europa federale, difficilmente il contrario, che potrà favorire la costruzione di autentiche istituzioni federali all’interno dei nostri Stati nazionali.
 
Rodolfo Gargano
 

 


[*] Si tratta della relazione svolta in occasione del seminario promosso dall’Ufficio di formazione del MFE tenutosi a Verona il 17-18 aprile 2010.

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