IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XLVII, 2005, Numero 3, Pagina 178

  

 

La crisi dell’ordine urbano
e il pensiero di Jane Jacobs
 
MARIO ALBERTINI
 
 
Le recenti rivolte delle periferie urbane, che sono iniziate in Francia, ma che hanno investito anche altre città europee, sono state interpretate in vari modi. Alcuni hanno sottolineato l’aspetto sociale collegandole, soprattutto, al problema dell’immigrazione, o comunque al problema dell’emarginazione sociale; altri l’aspetto strutturale, legato alla gestione dell’ambiente urbano.
Se nella realtà questi due aspetti sono presenti e intrecciati fra di loro, e se la conoscenza e l’azione che potrebbero consentire di affrontare il problema della crisi urbana devono tener conto di entrambi, sul piano analitico si possono e si devono tenere separati i due aspetti: quello urbanistico in senso stretto e quello sociale (con le sue componenti psicologiche, sociologiche, morali e storiche).
In questa prospettiva ci sembra utile proporre alla lettura un saggio che Mario Albertini ha scritto nel 1984 e che ha avuto una diffusione molto limitata come «Quaderno de Il Federalista». In esso viene individuato, a partire dal libro di Jane Jacobs Vita e morte delle grandi città, un nesso interessante fra la concezione e la pianificazione della città da una parte, e i comportamenti sociali dei suoi abitanti dall’altra.
Tale nesso ha permesso ad Albertini di proiettare il discorso, sia pure come riflessione introduttiva a una tematica che non ha qui sviluppato, su uno degli aspetti del pensiero federalista, l’aspetto comunitario, collegando così il problema urbanistico alla sfera politica. Le problematiche della Jacobs — in particolare il vicinato e il controllo spontaneo dei cittadini nelle strade e nei marciapiedi — permettono infatti di riconoscere la possibilità di una «forma limitata ma reale di democrazia diretta, di autogoverno informale» al livello del potere più vicino ai cittadini, in un modello di federazione articolato in vari livelli di governo che Albertini ha prefigurato come alternativa al modello classico bipolare nato negli Stati Uniti d’America.
Quello che in altri scritti Albertini ha definito «democrazia partecipativa» come garanzia del buon governo delle città ha infatti la sua base sia nella distribuzione del potere (vari livelli di governo indipendenti e coordinati a partire dal quartiere), sia nell’informazione e nella comunicazione, cioè in quel «flusso di informazione spontanea» che deriva dai rapporti e dai contatti della vita quotidiana e che dipende anche da un assetto urbano che, evitando l’isolamento fislco e psichico degli abitanti delle città, o di parte di essi, permette che si manifestino sentimenti di identificazione e quindi di partecipazione.
 
***
 
I
 
Le città — per definizione il luogo della sicurezza — presentano ormai, specie nelle periferie, o nei centri storici degradati o in altri punti critici, delle situazioni ambientali in cui prevalgono l’insicurezza, la violenza e la paura. Non ci sono più soltanto le vie pericolose che non conviene percorrere a piedi di sera, ci sono anche interi quartieri recintati e vigilati per difenderli dalla minaccia della violenza, che non proviene più dall’esterno ma dall’interno stesso della città. Questi dati di fatto (nuovi rispetto agli elementi di insicurezza del passato) vengono spesso considerati come una delle conseguenze del nuovo modo di costruire e di collegare gli edifici; e questa opinione va presa seriamente in esame sia perché sembra avere il carattere di una evidenza, sia perché sembra mostrare la specificità della crisi urbana contemporanea, che non potrebbe perciò essere semplicemente ricondotta alla crisi delle prime forme di città industriale (già segnalata da Engels sin dal 1845 nel capitolo sulle grandi città del suo La situazione della classe operaia in Inghilterra).
In effetti, anche tenendo presente che a questo riguardo la cautela è necessaria perché non è sempre chiara nemmeno la distinzione tra violenza generata o subita dalla città, bisogna pur ammettere che la sola visione della maggior parte degli edifici che sorgono dentro le città o ai loro margini, basta per suggerire subito, a un osservatore normale, l’idea dell’incapsulamento forzato di uomini e donne — spogliati della loro individualità e umanità — in alveari mostruosi e ossessivi. Non si può, dunque trascurare questa impressione; e ciò che colpisce, e aggiunge una ulteriore nota di gravità al fatto, è che mentre questa sensazione si diffonde sempre di più, questo modo di costruire continua implacabile ovunque, in tutti i continenti, come se tutti l’approvassero.
C’è un esempio che dimostra bene come siano profonde, nella nostra società, le radici di questa contraddizione. E’ lo stesso vertice del potere politico che può, nello stesso tempo, denunciare questi mali e continuare a produrli. Si deve, in effetti, fare questa constatazione pensando, ad esempio, alla Francia della presidenza di Giscard d’Estaing, e leggendo nel suo libro-manifesto del 1976, Démocratie française, queste affermazioni: «Tra le grandi realizzazioni della Quinta Repubblica, va annoverato il tour de force di aver costruito 7.500.000 alloggi… Ma nello stesso tempo, come ignorare che molti di questi nuovi complessi residenziali comportano una causa profonda di insoddisfazione? In questo campo, l’edilizia degli ultimi cent’anni non ha espresso — salvo casi isolati e meritori — la politica dei suoi principi. Sono stati costruiti — o si è permesso di costruire — dei falansteri d’ispirazione collettivistica, monotoni e di proporzioni smisurate, che hanno prodotto violenza e solitudine. Oggi è necessario che l’accesso alla proprietà sia preferito alla locazione, l’abitazione unifamiliare al casamento collettivo, la rigenerazione dei vecchi habitat alle nuove costruzioni, la piccola città alla megalopoli; e parimenti è indispensabile dare un effettivo colpo di freno al gigantismo. Verrà dunque creato un quadro esistenziale a misura d’uomo, rispettoso di ciò che esiste, favorevole a un’organizzazione personale della vita, propizio allo sviluppo della comunicazione sociale e alle relazioni di vicinato». E ancora: «Nella vita privata, si tratta dell’accesso a un habitat individuale che assomigli il meno possibile a una cella in un alveare di cemento, e il più possibile a una casa».[1]
Sembra che sia tutto chiaro, tutto detto, ma non è così. In Francia, come altrove, a questo riguardo non è cambiato nulla. Il fatto stesso che un numero sempre maggiore di persone giunga ormai sino al punto di pensare che invece di «case» si costruiscono edifici che producono violenza e solitudine, e che le parti nuove delle città non sono più «un quadro esistenziale a misura d’uomo», non è servito a nulla, nemmeno a suscitare l’allarme. Bisogna dunque dire che la città è in pericolo? Che anche per quanto riguarda l’insediamento sul territorio l’umanità non riesce più a controllare le forze che essa stessa scatena? Che non possediamo più un criterio per distinguere la città dal suo contrario, la non-città che cresce intorno a noi?
 
II
 
Secondo alcuni studiosi la causa della degradazione urbana sarebbe di carattere economico (e secondariamente giuridico). Ad esempio Mitscherlich la riconduce senz’altro al «carattere sacro della proprietà; in particolare della proprietà del suolo».[2] Ma anche se si dovesse ammettere la fondatezza di questa interpretazione (che è probabilmente vera solo in parte), resterebbe tuttavia il fatto che chi agisce nel settore della politica urbanistica ha bisogno di sapere che cosa deve fare — e che cosa non fare — per ridare alle città che l’abbiano perduto il loro carattere fisiologico; e questa necessità progettuale mostra che bisogna comunque attribuire anche all’urbanistica l’autonomia relativa che contraddistingue lo studio di tutti i comportamenti importanti dell’uomo.
Del resto, se fosse vero che tutto il male deriva dalla proprietà del suolo noi avremmo avuto (come accade sempre) la parte sana della scienza e della cultura (in questo caso urbanistica) contro l’attuale modo di edificare e di pianificare, e a favore di progetti di sviluppo fisiologico delle città. Ma questa polemica non c’è stata, o più precisamente non c’è stata in questi termini. In gran parte il modo attuale di edificare dipende proprio dalle concezioni prevalenti nell’urbanistica (che si rivela così come una cultura in crisi). Si constata dunque un fatto se si mette in evidenza la mancanza di una capacità progettuale adeguata alla fase attuale del processo di urbanizzazione. Bisogna dunque, in primo luogo affrontare il problema nei suoi aspetti specificamente e materialmente urbani, e solo in un secondo tempo, dopo aver deciso quali sono le caratteristiche della città che devono essere salvaguardate (o promosse ecc.), esaminare le condizioni non urbanistiche — cioè economiche, giuridiche, politiche e culturali — della politica urbana. Ame pare che a questo riguardo abbia dato un contributo essenziale Jane Jacobs.[3]
 
III
 
Due parole sul metodo di Jane Jacobs. Si può affrontare il problema della crisi urbana partendo da una idea della città (qualunque essa sia) o dalla osservazione della vita reale. Nel primo caso l’oggetto della riflessione è precostituito. E non basta. Siccome non può non avere, nello stato presente del pensiero, che il carattere di una tipologia storica, esso presenta anche una grande complessità culturale e un alto livello di astrazione. In particolare questo metodo seleziona, prima ancora di averli presi direttamente in esame, i comportamenti sociali degli abitanti delle città, cioè il dato nel quale si manifesta la crisi urbana. Nel secondo caso, invece, ciò che costituisce l’oggetto primario e preliminare dell’indagine sono proprio questi comportamenti. Ne segue che la prima fase dell’indagine ha, di per sé, un carattere empirico e descrittivo; e come scopo, quello di far entrare nel campo dell’esame, per sottoporla poi all’investigazione teorica, una realtà bene osservata, e non solo intuita o, peggio, prefigurata.
E’ questo l’orientamento di Jane Jacobs; ed è su questo terreno che essa si è scontrata con le concezioni urbanistiche dominanti. Essa ritiene che l’urbanistica si trovi ancora «nello stesso stadio di dotta superstizione in cui si trovava la medicina agli inizi del secolo scorso»; e la paragona alla «scienza del salasso»: «Occorrevano a quel tempo anni di studi per sapere con esattezza quale vena dovesse essere aperta, e con quale tecnica, in relazione a certi sintomi. Su questa base si formò una complicata sovrastruttura tecnica, così presuntuosamente minuziosa da far apparire ancor oggi plausibile il metodo in questione». La sua conclusione è questa: «Come nel caso del salasso, così nel caso della ristrutturazione e della pianificazione urbanistica è sorta, su fondamenti inconsistenti, una pseudo-scienza che richiede anni di studio e una pletora di sottili e complicati dogmatismi… La pratica del salasso — che solo in casi eccezionali o fortuiti poteva risultare utile — venne infine abbandonata e sostituita da una pratica ben più ardua e complessa, consistente nell’elaborare, applicare e verificare, passo per passo, interpretazioni fedeli della realtà dedotte non da come essa dovrebbe essere, ma da come essa è. Al contrario, la pseudo-scienza dell’urbanistica e la sua gemella, l’architettura urbana, non hanno ancora rinunciato alle comode illusioni, ai pii desideri, alle espressioni simboliche, e non osano ancora avventurarsi nell’impresa di esplorare il mondo reale».[4]
In gran parte ciò è vero (lo mostrano i risultati), anche se con un limite che potrà essere chiarito in seguito; come è vero, d’altra parte, che la Jacobs si è effettivamente avventurata nella difficile ma utile impresa di esplorare il mondo reale. Proprio per questo essa ha potuto vedere ciò che di solito si cela dietro la cecità dell’abitudine, cioè dietro la tendenza a confondere il noto con il conosciuto. Lei stessa scrive: «Secondo me il modo migliore per riuscire a capire come funziona il mondo apparentemente misterioso e contraddittorio delle città è quello di esaminare da vicino e con la minor prevenzione possibile gli spettacoli e gli eventi più comuni, cercando di afferrarne il senso e di trovare gli eventuali fili conduttori che li colleghino a qualche principio». E ancora: «La maggior parte delle idee che sono alla base di questo libro provengono da osservazioni fatte o raccolte in altre città [rispetto a quella dove abita, New York]… Quasi sempre il materiale per queste riflessioni era già presente sotto le finestre di casa; ma forse è più facile notare per la prima volta le cose lì dove esse non sono rese ovvie dall’abitudine».[5]
 
IV
 
Sul piano empirico il risultato più importante ottenuto da Jane Jacobs è il seguente. Essa è riuscita a mostrare che esiste uno stretto collegamento tra alcune funzioni urbane essenziali (urbane in senso largo perché non dipendenti solo dal fattore urbano) ed alcune caratteristiche della città come quadro fisico ed organizzativo (urbane in senso stretto perché dipendenti soltanto dal disegno della città e dalle destinazioni d’uso). Le funzioni in questione — più precisamente: quelle inquadrabili subito in questo schema — sono: la sicurezza, lo sviluppo dei contatti umani, l’assimilazione dei ragazzi, mentre le caratteristiche urbane corrispondenti riguardano in primo luogo le strade e i marciapiedi, o per meglio dire, il loro ruolo al di là del semplice fatto di consentire lo scorrimento dei veicoli e il transito dei pedoni.[6]
Il dato di fatto chiaramente osservabile (e in effetti notato da tutti, sia pure senza farci caso e trovandolo ovvio) è questo: se c’è una netta separazione tra spazi pubblici e privati, in particolare tra i marciapiedi come sedi di vita collettiva e le case come luogo della privacy (separazione che non esiste più nei complessi edilizi residenziali dove si ha in comune con gli altri tutto o niente, e quindi, in ultima istanza, niente), se le strade sono sorvegliate dai loro «naturali proprietari» come i negozianti ecc. (cioè se esiste un numero sufficiente di negozi e di altri luoghi pubblici), e se i marciapiedi sono frequentati con sufficiente continuità lungo tutto l’arco della giornata (sia per la varietà dei luoghi pubblici e della rete commerciale, sia perché una strada animata «costituisce di per sé un’attrattiva per altra gente» che non solo la frequenterà, ma starà spesso alla finestra, sosterà sulle panchine se ci sono ecc.), allora la strada è sicura, l’intero potenziale dei contatti umani si realizza e i ragazzi acquisiscono naturalmente le forme di vita e il costume della città.[7]
E non basta. Questo rapporto tra questi comportamenti sociali (esaminati nel quadro della città, cioè come funzioni urbane) e le caratteristiche urbane menzionate, può e deve essere esteso a tutta la vita cittadina. In effetti Jane Jacobs intitola il capitolo del suo Vita e morte delle grandi città nel quale svolge questa analisi «La natura specifica delle città». E, di fatto, su questa base essa è riuscita a chiarire la questione dei parchi urbani (in senso lato, comprensivo anche delle piazze alberate), che possono avere una funzione positiva solo nel quadro urbano già delineato (con precisione: se si trovano nel raggio d’azione della rete che garantisce la sicurezza dei marciapiedi e delle strade) e ad impostare in modo realistico, come vedremo, la funzione del vicinato (distinto in vicinato di città, di quartiere e di strada).
 
V
 
Se si considera la vita cittadina con questo punto di vista si trova che essa è composta da un insieme di comportamenti (le funzioni urbane) la cui possibilità o impossibilità dipende dall’assetto urbano, e che presentano due aspetti fondamentali: quello dell’unità organica e quello della spontaneità. Si riesce inoltre, con l’esame di questi aspetti, ad attribuire un primo contenuto concreto alla differenza tra ciò che è urbano in senso largo (perché non dipende solo dal fattore urbano) e ciò che è urbano in senso stretto (perché dipende solo dal fattore urbano).
I comportamenti urbani messi in evidenza costituiscono una unità organica perché, pur essendo perfettamente distinguibili e pur avendo ciascuno, per sé considerato, una sua natura peculiare, si manifestano tuttavia solo insieme. E’ un fatto, come è un fatto che — a prescindere da condizioni che non sono quelle della vita quotidiana di tutti — essi non possono manifestarsi ad uno ad uno, separatamente, se non in forme precarie, insufficienti o distorte. Bisogna però tener presente che questa unità non scaturisce direttamente dalle disposizioni che stanno alla base di questi comportamenti, ma dal fattore urbano, e più precisamente: a) dal fatto che senza un quadro cittadino adeguato questi comportamenti non possono manifestarsi (senza sicurezza non c’è fiducia, senza occasioni sistematiche per ampi scambi di esperienze non c’è ampio scambio di esperienze ecc.), e b) dal fatto che questo quadro urbano non fornisce ambienti e occasioni separate per ciascuna di queste disposizioni, ma solo, come si è visto, un solo ambiente organico e unitario per tutte (la città nel suo insieme).
E’ dunque il fattore urbano in senso stretto che, avendo a questo riguardo il carattere dell’unità organica, la proietta sulle disposizioni umane nel momento in cui si traducono in comportamenti effettivi ed acquisiscono la caratteristica di funzioni urbane. Questo è il campo dei fatti che dipendono dal reticolo urbano, e questo dovrebbe essere l’oggetto dell’urbanistica come scienza.[8] Questa osservazione permette in effetti di stabilire una netta linea di confine tra ciò che deve essere in primo luogo studiato (o esaminato, o progettato ecc.) sul piano urbanistico (il disegno della città e le destinazioni d’uso, che svelano a questo punto il loro carattere di struttura materiale di certi comportamenti umani); e ciò che, pur avendo una dimensione urbana (cioè carattere urbano in senso largo) deve essere invece studiato, in primo luogo, sul piano psicologico, sociologico, morale, storico ecc.
Ciò che impedisce di controllare il pensiero quando si pensa la città — e trattiene ancora la cultura urbanistica nello stato della «dotta superstizione» — è proprio la confusione tra questi due piani. In quanto tale, nella sua concreta realtà, la città è sia lo stretto fatto fisico e organizzativo urbano (in un certo senso l’elemento sincronico), sia la vita che scorre in questo reticolo (in un certo senso l’elemento diacronico). Ma è evidente che non si può né conoscere questo reticolo con gli strumenti teorici che servono per lo studio dello scorrere storico della vita nella città, né conoscere la vita storica della città con gli strumenti teorici che servono per lo studio del reticolo urbano, anche se ogni operazione reale sulla città si deve servire dei risultati dell’uno e dell’altro esame.[9]
 
VI
 
Resta da esaminare l’altro aspetto essenziale dei comportamenti urbani, quello della spontaneità. Questo aspetto viene bene in luce nell’analisi di Jane Jacobs del problema della sicurezza. Ciò che si è detto al punto quarto circa il rapporto tra le caratteristiche urbane e i comportamenti sociali dei cittadini (funzioni urbane) mostra che la sicurezza urbana — cioè la sicurezza anche nei confronti degli sconosciuti — dipende, almeno in parte, dall’esistenza di una rete di sorveglianza spontanea e, per molti aspetti, inconscia. Si tratta della rete costituita dai negozianti e dai passanti che frequentano la strada lungo tutto l’arco della giornata.
Va osservato che questa rete di sorveglianza è spontanea non solo nel senso che non è organizzata, ma anche nel senso che non comporta alcuna specializzazione. Jane Jacobs scrive: «Noi abitanti di Hudson Street, come gli abitanti del North End di Boston o di qualsiasi altro quartiere vivo e vitale delle grandi città, non siamo stati dotati da madre natura di una particolare abilità nel garantire la sicurezza delle strade; né più né meno di coloro che cercano di vivere in un ambiente urbano privo di auto-sorveglianza, fuori dalla precaria tregua del turf [per territorio recintato, come certi quartieri]. Siamo soltanto i fortunati detentori di un ordine urbano che è relativamente facile mantenere in quanto la strada è popolata di sguardi. Si tratta tuttavia di un ordine quanto mai complesso, composto da un numero enorme di fattori, la maggior parte dei quali possono ritenersi, in un modo o nell’altro, specialistici, e la cui azione si combina nel marciapiede. Quest’ultimo invece non ha in sé nulla di specialistico: e appunto in questo sta la sua forza».[10]
Va inoltre osservato che non esiste alcuna alternativa a questo tipo di sorveglianza. Basta, per rendersene conto, confrontarla con quella che potrebbe essere assicurata dalla sola polizia. Cito ancora Jane Jacobs: «La prima cosa da capire è che l’ordine pubblico nelle strade e sui marciapiedi della città non è mantenuto principalmente dalla polizia, per quanto questa possa essere necessaria: esso è mantenuto soprattutto da una complessa e quasi inconscia rete di controlli spontanei e di norme accettate e fatte osservare dagli abitanti stessi. In certe zone urbane come ad esempio in molti vecchi complessi di case popolari e in molte strade con rapido ricambio di popolazione — il mantenimento della legge e dell’ordine sui marciapiedi è affidato quasi interamente alla polizia e a guardie speciali: ebbene, queste zone sono vere giungle, perché non c’è polizia che basti a garantire la civile convivenza una volta che siano venuti meno i fattori che la garantiscono in modo normale e spontaneo».[11]
 
VII
 
E’ dunque lecito affermare che nel quadro di un assetto urbano efficace la sorveglianza urbana, cioè il controllo del comportamento della gente, si attua in gran parte (la parte per la quale la polizia non è necessaria e non sarebbe efficace) con il concorso di tutti e senza che alcunché sia prescritto ad alcuno: cioè solo in forza delle disposizioni umane nella loro espressione spontanea e occasionale.
Ed è anche lecito affermare che questa osservazione vale in genere per tutte le funzioni urbane importanti, che sono anch’esse — almeno in parte — la risultante di comportamenti e atti spontanei (nel senso che non hanno bisogno di essere programmati). E quando ciò sia chiaro, basta tener presente che tra questi comportamenti ci sono quelli relativi ai contatti umani e alla assimilazione dei ragazzi per intravedere in termini concreti il rapporto tra città e cultura. In effetti la città è una delle grandi strutture materiali della cultura proprio perché l’assetto urbano (a patto che sia fisiologico) è il mezzo indispensabile sia per stabilire il contatto tra il numero maggiore possibile di esperienze diverse, sia per perpetuare questo processo razionale nel tempo con l’assimilazione dei ragazzi, sia per garantire a questo processo la dimensione della spontaneità, e perciò della novità, senza costringere lo scambio di esperienze entro limiti precostituiti (come, ad esempio, nelle stesse istituzioni culturali).
Vale anche un altro ordine di considerazioni egualmente importante, che ci trasporta dal campo della cultura a quello della politica. Si è visto che la sicurezza come funzione urbana è una specie di controllo di tutti su tutti senza alcuna divisione tra chi controlla e chi è controllato (e senza sacrificio della privacy grazie alla separazione tra spazi pubblici e privati). Orbene, in termini politico-sociali ciò significa che il controllo del comportamento della gente nelle strade e nei marciapiedi è in gran parte esercitato da una forma limitata ma reale di democrazia diretta, di autogoverno informale. E ciò che aggiunge rilievo a questa osservazione è che anch’essa può essere generalizzata.
Come senza sorveglianza spontanea sono possibili solo forme insufficienti e distorte di sicurezza, così senza autogoverno informale, cioè spontaneo, non è possibile un buon governo formale della città. La dimostrazione è semplice. Il punto iniziale da considerare è questo: «Non esiste nessun ‘qualcuno’ onnipotente e onnisciente che possa sostituire gli interessati nell’autogoverno locale… Il fatto che spesso i capi responsabili dell’amministrazione cittadina siano male informati è inevitabile, perché le grandi città sono veramente troppo vaste e complesse per essere comprese nei loro aspetti particolari da un unico punto d’osservazione (sia pure il più elevato) o da un’unica persona; d’altra parte, gli aspetti particolari hanno un’importanza essenziale».[12]
Il problema riguarda dunque in primo luogo l’informazione e la comunicazione, e in secondo luogo il potere. Il buongoverno delle città (ivi compresi tutti gli atti di pianificazione urbana) è in effetti impossibile senza: a) un flusso di informazione spontanea che riguardi tutti, cioè che scaturisca direttamente dai contatti e dalle azioni della vita quotidiana, e b) una situazione di potere che sia tale da non escludere la possibilità di far coincidere le decisioni del governo formale con i bisogni e i problemi resi noti da questo tipo di informazione. Orbene, si constata subito che parlando di questa informazione spontanea e di questo potere diffuso si parla di qualcosa che è molto simile a ciò di cui si parla quando si usa il termine «vicinato». E questa impressione si consolida se, seguendo Jane Jacobs, ci si rende conto che è proprio con l’idea dell’autogoverno che si può precisare la natura del vicinato.
In effetti come autogoverno il vicinato presenta tre livelli: di strada (base dell’informazione), di quartiere (prima base del potere, mediazione tra i vicinati di strada e la città ecc.), di città (potere). Si constata subito, d’altra parte, che questa classificazione del vicinato non smentisce affatto la sua realtà esistenziale, che di fatto si manifesta per tutti a livello di strada, e per altri anche al livello del quartiere o a quello della città (come vita di relazione di coloro che si incontrano abitualmente a livello della città). Va invece tenuto presente che, a questo riguardo, la precisazione in termini di ordine urbano permette di stabilire che solo con l’integrazione dei tre livelli di vicinato (unità organica dell’assetto urbano) ciascuno di essi può svolgere il suo ruolo, anche attraverso i canali diretti costituiti da coloro che appartengono a un vicinato di strada per l’abitazione, ma a quello di quartiere o di città per la vita di lavoro e di relazione. Jane Jacobs aggiunge anche, a ragione, che solo se la strada non è isolata, fisicamente e psicologicamente, dal quartiere e dalla città, si forma un vero e proprio vicinato di strada, con sentimenti di identificazione.
Con questi riferimenti alla cultura e alla politica entrano nel campo visuale dei dati di fatto che meriterebbero di essere attentamente analizzati; ma ciò non è possibile nel contesto limitato di una riflessione introduttiva. Il mio scopo, d’altra parte, era solo quello di attirare l’attenzione sia sul fatto che anche l’insediamento umano sul territorio è un processo che sembra sfuggito al controllo politico, sia sul fatto che il pensiero di Jane Jacobs è, se non mi sbaglio, uno dei primi passi efficaci fatti sulla via della elaborazione dell’atteggiamento scientifico necessario per sottoporre al controllo della ragione la crisi urbana.


[1] V. Giscard D’Estaing, Démocratie française, Parigi, Fayard, 1976 (trad. it. Democrazia francese, Milano, Rizzoli, 1977, pp. 78-79 e 64).
[2] A. Mitscherlich, Il feticcio urbano, Torino, Einaudi, 1968, p. 22 (trad. it. di Die Unwirlichkeit unserer Städte, Francoforte sul Meno, 1965).
[3] E’ difficile esaminare la discussione, ampia e per alcuni aspetti «memorabile» (secondo l’editore italiano), provocata dalle idee di Jane Jacobs. Essendo tuttora incerta la sistemazione teorica dell’urbanistica, non esiste la possibilità di far ricorso a criteri chiari, efficaci (e almeno in prospettiva largamente accettabili) per giudicare. Un esempio tipico di questa difficoltà è costituito dall’atteggiamento di Mumford nei confronti di Jane Jacobs. Nonostante molti riconoscimenti proprio in questo senso, egli sembra non aver capito che Jane Jacobs si occupa sostanzialmente del tessuto urbano e della sua relazione con la vita quotidiana (si potrebbe usare il termine microurbanistica) e continua ad opporre ai criteri della Jacobs dei fatti (che essa non comprenderebbe) e dei criteri che non riguardano affatto il tessuto urbano ma, specificamente, il problema delle dimensioni attuali del processo di urbanizzazione (si potrebbe parlare, a questo proposito, di macrourbanistica). E’ vero, d’altra parte, che Jane Jacobs trascura questo problema (cfr. L. Mumford, Il futuro della città, trad. it., Milano, Il Saggiatore, 1971, in particolare per il saggio dedicato alla Jacobs dal titolo «Rimedi casalinghi per il cancro della città»).
[4] J. Jacobs, Vita e morte delle grandi città, Torino, Einaudi, 1969, pp. 11-12 (trad. it. di The Death and Life of Great American Cities, prima edizione 1961, Harmondsworth, Penguin Books, 1977). Questa opinione di Jane Jacobs non è paradossale come può sembrare a prima vista. E’ utile ricordare a questo riguardo che opinioni simili manifestano anche nel campo degli studi storici e sociologici sulla città. Ad esempio Philip Abrams, esprimendo una opinione condivisa anche da altri studiosi, considera l’urbanistica come una «teoria illusoria» (cfr. P. Abrams, «Città e sviluppo economico: teorie e problemi», in P. Abrams e E.A. Wrigley (a cura di), Città, storia, società, Bologna, Il Mulino, 1983 (trad. it. di Towns in Societies, Cambridge, Cambridge University Press, 1978).
[5] J. Jacobs, op. cit., pp. 12 e 14.
[6] «In sé stesso un marciapiede di città non significa niente, è un’astrazione: qualcosa solo in relazione agli edifici e agli altri usi esistenti lungo di esso o lungo altri marciapiedi immediatamente prossimi» (J. Jacobs, op. cit., p. 27).
[7] J. Jacobs, op. cit., pp. 32-3.
[8] J. Jacobs scrive: «Sono convinta… che la scienza urbanistica e l’architettura urbana devono diventare, nella vita reale delle città esistenti, la scienza e l’arte di catalizzare e alimentare questo fitto tessuto di relazioni attive» (op. cit., pp. 12-13).
[9] Questa interpretazione trova una conferma indiretta nel pensiero di Abrams, che può essere considerato come il tentativo più coerente di esaminare le teorie della città senza valersi della distinzione tra ciò che è urbano in senso largo e ciò che è urbano in senso stretto. Abrams va molto più in là di Jane Jacobs, nel senso: a) che non mette in questione solo l’urbanistica, ma anche il pensiero storico e sociologico, b) che a suo parere non solo non esiste alcuna teoria della città «che possa comportare una applicazione generale ai casi concreti» (Città, storia, società, cit., p. 7), ma che non può nemmeno esistere perché la città non sarebbe affatto ciò che si crede che sia — «un’entità sociale sui generis» cioè qualcosa di teorizzabile.
Alla base del pensiero di Abrams c’è la convinzione che quando si usa il termine «città» non si sa che cosa si dice. Dopo aver affermato che «una autentica sociologia della dovrebbe «espungere l’idea della città come entità sociale a sé stante», egli dice testualmente: «Questo non significa negare che siano molti coloro, oltre i sociologi e gli storici, i quali trattano le città come se fossero delle entità sociali. Si ha con costoro lo stesso atteggiamento di chi tratta la magia come se fosse qualcosa di effettivamente reale, come se fosse un interesse effettivo e concreto» (p. 37. Il corsivo è mio).
Abrams chiarisce la sua opinione al riguardo in questo modo: «La storia delle città e in maggior misura la sociologia urbana sono state assillate dalla preoccupazione di formulare proposizioni generali sui centri urbani. Ed i cultori di entrambe le discipline si sono dimostrati per lo più inclini a condividere il presupposto che, per dirla con le parole di Braudel, ‘dovunque sia, una città è una città’. La città, in forza della sua struttura materiale e soprattutto dell’aspetto con cui si presenta all’occhio umano, pare abbia indotto a compiere nei suoi riguardi un processo di reificazione: da oggetto fisico si è tramutata in un oggetto o entità sociale sulla cui natura non si hanno dubbi» (p. 15. Il corsivo è mio). Al di là di questa reificazione non ci sarebbe nulla di socialmente caratterizzato, cioè nulla salvo il fatto fisico dell’insieme di edifici e manufatti.
Il quadro nel quale Abrams crede di poter provare questa affermazione è vasto, e per alcuni aspetti pertinente. Egli parte dalla critica dell’idea della separazione di città e campagna («La economia politica di tipo classico, sia che se ne faccia rappresentante Adam Smith, sia che la si veda esemplificata in Karl Marx, suggeriva come presupposto indiscusso (il corsivo è mio) che il progressivo cammino che si era avuto nella divisione del lavoro traesse il suo avvio nella separazione della città dalla campagna») e constata che alla città si è di fatto attribuito tanto il ruolo di stimolo (Sombart, Pirenne ecc.) quanto quello di freno (per alcuni aspetti anche Max Weber) dello sviluppo del capitalismo. Egli constata inoltre che «la maggior parte degli storici inglesi più recenti [egli cita in particolare Martin Daunton che figura nel volume di saggi in questione] ha preferito soffermarsi ad illustrare come la persistenza nelle città di tipi di controllo essenzialmente feudale agisse da freno determinante all’innovazione economica, ed hanno quindi posto in risalto le origini agrarie più che urbane del capitalismo» (p. 7).
Tolta di mezzo l’idea della separazione della città dalla campagna, che da sola fa apparire qualcosa che non esisterebbe (la città come «entità sociale a sé stante» proprio in quanto diversa dalla campagna) egli cerca di dimostrare che per gli storici e i sociologi che hanno studiato la città valgono sinora solo questi due casi: a) nella misura in cui hanno cercato di inquadrare i processi presi in esame con l’idea della città (come «categoria generale della realtà sociale») sono di fatto cascati nell’idea dei tipi di città (ma classificando i tipi di città in funzione delle caratteristiche dei processi storici e non viceversa) senza riuscire né ad identificare la natura della città in quanto tale (l’insieme delle «componenti strutturali comuni a tutti i centri urbani», p. 21), né ad «indicare nessun fenomeno che possa essere assunto come tipica forma empirica di una economia duplice» (p. 10); b) nella misura in cui sono riusciti invece a ricostruire efficacemente dei fatti storico-sociali hanno però spostato, più o meno consapevolmente, l’inquadramento dei fatti dal contesto dell’idea di città a quadri di riferimento storico-sociali come «la ‘società’, la ‘cultura’, la ‘economia’ e il ‘modo di produrre’, oppure… l’‘Europa medievale’, l’‘Italia del Rinascimento’, il ‘feudalesimo’, il ‘capitalismo’, l’‘imperialismo’, l’‘Inghilterra pre-industriale’ e via dicendo» (p. 41) (questo sarebbe il caso di Max Weber, Dobb, Hoselitz, Sjoberg ecc., come dello stesso Braudel, secondo il quale, ricorda Abrams, la città — pur essendo scambiata per una entità sociale — è poi vista di fatto come quella realtà che «la società, l’economia e anche la politica le permettono di essere», p. 33).
Ciò non basta tuttavia per spiegare il carattere globale della demolizione di Abrams, che risulterebbe inspiegabile se alla prova basata sull’esame critico della letteratura sulla città — che a stretto rigore consentirebbe solo di stabilire che non è stato ancora risolto il problema di una teorizzazione adeguata della città — egli non ne aggiungesse un’altra, molto più radicale. Sarebbe la stessa evidenza empirica a mostrare che le città, come entità sociali, non esistono: «Compito di chi studia la società è tuttavia quello di illustrare come e perché tali realtà fittizie siano sul piano sociale accettate e fatte valere come vere; cosa che probabilmente non accadrebbe se fossero viste per quel che sono» (p. 37). Nello stesso senso, esaminata con puntuale e meticolosa attenzione, la città non si rivela essere una entità sociale, e «se la città viene attentamente osservata, ecco che scompare come categoria sociale generale e restano concretamente davanti agli occhi tante città particolari e un complesso di rapporti commerciali, politici e culturali osservabili nel loro dispiegamento proprio nelle città, anche se non possono affatto dirsi tipici della sola città» (p. 19. Il corsivo è mio).
A mio parere è sulla base di questa supposta evidenza empirica che Abrams ha potuto dire con chiarezza ciò che la città non sarebbe, e ciò che sarebbe. In ogni caso ricordo che, circa il primo punto, egli loda Weber perché — pur dando «l’impressione di mirare alla costruzione di una teoria sulle città» — non avrebbe mai considerato la città come una «entità empirica». («In Wirtschaft und Gesellschaft della città si parla non come di una entità empirica quale può essere il partito o la setta, ossia non come di una struttura peculiare cui va connesso un tipo a sé di azione sociale — quale potrebbe essere la tradizionale legittimazione dell’autorità o l’agire economico razionale», p. 38). Abrams dice inoltre che la città non sarebbe un «agente a sé stante» (p. 27), né un vero e proprio «fattore storico» (p. 16): sarebbe dunque «un explanandum e non un explanans» (p. 40); e anche come tale si ridurrebbe a ben poca cosa visto che Abrams contesta la possibilità di teorizzare la città come una «variabile dipendente», e perfino «occasionale» (p. 20). Circa il secondo punto, d’altra parte, (ciò che la città è) Abrams si limita a dire che le città sono «luoghi cui applicare l’analisi storica e sociologica» (p. 42. Il corsivo è mio) e che la loro realtà sarebbe solo quella di «espressioni giuridiche e istituzionali — forme esteriori delle reali e quanto mai concrete imposizioni di potere concertate da ben definiti gruppi sociali» («la città è una manifestazione istituzionale del potere», p. 34. Vedi anche p. 32 dove si parla di «Londra presentata come una sorta di teatro in cui agì un certo sistema sociale e politico»).
Tutto ciò è manifestamente assurdo. E’ vero che la città è la sede di fenomeni sociali che hanno la loro origine anche altrove, ma non è affatto vero che i comportamenti umani non acquisirebbero un carattere peculiare calandosi nel reticolo urbano (non si parla, a giusta ragione, di una fisiologia e di una patologia urbane?); e non è nemmeno vero che non ci sarebbero comportamenti umani che trovano proprio nella città la loro radice (è proprio a questo riguardo che l’analisi di Jane Jacobs è nuova e feconda). Ma, detto ciò, bisogna anche dire che la critica di Abrams — sia pure al di là delle sue intenzioni —, è valida nei confronti della pretesa di costruire una teoria della città che riunisca sia gli elementi per i quali essa dipende dai processi storici, sia quelli con i quali essa contribuisce parzialmente a crearli; e per mostrare fino a che punto questa confusione abbia reso contraddittoria la discussione teorica sulla natura della città. E’ forse questa la ragione per la quale — come ricorda Abrams — Wirth constatava nel 1938 che «nella copiosa letteratura che tratta della città cerchiamo invano una teoria che dia forma sistematica a quanto ormai sappiamo sulla città vista come entità sociale» (p. 17), e per la quale «gli studi storici di recente condotti sulle città, e in minor misura anche quelli di sociologia urbana, hanno portato al declino di ogni enunciato generale sulla città» (p. 16).
[10] J. Jacobs, op. cit., p. 50.
[11] Ibidem, p. 29.
[12] Ibidem, pp. 108 e 112.

 

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