IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XLVII, 2005, Numero 2, Pagina 104

 

 

Democrazia politica e capitalismo*
 
RONALD J. GLOSSOP
 
 
1. Come rendere umano il capitalismo.
 
Uno dei problemi più acuti della filosofia sociale contemporanea è come controllare gli effetti deleteri del capitalismo non solo all’interno dei singoli paesi ma anche nella comunità globale. Uno dei suoi effetti più disastrosi sia nell’ambito degli Stati nazionali che a livello mondiale è il crescente divario fra ricchi e poveri. La sfida consiste nell’indicare ciò che bisogna fare per tenere sotto controllo gli effetti dannosi di un capitalismo senza freni.
Per rispondere a questo interrogativo, alcuni economisti come J.W. Smith propongono l’instaurazione di una «democrazia economica». Smith ritiene che una forma di «capitalismo cooperativo» caratterizzato da scambi equi contribuisca all’avanzamento dello Stato sociale molto più del capitalismo nascostamente monopolistico costruito sull’idea del libero commercio.[1] Ma che cosa si intende per «democrazia economica»? La democrazia non è un sistema politico? E che cos’è il «capitalismo cooperativo»? Il capitalismo non è, in realtà, un sistema economico che mette in primo piano la concorrenza? Dobbiamo inoltre considerare come questi concetti si relazionano con le istituzioni nazionali e con quelle globali.
 
2. Comprendere la destra e la sinistra.
 
Per discutere il significato di concetti quali «capitalismo» e «democrazia», dobbiamo avere ben chiare in mente alcune distinzioni fondamentali nel campo della filosofia sociale. La prima e più importante distinzione è quella fra la visione di sinistra o egualitaria, e la visione di destra o gerarchica, circa il modo con il quale una comunità deve essere organizzata. La seconda distinzione da tener presente riguarda l’ideologia economica e l’ideologia politica. Dopo aver messo a fuoco queste distinzioni, saremo in grado di capire come interagiscono il sistema economico e il sistema politico. Iniziamo dalla distinzione fra la visione di sinistra e quella di destra.[2] Che cosa rende una società giusta o equa? Gli appartenenti alla sinistra attribuiscono il massimo rilievo al principio di eguaglianza. Essi ritengono che la giustizia implichi il possesso di un ammontare più o meno analogo di beni da parte di tutti i membri della società. Gli appartenenti alla destra enfatizzano invece il principio del merito. Essi ritengono che la giustizia si realizzi attribuendo una maggior quantità di risorse ai più meritevoli che hanno il diritto di conservarsele anche in futuro. La maggior parte della gente è convinta che entrambi i principi contengano un grano di verità e che debbano in qualche modo essere bilanciati. Tuttavia alcuni continuano a porre l’accento sull’eguaglianza ed altri sul merito. Ci sono alcuni valori che derivano implicitamente da questi due punti di vista. I simpatizzanti della sinistra, con la loro aspirazione all’eguaglianza, enfatizzano la cooperazione e la condivisione delle risorse fra tutti i membri della società per aumentare il benessere collettivo. Coloro che hanno di più (sia in termini di capacità o di conoscenza, di salute o di beni fisici) devono spartirlo generosamente con coloro che hanno di meno. D’altro canto, i simpatizzanti della destra, con la loro attenzione concentrata sul merito, mettono in primo piano la competizione e sono attenti al buon uso di quel che un individuo possiede per migliorare la propria condizione. Lo scopo è il benessere individuale piuttosto che quello della comunità (anche se nel lungo periodo il sistema «individualistico» può essere in effetti vantaggioso per l’intera società). Gli aderenti alla visione di sinistra, con la loro enfasi sull’eguaglianza, hanno due problemi. Il primo è di natura etica: se qualcuno dispone di risorse superiori alla media, è obbligato a dividerne una parte con chi ha meno, e in questo caso quanto deve dare, a chi e sotto quale forma? Il secondo è un problema politico: le persone che hanno di più devono essere costrette dalla società a cedere qualcosa e, in questo caso, quanto? Per aiutare i miei studenti a comprendere le conseguenze derivanti dall’abbracciare l’uno o l’altro punto di vista — quello di destra o quello di sinistra — li invito a riflettere sull’attribuzione dei voti. Il sistema che privilegia l’eguaglianza e il bene comune, sfocerebbe nell’alternativa promosso/bocciato per ciascun candidato attribuendo una sorta di voto collettivo al gruppo nel suo insieme. Per superare l’esame ogni candidato dovrebbe raggiungere una soglia minima di preparazione, ma il requisito principale dovrebbe essere la preparazione raggiunta dal gruppo.
Quale sarebbe il probabile risultato di questo sistema? Ci sarebbero senza dubbio molti studenti, forse la maggior parte, che farebbero il minimo necessario per superare l’esame. Perché applicarsi molto se il voto sarà lo stesso? Durante le ore di lezione questi studenti potrebbero addirittura giocare o ascoltare la musica. Nello stesso tempo ci sarebbero probabilmente studenti coscienziosi che cercherebbero di realizzare progetti per l’intera classe e di indurre i compagni a condividerli. Gli studenti direttamente implicati nell’iniziativa farebbero del loro meglio per migliorare il progetto e a poco a poco si creerebbe uno spirito di corpo che spingerebbe il gruppo a lavorare per il «nostro» progetto. Coloro che all’inizio erano disinteressati potrebbero essere coinvolti nello sforzo comune, ma altri rimarrebbero indifferenti. Potrebbe così svilupparsi un risentimento da parte di coloro che fanno la maggior parte del lavoro, lamentandosi del fatto che non è giusto che coloro i quali non fanno nulla ottengano alla fine lo stesso risultato.
Consideriamo ora un sistema classificatorio opposto, di «estrema destra», che premia i risultati individuali in un contesto molto competitivo. Invece dei voti A, B, C, D, E, tanto familiari agli studenti americani, essi vengono giudicati non quando ottengono il diploma finale ma in ogni prova durante i corsi. Inoltre, per rendere più serrata la competizione, i voti vengono esposti in ogni classe in modo che tutti possano vederli.
Quale sarà il probabile risultato di questo sistema? Quasi sicuramente si svilupperà un’accesa competizione fra i migliori studenti della classe. Chi avrà raggiunto la vetta della classifica studierà duramente per conservare la sua posizione; coloro che si trovano in seconda o in terza posizione studieranno a loro volta più intensamente per superare chi sta davanti. Coloro che non riescono in questa sfida si ritireranno dalla scuola o, se ciò non è possibile, cesseranno di studiare duramente. Alcuni diranno che il sistema non è dei migliori, che essi studiano altrettanto se non più duramente di coloro che ottengono migliori risultati, ma non possiedono la capacità o l’esperienza dei primi della classe. E’ probabile che come conseguenza dell’accanita competizione nascano animosità personali. Alcuni — anche fra coloro che sono vicini ai massimi livelli — saranno tentati di ricorrere all’inganno perché l’insuccesso è considerato una disgrazia e l’unica cosa che conta è il risultato finale.
Vale la pena di sottolineare come questi due sistemi di classificazione ricorrono agli stessi argomenti utilizzati pro o contro i sistemi di destra e di sinistra, incluse le recriminazioni relative alla loro iniquità. Nel sistema di sinistra saranno probabilmente i più dotati a lamentarsi dell’iniquità del sistema che premia anche chi non lavora e chi è privo di talenti. Nel sistema di destra sono i meno dotati e i più svantaggiati a lamentarsi di un sistema ingiusto che non tiene conto della condizioni di partenza e considera esclusivamente il risultato finale.
Si noti che il modo in cui è posta l’enfasi sulla competizione e sul merito da parte della destra è simile alla «lotta per la sopravvivenza» nella natura. Alcuni individui sono fortunati riguardo alla loro eredità e all’ambiente in cui vivono. Essi sopravviveranno e avranno dei successori mentre i meno fortunati si estingueranno. La «sopravvivenza dei più adatti» è il modo di operare della natura. Nel lungo periodo resisteranno solo coloro che posseggono le doti necessarie al successo mentre gli altri scompariranno. I sostenitori di questa visione dicono: «Lasciamo che la società segua le leggi della natura». Questa politica fondata su una severa competizione che elimina i meno dotati può sembrare inumana nel breve periodo ma produce i migliori risultati per tutti nel lungo periodo.
D’altro canto, la valorizzazione dell’eguaglianza e della cooperazione da parte della sinistra è umanistica o moralistica. Gli uomini dovrebbero essere compassionevoli e aiutare i meno fortunati. Il punto cruciale è che gli uomini non scelgono le proprie doti, il proprio gruppo etnico, il proprio sesso; non decidono se avere particolari talenti e disabilità; non scelgono dove e quando nascere, né i problemi che dovranno affrontare specialmente quando sono giovani. Tutte queste cose ci cadono addosso senza che lo vogliamo. Una volta riconosciuto che esse sono fuori dal nostro controllo, è difficile sostenere che i più fortunati possono ignorare la sorte dei meno dotati.
Bisogna tener presente che questi punti di vista possono dar luogo ad un’ampia gradazione.[3] In entrambi i casi ci sono estremisti e moderati. Gli estremisti, sia di destra che di sinistra, sono certi della correttezza dei loro punti di vista. Il loro dogmatismo li spinge ad essere intolleranti nei confronti di chi ha una visione opposta. Dal canto loro i moderati sono aperti alla considerazione di altre prospettive. Essi sono i sostenitori delle democrazie parlamentari aperte nelle quali le scelte vengono compiute dopo aver ascoltato tutti i punti di vista. Gli estremisti di sinistra sono abitualmente chiamati radicali mentre gli estremisti di destra vengono definiti reazionari. Ai moderati di sinistra viene spesso attribuita l’etichetta di «liberal», ma io preferisco il termine progressisti, perché la parola «liberal» ha altri significati. I moderati di destra vengono chiamati conservatori. Gli uomini che hanno successo ritengono che le politiche e le regole in vigore non debbano essere cambiate. Perché cambiare ciò che per essi funziona tanto bene?
 
3. Ideologie economiche e ideologie politiche.
 
Concentriamoci ora su un’altra distinzione che ritengo particolarmente importante: come porci di fronte agli effetti distorsivi di un capitalismo senza regole? Si tratta della distinzione fra ideologie economiche e ideologie politiche, e del modo in cui le visioni di destra e di sinistra si rapportano ad esse. Un’ideologia economica orienta il modo in cui i beni (o gli oneri, ad esempio le tasse) devono essere distribuiti nella società, mentre un’ideologia politica orienta il modo in cui deve essere ripartito il potere di decidere. L’ideologia economica dell’estrema sinistra è il comunismo marxista («Da ciascuno secondo i propri mezzi; a ciascuno secondo i proprio bisogni»), mentre quella dell’estrema destra è il monopolio (consentiamo alla ricchezza della comunità di affluire nelle mani di una o di poche persone). La visione della sinistra moderata coincide con il socialismo (la ricchezza dovrebbe derivare solo dal lavoro; coloro che lavorano di più dovrebbero avere di più), mentre la visione della destra moderata è rappresentata dal capitalismo (la ricchezza deve appartenere a coloro che sanno investirla saggiamente, che inventano cose nuove e utili e che esercitano un lavoro altamente qualificato).
Considerando l’ideologia politica, l’estrema sinistra sostiene la democrazia pura o diretta (a ciascun individuo è attribuito un voto per determinare le politiche che dovrebbero essere adottate), mentre l’estrema destra guarda con favore alla monarchia assoluta o alla dittatura (una sola persona decide la politica per l’intera società). La visione della sinistra moderata è la democrazia rappresentativa (i rappresentanti del popolo eletti periodicamente stabiliscono le politiche valide per tutti), mentre la destra moderata è favorevole al fatto che una piccola élite (come l’aristocrazia o i membri di uno speciale partito) faccia le leggi per tutti.
 
4. Il capitalismo democratico nello Stato nazionale.
 
Uno dei modi per avere una società equilibrata fra destra e sinistra è quello di bilanciare l’ideologia economica della destra e l’ideologia politica della sinistra. E’ la combinazione che esiste negli Stati Uniti d’America, uno dei paesi che ha avuto maggior successo. Gli Stati Uniti hanno tratto indiscutibilmente beneficio da alcune circostanze fortunate come quella di essere separati dalle altre grandi potenze da due oceani e di disporre sul proprio suolo di abbondanti risorse naturali. Ma la fonte più importante del successo è stata la combinazione fra un sistema capitalistico di destra che ha incoraggiato l’innovazione, l’imprenditorialità e lo sviluppo economico con un sistema politico di sinistra fondato sulla democrazia rappresentativa che ha esercitato qualche forma di controllo sul potere dei più dotati in parte estendendo il diritto di voto ai meno fortunati.
C’è stato un moto alterno che ha influenzato le due parti del sistema. Qualche volta è sembrato che i ricchi avessero il controllo su tutto e potessero ottenere ciò che volevano, ma le successive elezioni provvedevano a limitare il loro potere grazie al voto dei poveri.[4] Un bell’esempio è rappresentato dall’elezione di Franklin Delano Roosevelt alla presidenza degli Stati Uniti nel 1932, dopo che la politica dei ricchi aveva provocato la Grande Depressione. Oggi il sistema politico di sinistra è stato sostituito da un sistema economico di destra. Nel sistema politico statunitense il potere del denaro ha minato la sua capacità di porre un freno all’economia. Questa combinazione del sistema economico capitalistico controbilanciato dal sistema politico democratico è stato un successo non solo negli Stati Uniti ma anche nella maggior parte dei paesi sviluppati.
 
5. Un capitalismo democratico a livello globale?
 
Quando consideriamo il quadro mondiale la situazione è molto diversa. A livello internazionale esiste un sistema economico capitalistico di destra (anche se al loro interno non tutti i paesi sono capitalisti), ma non esiste un sistema democratico mondiale di sinistra per porre dei freni a quello economico. Tutte le forze economiche di un sistema capitalistico senza regole creano una crescente disparità fra paesi ricchi e poveri, ma non esiste un’istituzione democratica mondiale in grado di emanare delle leggi per correggere la situazione. Abbiamo bisogno di un governo democratico mondiale che possa impiegare mezzi politici — cioè leggi vincolanti nei confronti dei singoli individui — per contrastare le disastrose conseguenze dell’economia globale. Le numerose proposte su ciò che si dovrebbe fare a livello mondiale non avranno conseguenze pratiche finché non ci sarà un parlamento democratico mondiale dove esse possano essere discusse e tradotte in leggi.
Alcuni marxisti potrebbero sostenere che queste proposte ignorano la dura lezione dei fatti, e cioè che i sistemi politici sono sempre la conseguenza necessaria della realtà economica. Un principio fondamentale del materialismo dialettico è che i gruppi che controllano le strutture produttive controllano anche le istituzioni politiche della società. Ma è interessante osservare che quando Marx affronta la questione pratica di come innescare la rivoluzione per sostituire i capitalisti con il proletariato, dimentica questo principio. Se il potere politico è sempre basato sul potere economico, ciò che è necessario per la vittoria del proletariato è aumentare la quantità di denaro in mano ai lavoratori. Marx, però, ignora il determinismo economico e sollecita gli operai di tutti il mondo ad unirsi per prendere il potere politico con le armi. Solo quando l’avranno conquistato saranno in grado di controllare il sistema economico attraverso il potere politico.
La mia domanda è: se il sistema politico può controllare il sistema economico in un determinata situazione, perché non potrebbe farlo anche in un’altra? Ciò che è necessario è un sistema politico democratico nel quale il potere economico non può essere convertito in voti. Ci deve essere un limite all’ammontare delle somme che possono essere devolute alle campagne elettorali. Ci dovrebbe essere qualche forma di finanziamento pubblico per i candidati a posti di governo. Ci vogliono pubblici dibattiti e forum nei quali tutti i candidati possano esprimersi. Si devono ancora precisare dettagli importanti quali, ad esempio, l’entità del finanziamento che deve garantire il governo e quali candidati ne abbiano diritto. Ma si tratta di problemi facilmente risolvibili.
Perché un sistema democratico possa funzionare occorre anche educare i cittadini riguardo alla filosofia sociale, alla storia e alle istituzioni politiche, argomenti che sono gravemente carenti nei nostri sistemi educativi. I votanti non devono soltanto poter ascoltare i candidati ma anche possedere la formazione necessaria per giudicare quel che dicono. Ritengo che la mancanza di un’educazione adeguata su questi temi rappresenti una notevole debolezza non solo in questo paese ma anche in molte democrazie.
Quando consideriamo l’instaurazione di una democrazia rappresentativa a livello globale, si pone il difficile problema della scelta del sistema elettorale. Gli eletti devono rappresentare i paesi, i continenti o le aree metropolitane e geografiche aventi grosso modo la stessa popolazione? Se il voto viene espresso su base nazionale, non sarebbe necessario ponderare i voti per tener conto del numero di abitanti, del potere economico, della superficie, del rispetto dei diritti umani e così via? Se ai paesi più grandi non venisse riconosciuto (almeno all’inizio) un maggior numero di voti per tener conto del loro potere, perché dovrebbero accettare la subordinazione ad un potere globale? In effetti se agli Stati Uniti o ad altri grandi paesi come la Cina o l’Europa unificata non fosse riconosciuto il diritto di veto o qualcosa di analogo, perché mai dovrebbero accettare la creazione di una Federazione mondiale?
 
6. Il socialismo è una soluzione?
 
Può darsi che io esprima un punto di vista minoritario a questo riguardo, ma voglio nondimeno sottolineare che per quanto concerne l’economia il socialismo non funziona molto bene. Essendo un sistema di sinistra, ci si dovrebbe aspettare che il socialismo sia in grado di distribuire le risorse della società più equamente del capitalismo. Cuba ne è un buon esempio. Ma lo scoglio contro il quale urta il socialismo è la tendenza alla stagnazione e l’assenza di qualsiasi progresso dovuto all’innovazione. In genere gli uomini non amano il cambiamento, e se si vuole innovare deve perciò esserci qualche incentivo. La stagnazione è il risultato più probabile in mancanza di un sistema capitalistico che stimoli il progresso.
In un sistema socialista la tendenza verso la stagnazione ha molte cause. Una è costituita dal fatto che i lavoratori vengono retribuiti in base al tempo che passano sul posto di lavoro ma non fa molto per premiare gli innovatori o coloro che introducono metodi produttivi che fanno risparmiare tempo e denaro. Consideriamo due casi analoghi, il primo in un sistema socialista, il secondo in un sistema capitalistico. Supponiamo che un lavoratore si accorga che una fase produttiva può essere portata a termine in modo più efficiente, con quattro operai al posto di sei. Egli informa il suo superiore di questa possibilità. In un sistema socialista il superiore non sarà molto interessato alla scoperta e probabilmente risponderà: «Anche se il nuovo metodo funziona meglio, che cosa farò dei due lavoratori in eccesso? Non voglio licenziarli perché non servono più in questa linea di produzione, ma d’altro canto non ho nient’altro a cui destinarli. Penso che sia meglio continuare come abbiamo sempre fatto». Che cosa accade invece in un sistema capitalistico? Probabilmente il superiore dirà: «La tua proposta di compiere il lavoro con quattro operai invece di sei è meravigliosa. Meriti un premio sia perché ci consenti di risparmiare dei soldi, sia per incoraggiare altri lavoratori a permetterci simili risparmi in futuro». Che cosa accadrà ai due operai che hanno perso il posto di lavoro? Nel sistema capitalistico è un problema dei disoccupati non dell’imprenditore.
E’ probabile che questi fatti accadano spesso nei due sistemi. Il risultato sarebbe però una virtuale stagnazione nel sistema socialista, e per converso una maggiore efficienza in quello capitalistico. Non c’è dubbio che il sistema socialista sia più umano, specialmente nel breve termine, mentre il sistema capitalistico rimane indifferente alla sorte degli individui. Ma il rimedio a questa situazione non è l’abbandono del capitalismo a favore del socialismo. E’ piuttosto l’esistenza di un sistema politico democratico che produce una legislazione in grado di assistere le persone che hanno perso il loro lavoro a causa del progresso tecnico. Sono necessari sussidi di disoccupazione e programmi di riqualificazione, nonché interventi pubblici per garantire a tutti le prestazioni sanitarie, la scuola ecc. Le attività più remunerative dovrebbero destinare una parte dei loro profitti a finanziare questi programmi. Ma non è mai una buona idea eliminare gli incentivi al progresso. Non dimentichiamo che al di fuori del settore militare l’Unione Sovietica non ha fatto quasi nulla per sviluppare i computer.
Un altro problema dei sistemi socialisti è che la politica tende a concentrarsi sul breve periodo ignorando l’evoluzione a lungo termine. Consideriamo questo problema in relazione alle medicine per curare l’Aids o altre malattie. L’approccio umanitario insiste per fornire ai poveri le medicine esistenti al prezzo più basso possibile. Le industrie farmaceutiche, al contrario, insistono sul fatto che devono guadagnare per investire in nuove ricerche. Si può discutere a lungo su ciò che dovrebbero fare le industrie, ma non c’è dubbio che in un sistema socialista il massimo sforzo sarebbe concentrato sull’uso delle medicine esistenti piuttosto che sullo sviluppo di nuove medicine in un’ottica di lungo periodo.
Non dobbiamo trascurare gli effetti positivi del sistema capitalistico solo perché derivanti dal desiderio di ricavare maggiori profitti dai propri investimenti. La società ha bisogno di questa continua spinta verso una sempre maggiore efficienza per incoraggiare nuove invenzioni e per utilizzarle rapidamente. Un altro vantaggio del capitalismo è quello di produrre i beni richiesti dai consumatori producendo beni di buona qualità che si rivolgono ad un ampio ventaglio di acquirenti.
 
7. La necessità di regole democratiche.
 
Abbiamo bisogno di un sistema politico democratico per fronteggiare le difficoltà del sistema capitalistico senza regole. Il governo deve controllare l’azione dei capitalisti volta a «esternalizzare» i loro costi, vale a dire a far ricadere sulla collettività oneri quali il controllo delle aree in cui si trovano le materie prime (in particolare le risorse energetiche) o i rimedi ai danni causati all’ambiente. Il sistema capitalistico dipende dalla concorrenza ma in un mercato senza regole coloro che hanno più denaro ricavano maggiori vantaggi di quelli che ne hanno meno. Le regole sono necessarie per mantenere gli affari entro i giusti limiti. Nelle trattative con i lavoratori i capitalisti si trovano in una posizione finanziaria più favorevole rispetto agli operai in cerca di lavoro perché non hanno la necessità di incassare subito i profitti mentre gli operai hanno bisogno dei soldi per sopravvivere. Perciò occorrono delle regole per proteggere i lavoratori. In assenza di una regolamentazione, inoltre, prevale la naturale tendenza dei più ricchi ad accaparrarsi gli affari migliori lasciando gli altri ai concorrenti meno forti. Il risultato è che senza regole si svilupperanno dei monopoli soffocando la concorrenza che è una caratteristica essenziale del sistema capitalistico. Un altro problema, che può rivelarsi molto grave in assenza di regole, è la produzione di beni rischiosi o dannosi come le sigarette.
Tuttavia, da un punto di vista morale, il maggior problema creato da un capitalismo anarchico è costituito dal crescente divario fra ricchi e poveri. Ciò accade in parte perché i ricchi tendono ad assumere il controllo del sistema politico e a far approvare leggi che accrescono il loro vantaggio. Come abbiamo già osservato la risposta più efficace è costituita da un sistema politico democratico nel quale il potere economico non possa essere convertito in potere politico. Ma bisogna anche riconoscere che è una caratteristica propria del sistema capitalistico che i ricchi sono destinati a diventare ancora più ricchi. E’ proprio per questa ragione che un capitalismo senza regole è intrinsecamente immorale. Essere ricco significa potersi permettere una buona educazione invece di dover lavorare per far fronte ai bisogni quotidiani; significa avere a disposizione del denaro che frutterà altro denaro, avere il tempo per riflettere su nuove idee, influenzare con i propri consumi la produzione ecc.
Un altro modo di considerare la tendenza all’arricchimento cumulativo all’interno del sistema capitalistico, è quello di osservare chi viene discriminato.[5] Alcuni avversari del capitalismo sostengono che è razzista e imperialista. Può darsi che qualche capitalista abbia sentimenti razzisti, ma non si tratta di una caratteristica insita nel capitalismo. In realtà il razzismo gli è totalmente estraneo in quanto le sole cose che contano in un sistema capitalistico sono le competenze professionali degli operai, dei manager o degli inventori oltre alla disponibilità di denaro per acquistare i beni prodotti e per investire. La razza, la religione, il sesso e l’età non contano nulla. Può anche darsi che qualche capitalista sia stato animato da sentimenti imperialisti, ma l’imperialismo nazionalistico è l’esatto contrario rispetto alle basi teoriche del capitalismo. I capitalisti vogliono realizzare il maggior profitto possibile indipendentemente da ogni altra considerazione. Come ha cercato di dimostrare Adam Smith, i capitalisti dovrebbero favorire il libero commercio su scala mondiale piuttosto che un sistema mercantilistico imbrigliato da dazi e regolamenti nazionali. Per i capitalisti i confini nazionali costituiscono un ostacolo.
Ma c’è un tipo di discriminazione che costituisce parte integrante del sistema capitalistico, ed è la discriminazione contro i poveri. Essi sono discriminati perché non hanno denaro a sufficienza per essere dei potenziali acquirenti o investitori. Il capitalismo funziona sulla base della domanda e dell’offerta, ma la domanda non è sinonimo di bisogno. La domanda è il desiderio di qualcosa accompagnato dal denaro necessario per acquistarla. I poveri possono avere dei bisogni ma questi non si traducono in domanda perché non hanno soldi. L’altro aspetto di questa situazione (che a poco a poco sta catturando una crescente attenzione sia a livello interno che internazionale) è che il capitalismo non funziona bene se la ricchezza è concentrata nelle mani di poche persone perché, in questo caso, non c’è domanda sufficiente per assorbire la produzione.
Qual è il rimedio appropriato alla sistematica discriminazione contro i poveri? Una prima risposta è l’instaurazione di un regime democratico che provveda a definire un sistema di tassazione e redistribuzione della ricchezza che ne trasferisca regolarmente una parte dai ricchi ai poveri (come accade con le Grameen Banks).
 
8. Il piano Yunker per promuovere l’eguaglianza economica a livello mondiale.
 
A livello internazionale un piano sistematico per trasferire la ricchezza dai paesi ricchi ai paesi poveri è stato proposto da James A. Yunker che lo ha esposto nel libro World Union on the Horizon: The Case for Supernational Federation, pubblicato nel 1993.[6] Il suo «World Economic Equalization Program» (WEEP) presuppone cospicui risparmi nella spesa pubblica derivanti dal taglio delle spese militari reso possibile dalla creazione di un governo mondiale, ed implica la volontà di destinare questo risparmio a colmare il divario fra ricchi e poveri, problema che, se non viene risolto, può minare il governo mondiale. Il piano richiede che ogni anno i paesi ricchi versino del denaro in un fondo di trasferimento (transfer fund) dal quale i paesi poveri possano attingere risorse destinate alla produzione di beni d’investimento o a programmi educativi, ma non alla produzione di beni di consumo.[7] I versamenti al fondo da parte dei paesi ricchi e i prelievi da parte dei paesi poveri devono essere regolati da norme precise descritte in modo dettagliato da Yunker. Egli ammette che «le regole su cui si basa il suo modello per determinare i contributi versati dai paesi ricchi e le quote accordate ai paesi poveri sono molto particolari».[8] Tuttavia, aggiunge, sono «regole di senso comune». Yunker utilizza un modello elaborato grazie ai computer per mostrare come i trasferimenti annuali di fondi dai paesi ricchi a quelli poveri dovrebbero creare una situazione grazie alla quale «nell’arco di 35 anni… i consumi nelle regioni più povere della Terra sarebbero pari al 90% di quelli delle regioni più ricche».[9] Senza i trasferimenti previsti dal WEEP sarebbero pari al 10%.[10]
Non voglio difendere pregiudizialmente il piano Yunker, né posso analizzarlo in tutti i suoi dettagli. Voglio soltanto sottolineare che mostra come decisioni politiche a livello globale, indipendenti dall’assetto del potere economico, possono attenuare il divario fra il tenore di vita dei ricchi e quello dei poveri. Non è necessario eliminare il capitalismo o instaurare il socialismo. E’ necessario dar vita ad un sistema politico democratico che non venga condizionato dal potere economico.[11] E ciò è vero sia a livello globale sia a livello nazionale.


* Nella rubrica “Interventi” vengono ospitati articoli che la redazione ritiene interessanti per il lettore, ma che non necessariamente riflettono l’orientamento della rivista.
[1] J.W. Smith, Economic Democracy: The Political Struggle of the Twenty-First Century, The Institute of Economic Democracy, III ed., ampliata, 2003, p. 14.
[2] Una discussione analoga su questo punto si trova in Ronald J. Glossop, Confronting War: An Examination of Humanity’s Most Pressing Problem, Jefferson NC, McFarland, IV ed., 2001, pp. 106-12.
[3] Un prospetto che elenca i termini usati per descrivere i punti di vista di destra e di sinistra, nonché le diverse ideologie politiche ed economiche discusse più avanti si trova in Ronald J. Glossop, Confronting War, cit., p. 111.
[4] Un articolo che descrive sinteticamente la lotta tra il potere delle imprese e il governo americano nei suoi tentativi di controllarle, è quello di Laurent Belsie, «Rise of the Corporate Nation-State», in The Christian Science Monitor, 10 aprile 2000, pp. 1,4-5. Ho risposto a questo articolo con una lettera nella quale sostenevo che un governo democratico a livello globale è necessario per controllare le imprese globali. Essa è stata pubblicata con il titolo «Global Companies Need Global Regulation» in The Christian Science Monitor del 18 aprile 2000, p. 8.
[5] Questo paragrafo e il successivo sono tratti da Ronald J. Glossop, Confronting War, cit., pp. 114-5.
[6] Lanham MD, University Press of America. In un libro successivo (Common Progress: The Case for a World Economie Equalization Program, Westport CT and London, Praeger 2000) Yunker è giunto alle stesse conclusioni simulando l’applicazione sul computer del suo modello a 140 paesi per dimostrare come le sue proposte avrebbero prodotto una maggiore eguaglianza senza danneggiare nessun paese.
[7] James A. Yunker, World Union on the Horizon, cit., pp. 182 e 193.
[8] Ibidem, p. 198.
[9] Ibidem, p. 183.
[10] Ibidem, p. 186.
[11] Per una opinione in tal senso che considera le conseguenze dell’accentramento e del decentramento nell’economia globale si veda David Ray Griffin, «Global Govemment: Objections Considered», in Errol E. Harris e James A. Yunker (a cura di), Toward Genuine Global Governance: Critical Reactions to «Our Global Neighborhood» , pp. 59-60.

 

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