IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XLV, 2003, Numero 3, Pagina 180

 

 

L’ISLAM E L’IDEA DI NAZIONE
 
 
L’Islam, sin dal suo apparire nel corso del VII secolo, ha sempre rappresentato per il mondo occidentale una realtà difficile da comprendere. La rapidità con cui esso si diffuse in un vastissimo territorio, suscitò in Europa una immediata contrapposizione armata di cui le crociate rappresentano solo un aspetto marginale, specie dal punto di vista musulmano che riconduce a semplici scontri i tentativi dei cristiani di riconquistare la Terra Santa. Questo periodo di forte espansione territoriale e di grande proselitismo religioso è comunemente chiamato Età dell’Oro dagli storici musulmani ed è il periodo cui si richiamano gli integralisti islamici per cercare di riaffermare la superiorità dell’Islam sul mondo degli infedeli.
La forza espansionistica dell’Islam verso l’Europa si placò solo nel XVI secolo e da quel momento iniziò un lento declino militare e culturale. Le scoperte di nuove rotte mercantili e di nuove terre, il forte impulso all’arte della guerra e alla scienza favorirono l’Europa ed emarginarono il mondo musulmano. E’ inoltre importante sottolineare il fatto che la Riforma protestante e la successiva Controriforma contribuirono in Europa ad un forte slancio ideale, culturale ed artistico che avviò il continente ad un laicismo radicatosi definitivamente nel corso dei secoli, rompendo l’antico vincolo potere temporale-potere secolare che invece, nel mondo islamico, ancora oggi è fonte di molti problemi.
Ma questa lunga fase di decadenza lasciò comunque sussistere una grande realtà religiosa, che va dal Bangladesh, dall’Indocina e da una parte delle Filippine da un lato al Marocco dall’altro, destinata a costituire la base di eventi cruciali — che in parte sono già accaduti e in parte accadranno — di natura politica. E’ importante distinguere a questo proposito la più grande comunità islamica (la umma) che comprende tutti i popoli che appartengono alla stessa religione, da quella araba, che all’unità di religione aggiunge quella di lingua e di cultura, anche se articolata in una molteplicità di dialetti e di stili di vita diversi.
 
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L’Islam è stato fino a tempi relativamente recenti una realtà prevalentemente religiosa e culturale, senza una diretta rilevanza politica. Quando Maometto iniziò la sua opera di proselitismo, egli utilizzò la fede quale strumento di unificazione delle realtà tribali che caratterizzavano il mondo arabo. La fede giustificava le guerre di espansione: non si doveva affermare il principio della difesa di un territorio, bensì la superiorità di una comunità che condivideva l’unica e vera fede su qualunque altra. In questo contesto la politica passava in secondo piano rispetto alla religione. La comunità islamica ha visto il succedersi e la compresenza di diversi califfati dagli incerti confini, che si occupavano dell’amministrazione degli aspetti laici della convivenza, ma, oltre alla umma, il principale legame che univa i musulmani, e in particolare gli arabi, era la realtà prepolitica della tribù, che continua a vivere ai nostri giorni. Bisogna sottolineare che non esistono in lingua araba vocaboli che corrispondano al senso e alla definizione che in Europa si danno ai termini Stato e nazione.[1]
Profondi cambiamenti furono introdotti nel mondo arabo, e più in generale musulmano, dal colonialismo europeo e dal processo di decolonizzazione. Il colonialismo russo in Crimea nel ‘700 e successivamente quello francese, inglese e olandese in Asia e nella regione del Mediterraneo meridionale e orientale misero il mondo islamico dinanzi alla propria incapacità di reagire alle sfide del mondo moderno, ponendo anche il problema di una convivenza, sino a quel momento inconcepibile, tra musulmani e infedeli che imponevano le proprie leggi (civili e penali) e i propri modelli istituzionali.[2] In questo modo è stata introdotta in vaste regioni del mondo la realtà dello Stato, con confini definiti, una amministrazione e un esercito. Rimane il fatto che il processo coloniale e la sua fine divisero il mondo arabo (e musulmano) con frontiere artificiali, incomprensibili per chi sentiva il senso di appartenenza solo rispetto alla propria tribù, da una parte, e, dall’altra, alla comunità islamica che non conosce confini o barriere e per la quale l’unico confine è là dove non vi sono più fedeli.[3] Non a caso i governi dei primi Stati nazionali che sorsero con l’imprimatur europeo erano controllati direttamente o indirettamente da caste militari addestrate in Europa, che tentavano di reggersi su di un nazionalismo privo di qualsiasi fondamento nella storia di queste nuove entità. In alcuni casi si tentò di coniugare il socialismo con l’Islam.
Ma la realtà dello Stato era nata, con i suoi problemi, i suoi conflitti e le sue rivalità. Peraltro la umma ha continuato ad influenzare profondamente questa realtà. Senza l’Islam è praticamente impossibile governare uno Stato arabo, o più in generale musulmano, per la cui legittimazione esso è indispensabile. La religione è quindi essenziale come instrumentum regni, ma insieme essa rende difficile la nascita di un vero e proprio nazionalismo. Esiste nel mondo arabo (e più in generale musulmano) un lealismo nazionale, in realtà molto fragile, e uno sovranazionale, che hanno rispettivamente come punti di riferimento lo Stato e la umma, e quest’ultima è venuta acquistando in questo modo rilievo politico.
Nel corso degli ultimi cinquant’anni, un ulteriore elemento ha caratterizzato il mondo arabo: le enormi ricchezze che derivano dai giacimenti petroliferi sono in realtà concentrate nelle mani di ristrette élite in genere provenienti dalla tribù o dalla etnia dominante. Nei paesi arabi, con le eccezioni della Turchia e dell’Egitto, non si è mai avviato un sistema fiscale moderno, perché comunque le casse dello Stato sono rifornite dalle entrate derivanti dai petrodollari.[4] Si tratta di un ulteriore elemento che indica il distacco tra lo Stato e il cittadino, e che è il segnale di una concezione della statualità, delle sue funzioni e prerogative, profondamente diversa rispetto all’idea europea dello Stato.
 
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Queste brevi constatazioni ci aiutano a comprendere le resistenze al cambiamento che sono presenti in questa vasta area del mondo e le tensioni che la pervadono. La guerra in Iraq e i continui insuccessi a cui sono andati incontro i tentativi di creare un quadro di stabilità per la convivenza tra israeliani e palestinesi sono indicatori di una situazione in perenne fermento: la questione è come riuscire a far evolvere questa situazione verso la pace e lo sviluppo sottraendola al caos e al disordine attuali. Nelle pagine di questa rivista più volte si è ribadita l’importanza che potrebbe avere una Europa unita quale esempio di pacificazione e stabilizzazione politica, sociale ed economica.[5] Vi sono indubbie responsabilità da parte dell’Europa sia per quello che è accaduto in epoca coloniale, sia per l’eredità che essa ha lasciato con la decolonizzazione, sia per la sua attuale impotenza nello scenario della politica internazionale.
Ma ci sono responsabilità anche da parte dei paesi musulmani, in particolare dell’area araba. E’ essenziale che la struttura statale, ancora imperfetta, che essi hanno ereditato dall’Occidente venga completata attraverso l’introduzione della democrazia e di un ragionevole grado di laicismo. Nello stesso tempo è essenziale che, parallelamente al consolidamento democratico degli Stati ereditati dal colonialismo, prendano forma nella regione iniziative sovranazionali: senza una svolta di questo genere, ogni speranza di sviluppo è destinata a naufragare.
Le crisi interne di paesi come l’Iran o l’Algeria sono la conseguenza, pur se in forma diversa, di tensioni politiche che si sviluppano anche a seguito della globalizzazione. Per quanti sforzi vengano compiuti per limitare gli accessi al mondo di internet e alle televisioni satellitari, i contatti con il mondo occidentale sono inevitabili e destinati a spingere gli attuali governi dell’area a condividere sempre più le vicende che legano Oriente ed Occidente. Nello stesso tempo la globalizzazione approfondisce l’interdipendenza tra i paesi islamici, e soprattutto arabi, aggiungendo i propri effetti a quelli tradizionalmente dovuti alla comunanza di religione e di cultura. Il punto è allora quello di riuscire a garantire un quadro internazionale che sostenga ogni sforzo indirizzato verso le aperture alla modernità e verso prime forme di democrazia e di unità interna. Si tratta cioè di favorire i movimenti islamici più tolleranti (che sono comunque la maggioranza, perché il Corano non nega affatto i principi democratici), e di sostenere ogni sforzo che punti a forme di integrazione regionale.
Per quanto riguarda in particolare il mondo arabo, il ruolo dell’Europa sarebbe essenziale, anche in considerazione degli stretti legami di interdipendenza che la uniscono ad esso, cioè alla parte più occidentale del mondo islamico. La collaborazione tra mondo arabo ed Europa potrebbe favorire la stabilità e l’unione laddove il dominio militare americano fomenta il disordine e porta la guerra. Il futuro del mondo arabo è quindi vincolato anche al fatto che l’Europa si doti di istituzioni che le consentano di avere una propria presenza autonoma nella regione, sostenuta da una politica estera e di difesa autonome. Per questo una nuova, pesante responsabilità grava sui paesi europei che non sanno assumersi il ruolo che la storia ha loro assegnato dopo la fine della seconda guerra mondiale: favorire la pace e lo sviluppo nel rispetto delle diversità.
 
Stefano Spoltore


[1] Panayotis Vatikiotis, Islam: Stati senza nazioni, Milano, Il Saggiatore, 1993, p. 54 (traduzione di Islam and the State, Routledge, 1987).
[2] Giorgio Vercellin, Islam, fede, legge e società, Firenze, Giunti, 2003, p. 50 e p. 88; Heinz Halm, L’Islam, Bari, Laterza, 2003, pp. 21 e segg. (traduzione di Der Islam. Geschichte und Gegenwart, Monaco, Verlag C.H. Beck, 2000).
[3] Si veda Panayotis Vatikiotis, op. cit., pp. 54-70 e pp. 143-187.
[4] Si veda la rivista Aspenia, Roma, n. 20, 2003, p. 167.
[5] Il Federalista, XLIII (2001), n. 3.

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