IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XLVIII, 2006, Numero 1, Pagina 26

 

 

Le crisi del Medio Oriente
e le responsabilità dell’Europa
 
SANTE GRANELLI
 
 
Molteplici avvenimenti si sono succeduti nei diversi scacchieri dell’area compresa tra Europa, Asia ed Africa (il cosiddetto «grande Medio Oriente»), dopo l’avvio da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati della «guerra al terrorismo», iniziata con l’invasione dell’Afghanistan nel novembre del 2001 e quella dell’Iraq nel marzo del 2003. Essi hanno contribuito a richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica europea e dei grandi mezzi d’informazione sul circolo vizioso che si è creato e sui gravi rischi che il mondo nel suo complesso (ma l’Europa in particolare) dovranno affrontare se, in un tempo ragionevolmente breve, non verranno sciolti i nodi che da tempo attanagliano la regione, nodi che l’iniziativa nordamericana ha solo contribuito ad aggravare. Se tali avvenimenti hanno evidenziato la precarietà degli equilibri che si sono creati, più difficile appare l’identificazione delle possibili soluzioni e, soprattutto, degli strumenti che dovranno essere adottati per realizzarle.
Per limitarsi alle questioni che maggiormente colpiscono l’opinione pubblica: non vi è alcuna indicazione che il terrorismo legato al fondamentalismo islamico e «al-quedista» sia stato messo in condizione di non nuocere; non emerge un’onorevole via d’uscita per gli americani e per i loro alleati dall’Iraq (che anzi sembra ormai avviato alla guerra civile e forse addirittura alla dissoluzione), la stessa pacificazione dell’Afghanistan è ben lungi dall’essere completata. Del pari, restano «conflittuali» i rapporti tra Israele e palestinesi, ulteriormente aggravatisi dopo il successo di Hamas alle elezioni, la costituzione del governo Haniyeh e il conseguente irrigidimento del governo israeliano; infine non si scorge alcuna seria prospettiva per raggiungere un accordo con il governo iraniano sul dossier nucleare né appare probabile che si possa convincerlo a rinunciare ai suoi programmi senza fare ricorso alla forza militare, come si discute ormai apertamente in taluni circoli politici e militari, negli Stati Uniti[1] e, più sommessamente, in Israele. Nel frattempo, il prezzo del greggio ha superato i 70 dollari al barile e molti analisti ipotizzano che, di fronte ad un ulteriore aggravamento della situazione politica generale del Medio Oriente, si possa presto raggiungere e superare il limite, fino a pochi anni fa considerato impensabile, dei 100 dollari, con conseguenze non difficili da immaginare sulla situazione di molti paesi (segnatamente in Europa) le cui economie si reggono tuttora ampiamente su fonti d’energia non rinnovabili.
È opinione diffusa che un tale aggravamento della situazione sia dovuta alla decisione degli Stati Uniti di agire in modo unilaterale (forti, dopo la caduta dell’impero sovietico, del proprio ruolo di unica superpotenza mondiale) per la tutela del proprio interesse nazionale, senza preoccuparsi della legittimità internazionale, come peraltro era richiesto da molti commentatori oltranzisti che da tempo richiamavano il parallelo tra gli Stati Uniti e l’antica Roma imperiale.[2] Queste posizioni, già presenti nel dibattito politico che aveva preceduto i drammatici eventi del settembre 2001, si sono rafforzate in seguito all’attentato terroristico alle torri gemelle ed al Pentagono, offrendo alla nuova Amministrazione, anche sulla scorta del precedente della guerra in Kossovo,[3] il destro per agire, ignorando il giudizio, ed anche l’ostilità, di molti alleati.
Le indubbie responsabilità degli Stati Uniti non devono farci trascurare quelle, non meno gravi, dell’Europa. Nel gennaio del 2003, sul Corriere della Sera, l’ex-ambasciatore Sergio Romano metteva in luce gli elementi di disparità presenti nell’atteggiamento nordamericano verso la Corea del Nord, da una parte, e verso l’Iraq dall’altra, concludendo la sua analisi con l’osservazione che ciò che manca in Medio Oriente è una «potenza… capace di imporre agli Stati Uniti il rispetto dei suoi interessi e consigli», laddove questa potenza è presente in Estremo Oriente (la Cina) e ciò ha giustificato la prudenza degli americani nel trattare l’affaire nord-coreano. Concludeva Romano: «La potenza che non c’è è l’Europa. Divisi, i paesi dell’Europa possono tutt’al più, come il Presidente francese ed il Cancelliere tedesco, fare una decorosa battaglia giuridica fondata sulle competenze dell’ONU e sulla necessità di una seconda risoluzione. Ma non possono dire con fermezza all’America che gli equilibri medio-orientali sono in ultima analisi equilibri europei e che nessuno ha il diritto di sovvertirli senza tener conto delle loro esigenze».[4]
Se siamo quindi di fronte a situazioni di crisi potenzialmente esplosive, non solo in Medio Oriente ed in Asia centrale, ma anche in altre aree del mondo,[5] ciò non è imputabile solo al conclamato unilateralismo nordamericano. Non meno gravi appaiono le responsabilità dell’Europa che, a causa della propria divisione (del suo non esistere come «potenza»), non è in grado né di tutelare i propri interessi, né di svolgere un ruolo attivo ed efficace per promuovere soluzioni pacifiche così da poter contribuire ad «alleggerire gli Stati Uniti di una parte considerevole del peso delle loro responsabilità mondiali».[6]
Non basta però limitarsi a sottolineare l’attuale impotenza dell’Europa in relazione a queste crisi, o ricordare le sue responsabilità storiche e sottolineare i limiti della politica imperiale nordamericana. I problemi dell’area sono complessi e la definizione di soluzioni eque e durature (e l’identificazione degli strumenti politici che ne rendano possibile la realizzazione) richiedono un’analisi che sappia scrutare in profondità gli avvenimenti e identifichi i motivi specifici che stanno alla base di tali situazioni di crisi. In particolare, al di là dell’aggravamento del conflitto iracheno e della questione del terrorismo fondamentalista (che dovrebbe essere considerato più un effetto che una causa), sembra abbastanza chiaro che due sono oggi i focolai più pericolosi per il futuro dell’area, e quindi dell’Europa e del mondo. Si tratta della crisi nucleare iraniana e del sempre più difficile rapporto tra israeliani e palestinesi. È su queste due situazioni — che hanno tra loro molti più elementi di correlazione di quanto normalmente non si pensi — che occorre concentrare l’attenzione.
 
La politica dell’Iran dopo l’elezione di Ahmadinejad.
 
Molto sconcerto e qualche preoccupazione hanno accolto, nel giugno del 2005, la notizia dell’inatteso successo del Sindaco di Teheran, Mahmoud Ahmadinejad nella votazione di ballottaggio per la presidenza della repubblica islamica dell’Iran. Con il 62% dei voti espressi, Ahmadinejad, la cui base elettorale era costituita soprattutto dai diseredati che affollano i quartieri più poveri nella zona sud di Teheran, ha sconfitto il leader clericale e pragmatico (ex-Presidente della Repubblica) Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, che molti, sia in patria che all’estero, consideravano il sicuro successore del riformista Khatami, del quale avrebbe proseguito — così si ipotizzava — la politica di caute aperture, avviando forse anche un dialogo diretto con gli Stati Uniti.
Ambienti con una migliore conoscenza della complessa realtà iraniana avevano fatto osservare che molto difficilmente Ahmadinejad avrebbe modificato in termini sostanziali la politica seguita da tutti i governi che si sono succeduti nella repubblica islamica dopo la rivoluzione khomeinista del 1979. Nel numero di agosto del 2005, la rivista Middle East Monitor così riassumeva i termini della questione: «Nel più probabile scenario nucleare, le conversazioni con l’Unione europea continueranno in larga misura come prima, come promesso da Ahmadinejad, con l’Iran che continuerà ad insistere che la propria attività nucleare è a fini pacifici e gli Stati Uniti che conserveranno il proprio scetticismo sul processo diplomatico», per proseguire affermando che le possibili differenziazioni nella politica iraniana dovute all’elezione di Ahmadinejad «sono state almeno in parte esagerate».[7] Questo giudizio, sostanzialmente non negativo, proveniente dal mondo degli affari era confermato dalla decisione delle grandi società di assicurazione inglesi di continuare a considerare l’Iran, anche dopo l’elezione del nuovo Presidente, come un paese a rischio inferiore rispetto ad altri paesi medio-orientali ed in particolare all’Arabia Saudita.
Successive dichiarazioni del nuovo Presidente hanno contribuito a mettere in dubbio tali valutazioni. Ha preso credito l’ipotesi che l’Iran si apprestasse ad irrigidire il proprio atteggiamento sia sulla specifica questione nucleare che nel quadro più generale del ruolo che il paese intende svolgere nello scacchiere regionale e nei confronti dei conflitti che insanguinano il Medio Oriente (Palestina, Libano, Iraq, ecc.). Ampia eco hanno trovato le parole di Ahmadinejad che, in occasione dell’annuale manifestazione pro-palestinese di fine ottobre 2005, ha dichiarato che Israele «dovrebbe essere cancellato dalla carta geografica». In realtà Ahmadinejad ha soltanto reiterato, magari con una enfasi maggiore rispetto ai suoi predecessori, un’affermazione che risale agli inizi della rivoluzione khomeinista, attribuita allo stesso leader della rivolta contro lo Shah e ripresa, dopo di allora, da ogni leader iraniano soprattutto in occasione delle frequenti manifestazioni a favore della Palestina.[8]
Più preoccupanti sono apparse le dichiarazioni e le iniziative assunte in rapporto alla questione nucleare, quali la nomina del conservatore Ali Laridjani a capo del team negoziale sul dossier nucleare, le ampie modifiche apportate nei quadri diplomatici iraniani con la sostituzione di molte personalità legate all’ex-Presidente e, più in generale, il rifiuto di sottostare alle richieste del mondo occidentale di sospendere le attività di arricchimento dell’uranio e la minaccia, più volte reiterata, di uscire dal Trattato di non proliferazione nucleare.
È utile, a questo proposito, richiamare la posizione ufficiale del governo iraniano sul dossier nucleare e cercare di analizzare, anche sul piano della situazione geopolitica del paese e della sua storia più recente, le sue motivazioni. Essa è stata espressa con chiarezza dallo stesso Presidente all’Assemblea generale della Nazioni Unite all’inizio dello scorso ottobre. Ahmadinejad ha esordito proponendo che le Nazioni Unite dessero vita ad uno speciale Comitato al quale affidare la stesura di un rapporto conoscitivo che includesse un’analisi sul «come materiali, tecnologie e macchinari necessari per la produzione di armamenti nucleari siano stati trasferiti al regime sionista (lo Stato di Israele, nella normale versione iraniana) in violazione al Trattato di non proliferazione e formulasse proposte concrete per rendere il Medio Oriente libero da armamenti nucleari».[9] Dopo aver lamentato l’approccio discriminante attuato dalle grandi potenze che di fatto impediscono il libero accesso all’energia nucleare anche per fini civili, Ahmadinejad ha enfatizzato la necessità che ogni paese goda della piena sovranità sui propri impianti nucleari, argomentando che, se tali impianti dipendono in via permanente, per le forniture di tecnologie, materiali fissili, ecc., dalle «arroganti» grandi potenze (bullying states), ciò comporta rendere gli Stati stessi dipendenti in tutto e per tutto da potenze esterne. «Nessun governo popolare e responsabile può accettare una tale ipotesi come un servizio al proprio paese, soprattutto se si tiene conto della storia dei paesi ricchi di petrolio sottoposti alla dominazione straniera, un’esperienza che nessun paese indipendente è pronto a ripetere».[10]
Sempre a New York, in margine ai lavori dell’Assemblea delle Nazioni Unite, Ahmadinejad ed i suoi collaboratori hanno fatto intendere che, qualora i paesi europei e gli altri alleati degli Stati Uniti avessero insistito in una linea di chiusura nei confronti della richieste iraniane sul dossier nucleare, Teheran avrebbe potuto rispondere con l’arma del petrolio (embargo delle forniture); minaccia peraltro formulata apertamente qualche tempo prima a Vienna dal nuovo negoziatore iraniano Ali Laridjani di fronte all’ipotesi che la «troika europea» (Gran Bretagna, Francia e Germania) facesse approvare al Consiglio dell’AlEA — come richiesto dagli Stati Uniti — una risoluzione per portare la questione nucleare iraniana all’attenzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Scriveva Le Monde il 22 settembre 2005: «Infine, e questa può essere la più efficace spada di Damocle nel quadro delle trattative avviate attualmente dagli europei, l’Iran ha annunciato che le sue vendite di petrolio ed altri scambi commerciali saranno determinati dal sostegno che i differenti paesi apporteranno o meno all’Iran nella sua querelle con l’AlEA».[11]
 
Qualche precedente storico.
 
Le dichiarazioni di Ahmadinejad alle Nazioni Unite ed il riferimento all’esperienza vissuta in un recente passato da molti paesi produttori di petrolio, offrono una base per analizzare l’attuale posizione del governo iraniano ponendola nel contesto della storia più recente del paese. Scrive lo storico americano Karl E. Meyer, nel suo La polvere dell’impero: «Per due volte nel secolo scorso gli inglesi scelsero e per due volte deposero lo shahinshah, il re dei re. Nel 1907 gli inglesi e i russi tagliarono l’Iran in due sfere d’influenza: la zona russa comprendeva Teheran, mentre gli inglesi tennero per sé i giacimenti petroliferi del sud del paese che proprio allora cominciavano ad essere sfruttati. A causa dunque del suo petrolio e della sua posizione geografica le forze della Gran Bretagna e della Russia occuparono questa nazione in apparenza neutrale per tutta la durata delle due guerre mondiali. Anzi, per quasi mezzo secolo la Gran Bretagna decise quanto sarebbe spettato all’Iran in cambio del suo petrolio».[12] Due fatti in particolare legati alla questione petrolifera vanno sottolineati: 1) nel maggio del 1908 una società privata britannica, che aveva ottenuto la prima concessione petrolifera, aprì il primo pozzo nel sud-est del paese; 2) all’inizio del 1911 il governo inglese decise di sostituire l’uso del petrolio a quello del carbone nella flotta militare e, nello stesso periodo, acquisì, con il 51 % delle azioni, il controllo diretto della Compagnia, la Anglo-Persian Oil Company, che possedeva le concessioni petrolifere.[13]
La vittoria degli alleati contro gli Imperi centrali in Europa, la rivoluzione sovietica, e la fine dell’Impero ottomano modificarono profondamente la situazione di potere anche nell’area medio-orientale e nell’Asia centrale, lasciando in buona sostanza la Gran Bretagna come unica potenza a livello mondiale. Ma si trattava, come i fatti successivi avrebbero dimostrato, di una «potenza debole», non in grado di sostenere costi e responsabilità del ruolo imperiale. Insopportabili apparivano soprattutto i costi che la Gran Bretagna doveva sostenere per mantenere efficaci presidi militari nei vari fronti, incluse molte aree dell’ex-Impero ottomano, per alcune delle quali si cercarono alleati arabi (ad esempio la dinastia Hashemita in Iraq ed in Giordania) cui lasciare la responsabilità di governo.[14] In Iran, nel febbraio del 1921, il generale Reza Khan, condotte le sue truppe nella capitale, faceva arrestare alcuni importanti uomini politici liberali e nazionalisti ed avviava un processo che lo avrebbe condotto, quattro anni dopo, a deporre l’ultimo Shah della dinastia turca Qajar ed a prenderne il posto, garantendo alla Gran Bretagna il mantenimento del controllo sul petrolio del paese.
Ma la situazione europea in continuo fermento mutò ben presto il quadro di potere. Nel 1941 si riformò l’alleanza tra Gran Bretagna e Russia, e lo Shah, anche a causa delle sue malcelate simpatie per il regime nazista, fu costretto alle dimissioni ed all’esilio; gli succedette il figlio, il giovane Mohammad Reza e l’Iran divenne una retrovia essenziale per il trasferimento degli aiuti alleati all’Unione Sovietica. Quando, alla fine del conflitto, il nuovo presidente americano Henry Truman impose alle truppe d’occupazione russe ed inglesi di abbandonare l’Iran, sembrava che finalmente si aprisse una nuova fase nella quale si potesse operare per la democratizzazione e la ricostruzione del paese. L’Iran disponeva di una preziosa fonte di guadagno: il petrolio. Ma i profitti, come già ricordato, erano nelle mani della Anglo-Iranian Oil Company, e quindi del governo britannico. Le tensioni che seguirono condussero alla formazione di un Fronte nazionale nel quale si ricompose un’alleanza che già si era formata al tempo della rivolta anti-inglese del tabacco del 1891 tra clero, intellettuali occidentalizzanti e bazarii).[15]
Nell’inverno del 1949, il leader del Fronte, Mohammad Mossadeq, chiamato al governo da un riluttante Shah, avviò una lunga ed estenuante trattativa con gli inglesi, tesa a migliorare le condizioni leonine dell’accordo petrolifero.[16] Chiese ed ottenne un intervento di mediazione nordamericana, ma l’amministrazione USA, che inizialmente simpatizzava per le posizioni iraniane, al momento decisivo si schierò con i britannici (era iniziata la guerra in Corea, si era ormai entrati nel regime di guerra fredda e la priorità assoluta nella politica estera degli USA era rappresentata del «containment» dell’espansionismo sovietico). A Mossadeq non restò che la scelta del confronto e della nazionalizzazione delle concessioni petrolifere. La Gran Bretagna rispose con il blocco delle attività, l’embargo navale e la minaccia dell’invasione. La crisi si sviluppò secondo schemi complessi e lo sbocco finale fu il colpo di Stato favorito (più probabilmente, «promosso») dagli anglo-americani, che portò, nell’agosto del 1953,[17] alla destituzione ed all’arresto di Mossadeq ed alla restaurazione di poteri semi-dittatoriali per il giovane Shah, che restò al potere per altri 26 anni fino all’avvento, nel febbraio del 1979, della rivoluzione khomeinista.
 
Dal petrolio al nucleare.
 
Se alla caduta di Mossadeq e in pratica fino alla metà degli anni Settanta, la situazione mondiale delle risorse energetiche naturali, e in particolare del petrolio, era caratterizzata dalla sovrabbondanza («oil glut») e di conseguenza da una offerta praticamente illimitata e da prezzi molto contenuti, oggi il quadro è ben diverso. Dopo le guerre medio-orientali e le crisi degli anni Settanta, che portarono anche alla costituzione dell’OPEC, siamo definitivamente entrati nell’era dell’«oil shortage» e la questione della disponibilità di risorse naturali (petrolio, gas, ecc.) ha ormai assunto una valenza che supera le crisi, in parte transitorie, del passato e che pone le minacce di embargo da parte dei produttori (siano essi l’Iran, l’Iraq, il Venezuela, la Nigeria, la Russia, ecc.) in una ben diversa e preoccupante prospettiva. Nel frattempo, il tumultuoso sviluppo industriale delle potenze emergenti (Cina ed India, in particolare) ha posto in continua e crescente tensione il mercato delle materie prime energetiche.[18]
Peraltro, all’aumento della domanda non fa più riscontro un analogo incremento dell’offerta. Da tempo esperti e studiosi analizzano la situazione mettendo in evidenza che il petrolio è una sostanza «non infinita» e che «a un certo momento… tutto il petrolio che si potrà scoprire nelle varie parti del mondo non potrà più rimpiazzare il petrolio che è stato prodotto (estratto e consumato) e la produzione globale raggiungerà un picco. Le società petrolifere e gli Stati che si reggono sul petrolio troveranno sempre più difficile mantenere gli attuali livelli di produzione e far fronte ai consumi crescenti. La domanda supererà di gran lunga l’offerta ed i prezzi saliranno. Peggio, se il termine ‘picco’ dà l’idea di una curva pulita con la produzione che sale lentamente fino al punto a mezza via, e va quindi scendendo gradualmente verso lo zero, nel mondo reale, l’atterraggio non sarà morbido… il bordo del plateau apparirà piuttosto come un precipizio».[19]
Altri esperti vanno oltre, ipotizzando che il picco sia già stato raggiunto (nel 2005) o sia comunque imminente. Scrive il geologo Kenneth S. Deffeyes: «Siamo di fronte ad un problema che non ha precedenti. La produzione mondiale di petrolio ha smesso di crescere; declini nella produzione stanno per iniziare. Per la prima volta dalla rivoluzione industriale, la disponibilità geologica di una risorsa essenziale non sarà in grado di far fronte alla domanda».[20] Non occorre qui addentrarsi nei particolari tecnici delle analisi di Deffeyes, che si richiamano alle equazioni sviluppate nel 1969 da un altro geologo americano, M. King Hubbert,[21] e chiedersi se abbiano più ragione i pessimisti alla Deffeyes che sostengono che il picco nel rapporto offerta-domanda è stato raggiunto e che il declino è già iniziato, oppure gli ottimisti (i «cornucopians» secondo la definizione di Deffeyes) che ritengono che il picco sia ancora lontano poiché esistono in varie parti del mondo (nelle regioni artiche, ad esempio) grandi riserve non ancora ben identificate ma certe ed il cui sfruttamento sarà reso economicamente attraente dall’aumento dei prezzi. In ogni caso, quale che sia il tempo del picco e del conseguente precipizio, anche i più ottimisti sono d’accordo nel ritenere che le fonti geologiche d’energia (petrolio, gas, carbone, scisti, ecc.) non sono eterne e che, prima o poi, non potranno non esaurirsi.[22] Si tratta di una situazione ormai ampiamente riconosciuta, anche se finora sottovalutata dal mondo della politica, specie in Europa e, fino al recente discorso del Presidente Bush sullo stato dell’Unione, anche negli Stati Uniti.[23]
Questo scenario, se da un lato rende particolarmente preoccupante, nell’immediato (i prossimi 5-10 anni), la minaccia iraniana di embargo, soprattutto verso i paesi europei che in larga misura non dispongono di fonti proprie, offre dall’altro una indiscutibile base razionale per giustificare, nel medio-lungo termine, la pretesa dell’Iran — ma anche di molti altri paesi, abbiano essi firmato o meno il Trattato di non proliferazione nucleare — di dotarsi delle capacità tecniche e scientifiche per poter utilizzare l’energia nucleare a fini pacifici e rendersi così, almeno in parte, autonomi rispetto alla disponibilità di risorse naturali non rinnovabili. Si tratta di valutazioni che negli ultimi anni hanno trovato larga eco in Iran, combinate talvolta con considerazioni di natura ecologica quali quelle che postulano — nelle parole di James Lovelock, citate dal Tehran Times (26 maggio 2005) — «che occorre smettere di produrre energia da combustibili fossili... e dobbiamo farlo entro la prossima decade». «Bruciare gas invece di carbone sembrerebbe una buona soluzione poiché riduce della metà la produzione di anidride carbonica, ma in pratica il gas naturale può risultare la più pericolosa fonte d’energia, poiché è 23 volte più potente, come gas responsabile dell’effetto serra, dell’anidride carbonica». «Non vi è alcuna alternativa ragionevole, conclude Lovelock, all’energia nucleare».[24] Tali concetti sono stati ripresi in molte petizioni popolari sottoscritte nelle Università di Teheran, notoriamente non tenere nei confronti del regime teocratico, e sono condivise dalla stragrande maggioranza degli iraniani, quali che siano i loro orientamenti politici.
La scelta di investire nello sviluppo dell’energia nucleare in Iran non è recente ma risale ad una decisione dell’ultimo Shah. Come ricorda Kenneth M. Pollack, «l’Iran era un membro firmatario (charter member) del Trattato di non proliferazione fin dal 1970 poiché lo Shah era ansioso di costruire una rete di impianti per la produzione di energia nucleare e gli Stati Uniti erano disposti a fornirli solo a paesi che avessero firmato il Trattato».[25] L’attività avviata dal regime dello Shah fu continuata dopo la rivoluzione khomeinista, anche se all’inizio essa non fu particolarmente produttiva. È con l’andata al potere del leader riformista Khatami che gli inetti responsabili del progetto (nominati più per le credenziali rivoluzionarie che per le loro capacità tecniche) furono sostituiti con veri esperti ed efficienti manager e che il progetto ricevette un impulso reale.
Nell’agosto del 2002 il mondo venne a conoscenza, grazie alla denuncia degli oppositori all’estero del regime, il National Council of Resistence, dell’esistenza di due siti (Natanz ed Arak) ove si produceva materiale fissile utilizzabile anche per la costruzione di bombe nucleari. Le successive ispezioni a Natanz (febbraio 2003) da parte di funzionari dell’AlEA, cui l’Iran era sottoposto in quanto firmatario del TNP, confermarono l’esistenza di queste attività ed aggiunsero nuove preoccupanti informazioni. «Si trovarono 160 centrifughe assemblate per un programma pilota. In un altro edificio era in via di assemblaggio un ulteriore migliaio di centrifughe in una struttura industriale in grado di ospitarne 50.000. (Ciò sarebbe stato sufficiente per produrre materiale fissile per circa 25-50 bombe nucleari all’anno). Le centrifughe di Natanz erano identiche a quelle usate dai pakistani e, nel 2004, A.Q. Khan ammise di aver fornito un ampio aiuto all’Iran».[26]
Sono questi gli sviluppi che aprirono la strada al negoziato tra l’Iran ed il Board dell’AlEA ed a quello parallelo, cui si è già accennato, tra l’Iran e la troika europea. In queste discussioni la posizione ufficiale iraniana è sempre stata l’affermazione, non facile da contraddire, che il loro programma nucleare è a soli fini civili (e quindi «pacifici») e non contempla la produzione di armi di distruzione di massa. È chiaro tuttavia, come molti hanno fatto osservare, che il governo iraniano (quello attuale retto da Ahmadinejad non diversamente da tutti quelli precedenti post-khomeinisti) ha sempre considerato con estrema attenzione anche l’opzione militare, tecnicamente possibile, dato lo sviluppo del progetto ed i precedenti di altri Stati che certamente dispongono dell’arma nucleare.
Commentando l’avvio dei negoziati con gli europei, Pollack fa osservare: «Ovviamente Teheran non aveva alcuna intenzione di fermare il suo programma nucleare e lo ha continuamente riaffermato in sedi pubbliche. In effetti, nell’autunno del 2003, appariva più determinato che mai nell’acquisire armi nucleari come il solo mezzo sicuro per impedire agli Stati Uniti di invadere l’Iran così come era avvenuto in Afghanistan ed in Iraq».[27] Sono valutazioni non dissimili da quelle formulate più recentemente da M.me Azadeh Kian-Thiébaut (La République islamique d’Iran) che scrive: «Nel momento in cui il governo iraniano ed i suoi negoziatori sul dossier nucleare si impegnavano a rassicurare l’AlEA, l’Europa e gli Stati Uniti sulle intenzioni pacifiche dell’Iran, il quotidiano conservatore Jomhouri-ye Eslami, legato alla Guida, ha rivendicato, nel suo editoriale dell’8 novembre 2004, lo sviluppo dell’arma nucleare, qualificandolo come un ‘diritto naturale’ del popolo iraniano. Una tale dichiarazione è tuttavia in contraddizione con la posizione della Guida Khamanehi che, qualche giorno prima, si era opposto pubblicamente e per ragioni religiose allo sviluppo, alla detenzione o all’utilizzo dell’arma nucleare».[28]
Si possono meglio valutare queste posizioni, in apparenza ambivalenti e contraddittorie, se si considera che l’Iran è a tutti gli effetti accerchiato da truppe nordamericane. Come fa notare Kian-Thiébaut, «particolarmente dopo la tragedia dell’11 settembre 2001, l’esercito nordamericano è divenuto il più importante vicino dell’Iran, che si trova accerchiato da ovest (l’Iraq, la Turchia), da sud (il Golfo Persico, Qatar, Bahrein, Kuwait, Arabia Saudita), da est (Afghanistan, Pakistan) ed infine da Nord (Azerbaidjan)».[29] Se, infine, a questo si aggiunge che le uniche potenze nucleari della regione sono Israele e Pakistan, entrambi alleati degli Stati Uniti e che in particolare lo Stato ebraico ha più volte fatto intendere di essere pronto a bombardare le centrali nucleari iraniane (ripetendo quanto fatto con l’Iraq nel 1981), si possono comprendere le legittime preoccupazioni del regime iraniano e la sua intenzione di non accettare nulla che gli impedisca di sviluppare un proprio programma nucleare, anche per fini militari.
Da tutto ciò appare più chiaro l’intreccio delle questioni drammatiche che agitano la regione. Esse riguardano sia l’accesso alle fonti energetiche naturali (petrolio e gas), per le quali gli occidentali (Stati Uniti ed Europa) intenderebbero conservare una situazione di privilegio, anche di fronte alle necessità crescenti delle potenze asiatiche emergenti, sia, in contrasto, l’esigenza, molto sentita dalla parte iraniana, di garantirsi strumenti di difesa, anche attraverso una modifica a proprio favore dell’equilibrio geo-politico tra gli Stati della regione, alcuni dei quali (gli alleati degli USA, Israele e Pakistan) possiedono l’arma atomica. Tali questioni, se non affrontate e risolte con il negoziato e con le necessarie iniziative politiche che tengano conto dei legittimi interessi di tutte le parti in causa, potrebbero innescare una serie di gravissime crisi che colpirebbero innanzitutto l’Europa, ma potrebbero anche condurre ad una catastrofe generalizzata di dimensioni difficilmente immaginabili.
 
L’altro nodo: la questione palestinese.
 
Se, nell’ottica del mondo occidentale, garantire l’accesso alle fonti energetiche esistenti in Medio Oriente (Arabia Saudita, Iran, Iraq, ecc.) rappresenta, nel breve-medio termine,[30] una delle più importanti variabili nella complessa equazione dell’area, è indubbio che non meno cruciale — e certamente altrettanto gravida di preoccupazioni — appare un’altra questione, quella rappresentata dal conflitto che dura ormai da più di mezzo secolo e che contrappone i palestinesi, tuttora privi di una legittimità statuale, allo Stato d’Israele.
Andrebbe ricordato, in proposito, che le recenti affermazioni del Presidente iraniano Ahmadinejad circa la necessità di «cancellare lo Stato d’Israele dalla carta geografica del mondo» (che hanno creato tanto scalpore in Europa ed in genere nel mondo occidentale) sono ampiamente condivise in larga parte del mondo islamico, soprattutto nei paesi confinanti con la Palestina ove la tragedia di questo popolo è vissuta in presa diretta. Poco prima della fine del 2005, a margine delle elezioni politiche svoltesi in Egitto per la prima volta con la partecipazione del Movimento dei Fratelli Musulmani (che hanno ottenuto un ampio successo, numericamente contenuto solo perché essi hanno accettato la richiesta del presidente Mubarak di limitare la presentazione di propri candidati in un terzo delle circoscrizioni), Mahdi Akef, guida spirituale del Movimento, ha dichiarato al quotidiano Ashar al Awsat: «Il nostro atteggiamento è chiaro, noi non riconosciamo Israele. Lo consideriamo una banda di sionisti trapiantati da noi dall’America, dall’Oriente e dall’Occidente. Noi diciamo che Israele non ha diritto di esistere qui da noi e se ne deve andare».[31] La più larga eco sulla stampa occidentale delle dichiarazioni analoghe della leadership iraniana deriva dal fatto che l’Iran è l’unico paese «importante» della regione, dove anche il governo — e non solo la pubblica opinione, come in molti paesi alleati degli Stati Uniti, quali l’Egitto o l’Arabia Saudita — prende ufficialmente posizione contro Israele sostenendo ed appoggiando apertamente le rivendicazioni palestinesi. [32]
Non si vuole qui esprimere una valutazione assoluta e definitiva sulla questione del maggiore o minore grado di legittimità dell’attuale quadro di potere nel Medio Oriente, del quale comunque lo Stato di Israele fa parte, costituendone una realtà che non si può disconoscere. Al tempo stesso non va dimenticata la necessità di dar vita ad uno Stato palestinese indipendente che disponga di confini certi, come ormai accettato da gran parte del mondo occidentale. Già nell’estate del 1980, poco dopo il fallimento degli accordi di Camp David, il Movimento federalista europeo ha presentato al Parlamento europeo una petizione ove si ravvisava «nella creazione di uno Stato palestinese il fatto decisivo per consentire alle forze del progresso e della pace nel Medio Oriente di prendere il sopravvento su quelle della conservazione».[33]
Anche a proposito della situazione palestinese, vale comunque la pena di richiamare alla memoria qualche precedente storico che può aiutare a comprendere la situazione attuale. Come per molte altre situazioni «difficili» che caratterizzano l’area del Medio Oriente (petrolio e nucleare iraniano, guerra in Iraq, guerre civili nel Libano, ecc.) sono le decisioni prese dalla Gran Bretagna e dai suoi alleati, alla fine della prima guerra mondiale, che hanno dato vita a quella che oggi definiamo la «questione palestinese». Ricorda Rashid Khalidi, nel suo Resurrecting Empire: «Con la Dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917, la Gran Bretagna gettò il peso della più grande potenza dell’epoca… a favore della creazione di uno Stato ebraico in quello che era allora un paese ad amplissima maggioranza araba».[34] In realtà un’attenta lettura della Dichiarazione Balfour, permette di stabilire che il governo britannico, se si dichiarava favorevole «alla fondazione in Palestina di una ‘casa’ nazionale per il popolo ebraico», precisava al tempo stesso che «nulla sarà fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina».[35]
Ma, come per l’Iran ed altre zone difficili del mondo, dopo l’ultimo conflitto mondiale il ruolo di potenza imperiale è passato dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti. Nel caso della Palestina, gli americani hanno semplicemente accettato che, con la fondazione dello Stato di Israele, si compissero gli inevitabili sviluppi delle scelte di fondo fatte venticinque anni prima dai britannici. Fu il Presidente Truman che, scartando il punto di vista «della maggior parte dei suoi consiglieri di politica estera sulla questione palestinese», accettò un piano delle Nazioni Unite per una «spartizione della Palestina eccessivamente favorevole ai sionisti»[36] — e certamente non in linea con la parte conclusiva della Dichiarazione Balfour — e riconobbe il nuovo Stato ebraico subito dopo la sua dichiarazione d’indipendenza nel maggio del 1948. Una frase in apparenza banale, quasi una battuta, può talvolta far capire molto meglio di lunghe ed argomentate spiegazioni l’origine di certe situazioni. Secondo una fonte nordamericana, citata da Khalidi, il Presidente Truman, per giustificare il suo appoggio alla posizione sionista nonostante le obiezioni dei suoi collaboratori, avrebbe osservato: «Mi spiace signori, ma io devo dare una risposta alle centinaia di migliaia di persone che sono in ansia per il successo del sionismo; io non ho centinaia di migliaia di arabi tra i miei elettori».[37] Forse non è improprio affermare che questa breve considerazione del Presidente Truman costituisce la base sulla quale si fondò (e si fonda tuttora) l’alleanza strategica tra gli Stati Uniti ed Israele.
È noto che i palestinesi ed i loro leader politici mantennero per lungo tempo le posizioni formulate oggi da Ahmadinejad e da Mahdi Akef (e, come già si è osservato, per nulla minoritarie nel mondo musulmano medio-orientale), negando il diritto dello Stato d’Israele ad esistere. Questa situazione, superata dalla leadership palestinese di Arafat con il riconoscimento «di fatto» dello Stato d’Israele contenuto nella dichiarazione d’indipendenza dell’OLP del 1988 e dal riconoscimento formale che costituì parte degli accordi di Oslo (1993), è ora di nuovo messa in discussione, sia pure con formule che non possono essere giudicate ultimative, dal nuovo governo palestinese, espressione della maggioranza di Hamas uscita dalle elezioni del gennaio scorso. All’inizio di aprile, in un intervento pubblicato sulla stampa europea, il nuovo capo del governo, Ismail Haniyeh, ha ribadito le ragioni dei palestinesi ai quali vengono tuttora negati diritti fondamentali da parte di Israele, per proseguire affermando: «Noi di Hamas vogliamo la pace e vogliamo porre fine al bagno di sangue… Il messaggio di Hamas e dell’ANP al mondo è questo: non ci parlate più del riconoscimento del ‘diritto di Israele ad esistere’ o della cessazione della resistenza, finché non otterrete dagli israeliani l’impegno a ritirarsi dalla nostra terra e a riconoscere i nostri diritti».[38]
Quanto agli accordi di Oslo, che ora verrebbero messi in discussione dal nuovo governo palestinese, ricorda Pollack che essi furono resi possibili dall’impegno diretto della Amministrazione nordamericana retta dal Presidente Bill Clinton. Molti nello staff clintoniano «erano convinti che la disputa arabo-israeliana fosse la più importante fonte di instabilità della regione, e che i loro predecessori nell’amministrazione Bush avevano creato un’opportunità che bisognava sfruttare».[39] Secondo il progetto clintoniano, «il processo di pace avrebbe incluso i palestinesi, la Siria (ed il suo vassallo libanese) e la Giordania. Ma ciò significava che le altre fonti di preoccupazione sulla sicurezza di Israele — quelle che andavano oltre gli Stati coinvolti nelle trattative — avrebbero comunque dovuto trovare una risposta. In altre parole l’Amministrazione avrebbe dovuto far qualcosa anche nei confronti di Iraq e Iran».[40] Nei fatti, non vi fu discontinuità tra le iniziative dell’amministrazione Bush e le trattative gestite dalla Presidenza Clinton, che condussero agli accordi di Oslo. Entrambe furono rette da regole («ground rules») dettate dai nordamericani, sulla base delle quali «nulla di un qualche rilievo fu negoziato, e tanto meno concordato».[41] Si giunse al riconoscimento formale da parte dell’ANP dello Stato d’Israele, ma quest’ultimo si limitò ad accettare l’OLP come legittimo rappresentante dei palestinesi, non riconoscendo tuttavia «il diritto dei palestinesi alla statualità, all’autodeterminazione, o alla sovranità o a confini certi».[42]
La conseguenza delle intese di Oslo, accettate dalla leadership dell’OLP, in apparenza più interessata a consolidare la propria posizione di potere che a conseguire obiettivi cruciali per il futuro dei palestinesi, fu che Israele ottenne un pieno riconoscimento dai governi dei paesi arabi (che abilmente la leadership nordamericana aveva fatto partecipare al negoziato), laddove «i palestinesi furono dimenticati dai loro sostenitori nel mondo arabo ed altrove che, a torto, ritennero che essi avessero finalmente ottenuto i loro obiettivi nazionali».[43] Non deve quindi stupire se, alla prima occasione (le elezioni del gennaio 2006), i palestinesi abbiano premiato con un’ampia maggioranza il partito di Hamas che all’esito di Oslo si era opposto.
Se la maggior parte dei governi dei paesi arabi approvarono tali accordi, questo non fu certamente il caso dell’Iran. Come ricordato in precedenza, una delle motivazioni cruciali che stavano alla base dell’iniziativa della nuova Amministrazione nordamericana era quella di fornire rassicurazioni ad Israele per la sua sicurezza anche a fronte dei due Stati «canaglia» (Iraq ed Iran) che non erano stati invitati al negoziato. L’Iran, in particolare, rappresentava già allora l’unica «potenza regionale» dell’area, il cui governo, pur mantenendo buoni rapporti con Arafat e l’OLP, appoggiava apertamente le richieste più radicali dei palestinesi, sostenute da Jihad Islamica e Hamas. Ovvia conseguenza di questa posizione fu che l’Iran mantenne una posizione ostile al tentativo americano conclusosi con Oslo ed in genere continuò la propria attività «per cacciare gli Stati Uniti fuori dal Golfo, allargare la propria influenza nella regione e far deragliare il processo di pace».[44]
In questo quadro apparve subito chiaro che il processo avviato dalla Amministrazione Clinton era destinato al fallimento. Si trattava infatti di un negoziato impari, nel quale il presunto «onesto mediatore» (il governo USA) era in realtà schierato dalla parte di uno dei contendenti e nel quale i comprimari (i paesi della regione) erano stati scelti scartando l’unica potenza regionale, l’Iran, ove il governo era effettivamente rappresentativo del sentimento filo palestinese della popolazione ed in genere di tutto il mondo islamico medio-orientale. Con indubbio realismo, il primo ministro israeliano Sharon, ed il suo successore Olmert, ne hanno preso atto ed hanno deciso per il ritiro unilaterale prima da Gaza e, successivamente, anche da altre colonie nella parte occidentale della Giordania. Ma anche questa iniziativa, se sembra offrire migliori garanzie per la sicurezza d’Israele, in particolare con l’erezione del muro, non affronta le questioni cruciali alla base di questo conflitto ormai cinquantennale, quali quelle che riguardano la fondazione di uno Stato palestinese indipendente, il rientro dei profughi, il destino di Gerusalemme, ecc., e lascia quindi aperta la via a ulteriori aggravamenti della crisi.
Che fare quindi? Non è certamente una soluzione quella di affidarsi al «beneficio del tempo». In realtà, se si vogliono affrontare i termini reali della questione, non si può non ipotizzare un nuovo negoziato che, come suggerito dai collaboratori di Clinton, affronti il conflitto israelo-palestinese nella prospettiva del riconoscimento del diritto dei palestinesi ad uno Stato sovrano, garantendo nello stesso tempo le legittime richieste israeliane in termini di sicurezza. Ma sono necessarie due condizioni perché un tale negoziato possa avere successo: 1) non si devono escludere importanti attori regionali, in primis l’Iran; 2) occorre affrontare, in parallelo, tutti gli altri problemi dell’area. Ed in effetti, già il solo coinvolgimento dell’Iran consentirebbe di prendere in considerazione, come «variabili aggiunte» alla stessa equazione, la questione del nucleare iraniano, quella di una migliore regolamentazione nell’accesso alle fonti di petrolio e di gas della regione e, last but not least, quella del come uscire dalla crisi irachena.[45]
Anche le preoccupazioni degli Stati Uniti devono naturalmente essere tenute nella dovuta considerazione. Con riferimento alla questione del nucleare iraniano, Pollack sostiene che è possibile che gli Stati Uniti debbano convivere con un Iran nucleare, e, se da una parte suggerisce il posizionamento di missili balistici americani nell’area ed un formale trattato d’alleanza con Israele, dall’altra non manca di sottolineare la necessità di aperture in termini di aiuti economici e di un’iniziativa multilaterale, aggiungendo infine che gli Stati Uniti, pur essendo una «nazione straordinariamente potente, non è onnipotente» e che vi sono problemi che semplicemente gli Stati Uniti non possono gestire da soli.[46]
 
Grand Bargain: ruolo e responsabilità dell’Europa.
 
In definitiva bisogna avviarsi verso un negoziato globale (un «grand bargain», per usare un’efficace espressione dello stesso Pollack) che affronti tutti, e non solo alcuni, i complicati dossier del Medio Oriente e includa, oltre alle questioni della sicurezza della regione e ai relativi problemi nucleari, anche importanti progetti di aiuto economico per la ricostruzione di paesi sconvolti dalla guerra o dal malgoverno, coinvolgendo tutte le parti in causa. Ma perché un tale negoziato possa essere avviato ed offra una possibilità reale di condurre ad un’efficace intesa globale, è chiaro che occorrono «onesti mediatori» che siano effettivamente disposti ad operare per soluzioni equanimi (erga omnes) e che, al tempo stesso, dispongano di un effettivo potere (politico, economico e militare) da far pesare al tavolo delle trattative, secondo le regole, che anche in questo caso non possono essere ignorate, della realpolitik e della ragion di Stato.[47]
Ma chi possono essere questi «onesti mediatori»? O meglio, chi può affiancare gli Stati Uniti, ai quali compete per motivi storici e politici la tutela degli interessi degli israeliani, assumendosi il ruolo di «rappresentanti» dei legittimi interessi delle altre popolazioni medio-orientali? L’ovvia risposta è che questo ruolo spetta all’Europa.[48] Non si tratta solo dello specifico, enorme interesse che l’Europa non può non avere, come ricordava Sergio Romano prima dell’inizio dell’invasione dell’Iraq, per una pacifica sistemazione del Medio Oriente, con il quale essa confina. Si tratta anche di offrire un aiuto effettivo (da «equal partner» e non da succube associato) agli Stati Uniti, ai quali l’Europa è pur sempre legata da una reale coincidenza di interessi e da una comune tradizione di storia, di cultura e di valori consolidati.
Ma dov’è l’Europa? Questa sommaria ricostruzione delle più recenti vicende medio-orientali (dal rischio di guerra civile in Iraq, al dossier nucleare iraniano, al conflitto israelo-palestinese) mette in evidenza, una volta di più, che l’Europa è il «grande assente». In realtà, essa ha finora oscillato tra una posizione di quasi totale disinteresse ed una di sostanziale acquiescenza alla leadership nordamericana. Nel caso dell’Iran e della querelle nucleare, alcuni Stati europei hanno sì preso l’iniziativa di un dialogo con la leadership iraniana per cercare di ottenere una rinuncia a quelle parti del programma nucleare che presentano maggiori rischi di utilizzo nel settore militare (arricchimento dell’uranio, ecc.) ma — presi nella morsa tra la richiesta nordamericana di una maggiore durezza e la minaccia iraniana di un embargo nelle forniture petrolifere — hanno fallito. In effetti, non è stato difficile per gli iraniani valutare correttamente il senso delle iniziative europee. Commentando la prima bozza di risoluzione per il Board dell’AlEA, elaborata dalla troika europea nell’inverno del 2004, il quotidiano Iran News (28 novembre 2004), scriveva: «È chiaro che la troika europea sta cedendo alle pressioni degli Stati Uniti»; e ancora: «L’Europa dovrebbe o rinunciare al suo debole tentativo per una diplomazia indipendente verso l’Iran e porre da parte le sue pretese, oppure dovrebbe fornire una prova concreta che essa non è un’appendice della diplomazia globale degli Stati Uniti… Sfortunatamente, nonostante gli sforzi condotti senza convinzione, l’Europa sembra oggi troppo debole e indecisa per poter resistere al peso enorme esercitato dagli Stati Uniti sulla sua iniziativa diplomatica».[49]
Altrettanto vacua e inconsistente è apparsa la presenza dell’Unione europea nel cosiddetto «Quartetto» che dovrebbe garantire e supervedere la realizzazione della road map, cioè del nuovo piano di pace per il conflitto israelo-palestinese proposto dalla nuova Amministrazione nordamericana, ma di fatto superato dalla iniziativa unilaterale della leadership israeliana. Anche in questo caso gli europei non hanno fatto altro che associarsi nella sostanza alle proposte americane, pronti tutt’al più ad accollarsi parte dei costi o ad offrire modeste ed irrilevanti coperture pseudo-militari.
All’inizio del 2002, commentando una fase particolarmente difficile nel rapporto tra Israele e palestinesi (la seconda Intifada era al culmine e si stavano avviando le iniziative degli Stati Uniti che avrebbero condotto agli accordi di Oslo), Il Federalista scriveva: «Perché il problema possa essere avviato a soluzione è essenziale la presenza di un secondo attore, in grado di disporre di una forte influenza politica e di grandi risorse finanziarie, che agisca di concerto con gli Stati Uniti, ma senza dipendere da essi, e che possa dare… quella garanzia di equidistanza che gli Stati Uniti non sono in grado di fornire. Questo secondo attore non potrebbe essere che l’Europa se essa fosse in grado di esprimere, con l’unità politica, le immense potenzialità che possiede grazie al suo sviluppo economico e tecnologico, alla sua popolazione e alla sua elevata interdipendenza con i paesi del Medio Oriente».[50]
Sono passati quattro anni ma questa Europa ancora non esiste né pare vi sia alcuna consapevolezza da parte della classe politica europea della propria incapacità di far fronte alle drammatiche sfide che giungono da quell’area senza affrontare il problema di dar vita ad una vera unità politica (quindi statuale) dell’Europa. Ci si continua a baloccare con l’idea che sia sufficiente rimettere in vita, magari nel 2009, un Trattato costituzionale, la cui grande novità sarebbe rappresentata dalla nomina di un Ministro degli Esteri europeo, dimenticando quanto affermava Giscard d’Estaing, sempre all’inizio dell’invasione dell’Iraq nel marzo del 2003: «Gli avvenimenti legati alla crisi irachena hanno turbato assai poco, finora, i lavori della Convenzione… In politica estera ciò che sarebbe importante sarebbe la capacità di condurre un’azione diplomatica comune. Ma malauguratamente non è questo il caso».[51]
Non sarà certamente un tale atteggiamento quasi fatalistico che potrà salvare l’Europa (e il mondo) dalle conseguenze di una possibile degenerazione del quadro politico del «grande Medio Oriente». E quanto è il tempo a disposizione dell’Europa perché essa possa dare il proprio essenziale contributo ed invertire questa pericolosa tendenza? Certamente non molto. Non è solo questione di petrolio, di «picco di Hubbert» e di sicurezza nel breve-medio termine di forniture energetiche. Cosa accadrà, nei prossimi anni — se non nei prossimi mesi — a seguito della possibile dissoluzione dell’Iraq, o con la messa in atto della minaccia di intervento militare in Iran, o con una nuova più drammatica Intifada in Palestina, oppure con la conquista del governo da parte dei fondamentalisti islamici in paesi come l’Arabia Saudita, il Pakistan o l’Algeria?
Ma anche fondare uno Stato europeo, una Federazione europea, non richiede molto tempo. Ciò che occorre è la volontà di farlo, quella volontà che consentì al Cancelliere Kohl di decidere rapidamente, dopo la caduta del Muro di Berlino, di rinunciare alla sovranità del marco e di dar vita alla moneta europea.
 


[1] Seymur M. Hersh «The Iran Plans», in The New Yorker, 17 aprile 2006. Particolarmente preoccupanti appaiono le affermazioni di Hersh sul possibile uso da parte degli Stati Uniti di armi nucleari tattiche per penetrare in profondità i bunkers ove sarebbero collocate le installazioni nucleari iraniane: «Uno degli iniziali piani alternativi dei militari, presentati alla Casa Bianca dal Pentagono l’inverno scorso, propone l’utilizzo di speciali (bunker-buster) armi nucleari tattiche, quali la bomba B61-11, sui siti nucleari sotterranei» (vedi p. 3 del testo internet). Il Presidente Bush ha comunque smentito le affermazioni del New Yorker, qualificandole come «speculazioni deliranti». Ma «il portavoce della Casa Bianca ha anche ricordato che il Presidente ‘non scarta alcuna opzione’» (Le Monde, 12 aprile 2006).
[2] Chalmers Johnson, Le lacrime dell’impero, Milano, Garzanti, 2005. Vedi in particolare p. 83, ove Johnson cita Charles Krauthammer, un editorialista del Washington Post che, dopo gli attentati terroristici del 2001, festeggiò il successo «dei bombardamenti in Afghanistan con un articolo intitolato ‘Victory Changes Everything’».«La verità fondamentale, scrisse, che agli esperti evidentemente continua a sfuggire (è successo nel Golfo, in Afghanistan e succederà ancora in occasione della prossima guerra) è che il potere è ricompensa di sé stesso. La vittoria cambia tutto, soprattutto a livello psicologico. La situazione psicologica nella regione (Asia centrale) è ora di timore e di profondo rispetto per il potere americano. È il momento di approfittarne per mettere in guardia, sconfiggere o distruggere anche gli altri regimi dell’area che ospitano basi del terrorismo islamico radicale. Ma addirittura sei mesi prima dell’annuncio presidenziale della ‘guerra contro il terrorismo’ Krauthammer aveva asserito: ‘L’America non è come un qualsiasi cittadino del mondo. È la potenza che domina il mondo, come non accadeva dai tempi dell’antica Roma. L’America, di conseguenza, è nella condizione di poter rimodellare le norme, modificare le aspettative e creare nuove realtà. Come? Con implacabili dimostrazioni della sua volontà, e senza chiedere scusa a nessuno’».
[3] Robert Kagan, Il diritto di fare la guerra, Milano, Mondadori, 2004. Scrive Kagan (p. 24): «Il caso più interessante fu quello del Kossovo, dal momento che in quella occasione furono gli stessi europei che, insieme agli Stati Uniti, scesero in guerra senza ottenere la legittimazione da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Ciononostante, la maggior parte degli europei, all’epoca del conflitto ed anche in seguito, ha sostenuto che la guerra in Kossovo fosse legittima. Erano convinti che fosse soprattutto l’Europa ad avere la responsabilità morale di impedire un altro genocidio sul vecchio continente».
[4]. Sergio Romano, Il Corriere della Sera, Milano, 16 gennaio 2003 (editoriale).
[5] In realtà, è ben noto che non solo il Medio Oriente o l’Asia centrale costituiscono aree di particolare preoccupazione per i destini del mondo. L’estremismo islamico, ad esempio, esiste ed è attivo anche in grandi paesi dell’Asia orientale (Indonesia), dell’Africa centrale (Nigeria), come pure nel Nord Africa. Vedi, ad esempio, l’intervista rilasciata a Le Monde (4 aprile 2006) dal cofondatore del «Fronte Islamico della Salute» algerino (FIS) che, rientrato in Algeria, ha riaffermato il proprio obiettivo volto alla trasformazione dell’Algeria in uno Stato teocratico: «Mi batto per uno Stato algerino islamico, dunque governato secondo il Libro (il Corano) e l’insegnamento del Profeta (la Sunna)».
[6] «Come l’Europa può aiutare gli Stati Uniti», in Il Federalista, XLI (1999), editoriale, pp. 145 e segg.
[7] Middle East Monitor, Londra, Issue 8, agosto 2005, pp. 10, 11.
[8] Queste affermazioni di Ahmadinejad vanno in realtà classificate come «propagandistiche» e dirette soprattutto al fronte interno allo scopo di riaffermare una sorta di legittimità khomeinista, finalizzata al consolidamento del potere del nuovo Presidente nei confronti del «clan degli affari», guidato da Rafsanjani e sconfitto di misura alla tornata elettorale del luglio scorso. Non è facile, nel mondo occidentale, valutare appieno le dimensioni dello scontro in atto da tempo (in pratica da subito dopo l’elezione di Ahmadinejad), e non ancora pienamente risolto, all’interno dei vari gruppi fondamentalisti che si richiamano alla leadership khomeinista. Come faceva notare Mouna Naim (Le Monde, 26 agosto 2005), Ahmadinejad doveva registrare subito dopo la sua elezione una prima grave sconfitta al Parlamento iraniano che gli bocciava quattro dei ventuno candidati proposti come ministri (incluso il candidato per il ministero chiave del petrolio, che controlla l’80% delle entrate del paese). Per questa posizione Ahmadinejad, dopo aver tentato senza successo per altre due volte di far approvare un proprio uomo di fiducia, ha dovuto accettare una soluzione di compromesso nel dicembre del 2005, cioè cinque mesi dopo la sua elezione. (Vedi anche «Ally of Iran’s Leader Drops Effort to Win Oil Ministry», in International Herald Tribune, 10 novembre 2005 e «Iranian Lawmakers Rebuff President», in International Herald Tribune, 24 novembre 2005).
[9] IRNA, lancio del 4 ottobre 2005: «President Ahmadinejad Offers Proposal on Iran’s Nuclear Programs».
[10] IRNA, ibidem.
[11] Laurent Zecchini, «Nucléaire: l’Iran brandit l’arme du pétrole pour éviter des sanctions», in Le Monde, 22 settembre 2005.
[12] Karl E. Meyer, La Polvere dell’Impero, Milano, Corbaccio, 2004, p. 93. Meyer ricorda anche che l’espressione «il grande gioco» è dovuta all’ex-Ministro degli Esteri inglese George Nathaniel Curzon, che nel 1892, in un suo libro dedicato alla Persia e all’Asia centrale, aveva scritto: «Turkestan, Afghanistan, Transcaspia, Persia… per molti questi nomi ispirano solo un senso di estrema lontananza o la memoria di strane vicissitudini. Per me, lo confesso, sono i pezzi su una scacchiera sopra la quale si gioca per il dominio del mondo». «Curzon — aggiunge Meyer — non aveva bisogno di ricordare che la parola ‘scacco matto’ deriva dal persiano ‘shah’, che vuol dire re, e ‘mal’ che sta per indifeso o sconfitto» (Meyer, op. cit., p. 92). Per un’analisi esauriente della storia recente dell’Iran e dei suoi rapporti con le grandi potenze, vedi anche Kenneth M. Pollack, The Persian Puzzle. The Conflict between Iran and America, NYC, Random House, 2004.
[13] Meyer, op. cit., p. 106: «Il 17 giugno 1914 Churchill sottopose ai Comuni una proposta audace di fusione: per 2,2 milioni di sterline il governo britannico poteva acquistare il 51% delle azioni e due posti nel consiglio d’amministrazione nella Anglo-Persian Oil Company di D’Arcy. Ciò assicurava alla Royal Navy prezzi stracciati per il suo petrolio, cosa che si verificò puntualmente (il prezzo esatto fu mantenuto segreto per decenni)». Secondo Johnson, op. cit (p. 259): «La Anglo-Persian Oil Company… aveva fruttato al Tesoro britannico (fino al 1953) ben 24 milioni di sterline in tasse e 92 milioni di sterline in valuta estera».
[14] A proposito della decisione delle potenze alleate, e in particolare della Gran Bretagna, di «sistemare» il Medio Oriente dopo il disfacimento dell’Impero ottomano, dando vita ai regni hashemiti in Iraq e Giordania, al mandato inglese per la Palestina ed a quello francese per la Siria, si veda in particolare: David Fromkin, A Peace to End All Peace, NYC, Henry Holt, 1989; Christopher Catherwood, La follia di Churchill, Milano, Corbaccio, 2005; John Keay, Sowing the Wind: The Seeds of Conflict in the Middle East, Londra, John Murray, 2003.
[15] Sulla «rivolta del tabacco», avvenuta a Shiraz nel 1891 (la prima rivolta contro gli inglesi in Iran), sulle sue motivazioni e sull’alleanza costituitasi allora per la prima volta tra bazarii (commercianti), clero ed intellettuali occidentalizzanti, vedi Pollack, op. cit., pp. 17 e segg.
[16] Pollack, op. cit., pp. 53 e segg.
[17] Si deve osservare che il colpo di Stato, pur reso possibile dal coinvolgimento diretto della CIA che operò attraverso l’Ambasciata americana di Teheran e dall’attività corruttrice dei britannici che sfruttarono i loro legami con i militari e con la Corte (vedi Pollack, op. cit., pp. 66 e segg.), fu enormemente facilitato dall’indebolimento del governo nazionalista di Mossadeq cui vennero a mancare, a causa del blocco britannico, le pur modeste rimesse petrolifere.
[18] Elena Pomelli (a cura di), «Il fattore Cina condizionerà l’energia», in Il Corriere della Sera, 5 dicembre 2005: «L’effetto traino del boom che sta interessando il celeste impero, accoppiato a quello dei vicini indiani, farà aumentare d’ora in poi la domanda mondiale d’energia dell’1,6% all’anno, un ritmo ben più sostenuto degli anni scorsi, fino a raggiungere il 50% in più rispetto al fabbisogno attuale nel 2030».
[19] Paul Roberts, The End of Oil, Boston, Mariner Book, 2004, p. 46.
[20] Kenneth S. Deffeyes, Beyond Oil, NYC, Hill and Wang, 2005, Prefazione, p. XI.
[21] Per informazioni più esaurienti e dettagliate sulla disponibilità di petrolio e di altre fonti energetiche naturali, vedi, tra gli altri: Paul Roberts, op. cit.; Kenneth S. Deffeyes, op. cit.; Kenneth S. Deffeyes, Hubbert’s Peak. The Impending Oil Shortage, Princetown (NJ), Princetown University Press, 2003; Colin Campbell, The Coming Oil Crisis, Brentwood (Essex, UK), Multi-Science Publishing Company and Petroconsultants, 1988.
[22] Non mancano le voci discordanti («cornucopians»), soprattutto nel mondo degli affari e della finanza. Vedi ad esempio la Tavola rotonda in International Herald Tribune (3-4 dicembre 2005) dal titolo «A World Without Easy Oil: What Now?». Ma anche i più ottimisti manifestano qualche cautela: ad esempio, Adam Sieminski, chief energy economist di Deutsche Bank, dopo aver sottolineato che «il mondo ha rischiato di esaurire il petrolio dal giorno in cui il primo barile è stato estratto» ammette che la disponibilità continuerà al massimo «per le prossime due, o tre, o quattro, decadi».
[23] Negli Stati Uniti, è da tempo in atto un dibattito sul come ridurre la dipendenza del paese dalle forniture di materie prime energetiche (petrolio in particolare) dall’estero e soprattutto dal Medio Oriente. Nel suo «Discorso sullo stato dell’Unione» (31 gennaio 2006) il Presidente George W. Bush ha affrontato con notevole chiarezza l’argomento impegnando il proprio governo in un programma pluriennale di ricerca e sviluppo sulle fonti rinnovabili e le energie alternative che dovrebbe consentire agli Stati Uniti di ridurre del 75%, entro il 2025, le proprie importazioni di petrolio dal Medio Oriente (vedi: «President Bush Delivers State of the Union Address», www.whitehouse.gov/news/ releases/2006/01, pp. 5-6).
[24] Gwynne Dyer, «Nuclear Power: Rising from the Grave?», in Tehran Times, 26 maggio 2005.
[25] Pollack, op. cit. p. 363.
[26] Pollack, op. cit. p. 363. Lo scienziato A.Q. Khan, cui si fa qui riferimento, è considerato il padre della bomba atomica pakistana. È indubbio che a lui si debba gran parte della diffusione delle informazioni tecniche e del know-how nucleare non solo all’Iran ma anche ad altri paesi, forse alla stessa Corea del Nord.
[27] Pollack, op. cit., p. 365.
[28] Azadeh Kian-Thiébaut, La République islamique d’Iran, Parigi, Editions Michalon, 2005, p. 102.
[29] Kian-Thiébaut, op. cit., p. 9.
[30] Non è facile precisare un limite temporale per definire il «breve-medio termine». Si può però ricordare che il Presidente Bush ha fissato nel 2025 (cioè tra 19 anni) il termine per ridurre del 75% la dipendenza degli Stati Uniti dal petrolio medio-orientale. Per l’Europa che, rispetto agli Stati Uniti, dipende in termini molto maggiori dalle forniture estere (quelle medio-orientali in particolare) sarebbe prudente pensare ad un massimo di 5-10 anni.
[31] Magdi Allam, «Giocare d’azzardo con i Fratelli Musulmani», in Il Corriere della Sera, 19 dicembre 2005.
[32] È certamente in linea con le posizioni iraniane pro-palestinesi anche il governo siriano, che non a caso è oggetto, con l’Iran, di nuove minacce da parte dell’Amministrazione nordamericana. Riferendo in merito alla visita di Ahmadinejad a Damasco, scrive su La Stampa (21 gennaio 2006): «L’Iran può contare ancora su molti alleati in Medio Oriente e non è affatto isolato. Questo il messaggio lanciato ieri dal Presidente iraniano Ahmadinejad in visita per due giorni nella capitale siriana Damasco. ‘Assieme alla Siria ci troviamo a fronteggiare le stesse minacce americane e della comunità internazionale: dobbiamo rafforzare il fronte comune della resistenza’». Alle parole del Presidente iraniano ha fatto eco il leader siriano Assad, affermando: «L’Iran ha diritto, come ogni altro paese al mondo, di assicurarsi il possesso di tecnologia nucleare ad uso pacifico».
[33] «Petizione al Parlamento europeo per la costruzione di uno Stato palestinese», in Il Federalista, XXII (1980), p. 209.
[34] Rashid Khalidi, Resurrecting Empire, Londra, I.B. Taurus, 2004, p. 118.
[35] Fromkin, op. cit., p. 297.
[36] Khalidi, op. cit., p. 121.
[37] William A. Eddy, FDR Meets Ibn Saud, NYC, American Friends of the Middle East, 1954, p. 37.
[38] «Haniyeh: no al piano Olmert. Siamo fedeli alla nostra lotta», in La Stampa, 4 aprile 2006 (copyright The Daily Telegraph).
[39] Pollack, op. cit., p. 260.
[40] Pollack, op. cit., p. 260. L’annotazione che «occorresse fare qualcosa nei confronti dell’Iraq e dell’Iran» è un’ulteriore testimonianza che la politica medio-orientale di Clinton era pur sempre orientata — come lo era stata per i suoi predecessori — dalla necessità di tutelare gli interessi dell’alleato israeliano.
[41] Khalidi, op. cit., p. 137.
[42] Khalidi, op. cit., p. 138.
[43] Khalidi, op. cit., p. 138. Vedi anche Edward W. Said, La pace possibile, Milano, Il Saggiatore, 2005, p. 205: «Uno dei tanti difetti della pessima leadership di Arafat (per non parlare dei leader arabi, in generale ancora più deplorevoli) sta proprio nel fatto che nei dieci anni di negoziati di Oslo lui non ha mai richiamato l’attenzione sulla proprietà della terra, imponendo a Israele l’onere di dichiararsi disponibile a rinunciare ai diritti sul suolo palestinese».
[44] Pollack, op. cit., p. 266.
[45] Già Pollack (op. cit., pp. 354 e segg.) ricorda che delegazioni diplomatiche iraniane e nordamericane, pur di non alto livello, si sono incontrate in diverse occasioni a Ginevra per affrontare le questioni poste ad entrambi i paesi dall’invasione statunitense in Iraq. Secondo Pollack, l’atteggiamento cautamente aperto e conciliante degli iraniani dipendeva dal giudizio che «gli interessi dell’Iran sarebbero stati più favoriti se il progetto nordamericano di dar vita ad un Iraq stabile, pluralista e indipendente avesse avuto successo» (p. 356). Più recentemente (e quindi sotto il regime di Ahmadinejad) tali cauti e riservati contatti diretti sono stati ripresi e la stampa iraniana non ha mancato di sottolinearli. Vedi ad esempio: Tehran Times (20 giugno 2005), che citava i commenti espressi dal portavoce del Dipartimento di Stato Sean McCormack sulla visita dell’allora Primo Ministro iracheno, al-Jafari a Teheran: «Abbiamo sempre incoraggiato l’Iraq ad avere buone relazioni con tutti i suoi vicini, incluso l’Iran»; e ancora, «abbiamo più volte nel passato commentato che l’Iran potrebbe svolgere un utile ruolo nello sviluppo dell’Iraq».
[46] Pollack, op. cit., p. 423.
[47] A proposito del «valore» della ragion di Stato, anche nell’ottica federalista, che pur tende al suo superamento, vedi ad esempio Mario Albertini, in Il Federalista, XXIII (1981), p. 122: «Quando infatti diciamo equilibrio in sede politica alludiamo a significati concretamente fissati nel termine dal corso storico. Cioè la realtà e la nozione di ragion di Stato e di equilibrio di potenza, nella vita del sistema europeo, che fu sino alla prima guerra mondiale il sistema mondiale. Equilibrio che non poté impedire la guerra, ma permise un’evoluzione positiva della realtà politica, nella quale poté entrare una componente razionale (i classici ministri della ragion di Stato svolsero un capitolo della storia della ragione, e l’equilibrio di forze che resse la vita del sistema europeo comportò la presenza della ragione)». Vedi anche Nicoletta Mosconi, «Limiti e dilemmi del pacifismo», in Il Federalista, XLIII (2001), pp. 213 e segg.
[48] Nel luglio del 1980, a proposito dell’interesse dell’Europa per una soluzione pacifica dei problemi del Medio Oriente, Mario Albertini scriveva: «Il punto di partenza di questa strategia consiste nell’avviare a soluzione il problema palestinese, dopo l’evidente fallimento degli accordi di Camp David. La Comunità europea deve riconoscere l’OLP come legittimo rappresentante del popolo palestinese e deve operare attivamente alla costruzione di uno Stato palestinese, invitando subito Israele a rinunciare agli insediamenti nei territori occupati e l’OLP a rispettare l’integrità dello Stato di lsraele nei confini precedenti la guerra dei sei giorni. Non è vero, come si tenta di sostenere da parte statunitense, che il problema palestinese debba passare in secondo piano dopo gli avvenimenti afgani e iraniani. Il dramma di questo popolo destinato a vivere in condizioni subumane nei campi profughi o in esilio è tale da alimentare senza tregua odi e rancori contro chi perpetua tali soprusi. Non si può pensare che si affermino le forze della ragione, che pure esistono, fino a che questa patente violazione dei diritti umani non avrà termine. L’Europa non ha né le ragioni di politica interna — una potente lobby sionista — né quelle di politica internazionale — la riluttanza a favorire il non allineamento di questi popoli — che impediscono agli USA di accettare la soluzione del problema». («La via europea alla pace nel Medio Oriente», in Il Federalista, XXII (1980), p. 174.
[49] «Can Europe Keep its Commitments to Iran?», in Iran News, 28 novembre 2004.
[50] «La tragedia del Medio Oriente», in Il Federalista, XLIV (2002), p. 6, editoriale.
[51] Intervista a Giscard d’Estaing, in Le Monde, 13 marzo 2003.

 

 

il federalista logo trasparente

The Federalist / Le Fédéraliste / Il Federalista
Via Villa Glori, 8
I-27100 Pavia