IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XLIII, 2001, Numero 3, Pagina 165

 

 

Appunti sulla sovranità*
 
 FRANCESCO ROSSOLILLO
 
 
1. Il concetto puro di sovranità
 
Potere e sovranità.
 
La nozione di sovranità è ricompresa in quella più ampia di potere. Sarà sufficiente in questa sede riferirsi ad una definizione sommaria del potere come possibilità di individui o di gruppi di imporre ad altri la propria volontà. Il potere si presenta nella vita, e in particolare nella vita politica, nelle più diverse gradazioni, rapporti e situazioni: hanno potere gli Stati, le alleanze di Stati, le organizzazioni internazionali, i partiti, i gruppi di pressione, le chiese, l’opinione pubblica, i singoli individui. I rapporti di potere tra queste entità assumono le più diverse configurazioni e variano continuamente con il variare degli infiniti fattori di cui il potere è la risultante: il grado di consenso, l’organizzazione burocratica, la forza militare, le risorse economiche e finanziarie, ecc.[1]
In questo intreccio infinitamente complesso e cangiante esiste una forma di organizzazione del potere relativamente stabile, che viene generalmente percepita come privilegiata. Questa forma è lo Stato, che è l’ambito nel quale si realizza (anche se imperfettamente) la pace sociale attraverso l’imposizione del diritto. Ciò può avvenire soltanto grazie all’esistenza di un soggetto (che in prima approssimazione si identifica con lo Stato stesso) il quale dispone del potere di decidere in ultima istanza (cioè di un potere irresistibile, al quale nessun altro potere può impedire di prendere e di mettere in atto le proprie decisioni). Questo particolare potere è la sovranità.[2]
 
Sovranità e bene comune.
 
Si deve sottolineare che l’esistenza di un potere irresistibile, e quindi del potere nella sua manifestazione più radicale, ha la conseguenza apparentemente paradossale di superare (anche se nei limiti che si vedranno in seguito) la logica stessa del potere. Lo Stato, proprio grazie al possesso di un potere irresistibile, azzera (o, più precisamente, data la corrispondenza inevitabilmente imperfetta tra la realtà storica e i modelli rispetto ai quali essa si orienta e che servono per interpretarla, attenua fortemente) le differenze di potere tra i cittadini e tra i gruppi che esistono al suo interno e crea così le condizioni perché — in un ampio ambito di rapporti sociali — la logica del diritto prevalga su quella del potere, realizzando quella condizione di uguale necessità che nel dialogo degli Ateniesi e dei Meli viene considerata come il presupposto della giustizia. Esso inoltre disciplina, imponendo l’osservanza di una serie di norme giuridiche, la stessa lotta per il potere al proprio interno, rendendola radicalmente diversa dal confronto di potenza tra Stati. L’irresistibilità del potere fa così prevalere, tra i due aspetti antitetici che costituiscono la sua ambiguità, così come Meinecke li aveva messi in evidenza nell’introduzione alla Teoria della ragion di Stato, l’ethos rispetto al kratos. Lo Stato, grazie all’attributo della sovranità che ne fa il fondamento della convivenza civile attraverso l’imposizione dell’osservanza del diritto, è il presupposto della concezione della politica come attività che si propone la realizzazione del bene comune — e non soltanto come lotta per il potere — in quanto la sicurezza interna, cioè la realizzazione del valore della pace sociale, che esso garantisce, è la condizione indispensabile della possibilità di promuovere tutti gli altri valori che informano i rapporti tra gli uomini.[3]
 
Tramonto della sovranità?
 
Oggi è diffusa, soprattutto in Europa, la tendenza a considerare la sovranità come un attributo di un tipo di Stato che ha cessato di esistere, e a ritenere che essa sia ormai incompatibile con il tipo di rapporti sociali che si sta affermando nell’era della globalizzazione. Secondo questa tendenza, l’unicità dell’ordinamento giuridico, fatto valere da un potere irresistibile, sarebbe soppiantata da una rete di rapporti di natura contrattuale, che darebbero luogo ad una serie di ordinamenti di pari rango e tutti ugualmente non vincolanti e farebbero dello Stato null’altro che una delle numerose agenzie che mediano i rapporti e compongono le controversie tra uomini e tra gruppi. Molti di coloro che considerano la sovranità «superata» prospettano addirittura — e talvolta, con deplorevole irresponsabilità intellettuale, sembrano auspicare — l’avvento di un «nuovo Medioevo», fingendo di dimenticare che il Medioevo è stato un’epoca nella quale il permanente conflitto irrisolto tra poteri diversi e non coordinati tra di loro, e quindi la presenza endemica della violenza, ha impedito il consolidamento della pace sociale in Europa e quindi la formazione dei presupposti per quel fiorente sviluppo della civiltà che è stato la conseguenza della nascita dello Stato moderno. Dietro questo atteggiamento sta di solito l’inconsapevole accettazione — peraltro perfettamente funzionale agli interessi dell’egemonia della superpotenza americana sul mondo — della tesi panglossiana di Fukuyama della «fine della storia» e la tacita convinzione che si stia aprendo un’era nella quale, quantomeno nel mondo industrializzato, il potere tenderà a dissolversi e gli uomini regoleranno pacificamente i loro rapporti reciproci sulla base di compromessi ragionevoli tra i loro rispettivi interessi.[4] Ma la verità è che dove non c’è sovranità non c’è diritto, dove non c’è diritto c’è anarchia e l’anarchia è la negazione di tutti i valori della convivenza civile. Così come è vero che i rapporti tra Stati sovrani, proprio perché non sono regolati dal diritto, sono rapporti di potere, e che le controversie tra di essi possono essere decise in ultima istanza soltanto dalla guerra. Questo è vero oggi come è stato vero lungo tutto il corso precedente della storia dell’umanità.
 
Il popolo come titolare della sovranità.
 
 L’idea di un potere irresistibile evoca quella di un potere assoluto, e non a caso l’idea di sovranità viene da taluno associata esclusivamente alle monarchie assolute dell’Europa del XVII e XVIII secolo, con le quali è storicamente nata. Questa identificazione aveva un fondamento apparente quando le prerogative legate alla sovranità venivano esercitate in ultima istanza dal solo monarca (il «sovrano»), che riuniva in sé tutte le istanze decisionali dello Stato (benché di fatto anche il potere della monarchia assoluta fosse limitato da un sistema di freni e contrappesi). Ma dopo le grandi rivoluzioni europee ed americana, questo errore di prospettiva non è più giustificato. E’ diventato evidente, tranne che per coloro che pensano che la sovranità sia una realtà superata dalla storia, che le prerogative della sovranità vengono esercitate dall’intera struttura istituzionale dello Stato e, in ogni singolo caso, da quelle istituzioni alle quali, di volta in volta, la costituzione assegna la relativa competenza. Ciò porterebbe a concludere che la sovranità appartiene alla costituzione(intesa come costituzione materiale, cioè come modo in cui sono di fatto organizzati e coordinati i poteri dello Stato e come insieme dei valori fondamentali che orientano la convivenza al suo interno).
Ma questa conclusione non tiene nelle situazioni-limite, cioè nelle circostanze nelle quali emerge la natura profonda dei soggetti della dialettica storico-sociale così come in esse si manifesta il carattere vero degli uomini. Il problema che ci si deve porre è quindi quello di chi detiene il potere di decidere in ultima istanza in una situazione di crisi delle istituzioni,o della stessa comunità politica intesa come ambito spaziale nel quale è organizzata la convivenza: cioè quando è la costituzione stessa ad essere messa in discussione. Si tratta quindi di andare al di là del fatto che la costituzione è la fonte della legalità degli atti compiuti dalle istituzioni dello Stato e di chiedersi qual è il soggetto che fonda la legittimità della stessa costituzione, e quindi detiene il potere di cambiarla.[5] Questo soggetto non può essere che il popolo, che la esercita in due forme distinte: quella esplicita del potere costituente nelle fasi rivoluzionarie, quando esso è attivo e esprime una volontà (la volontà generale di Rousseau);[6] e quella implicita del consenso tacito nei confronti della costituzione nelle fasi normali, quando le prerogative della sovranità vengono esercitate dalle istituzioni[7] delle quali il consenso popolare garantisce la permanenza e la legittimità e che, quando esso viene a mancare, entrano in crisi creando le condizioni per la riassunzione diretta da parte del popolo della sovranità, oppure per l’instaurazione del caos o della dittatura.[8]
E’ bene ribadire che l’oggetto della volontà generale e del consenso, che insieme costituiscono il fondamento della sovranità, non è la totalità dell’ordinamento giuridico, ma il complesso di regole e di valori fondamentali attraverso i quali il popolo definisce la propria identità e le strutture portanti della convivenza all’interno dello Stato, cioè la costituzione (sempre intesa in senso materiale), mentre il fondamento della validità delle norme e delle decisioni di natura non costituzionale, che dipendono dalle vicende mutevoli della formazione delle maggioranze, risiede nella loro conformità alle regole di procedura previste dalla costituzione.[9]
 
Sovranità e legittimità.
 
 Soltanto l’attribuzione della sovranità al popolo consente di uscire dall’antinomia che altrimenti vizia qualsiasi teoria della sovranità: quella tra l’esigenza di fondare la legittimità dell’ordinamento costituzionale sul potere irresistibile del detentore della sovranità (non veritas sed auctoritas facit legem) e quella opposta di fondare il potere del detentore della sovranità su qualche forma di legittimità, cioè sull’osservanza di determinati principi provvisti di validità intrinseca (non auctoritas sed veritas facit legem), senza di che si aprirebbe la porta alla legittimazione di qualsiasi abuso (ed è questa la preoccupazione che spinge Bodin e altri teorici del XVI e XVII secolo a sostenere che il monarca assoluto, detentore della sovranità, è comunque tenuto ad osservare le lois du royaume.[10] Infatti il popolo, oltre ad essere dotato di un potere irresistibile in quanto in esso, in ipotesi, si realizza l’identità tra chi impone le regole e chi le deve osservare, è insieme il metro della giustizia, in quanto è arbitro assoluto del bene comune, che coincide con il suo bene. Ciò non implica evidentemente la negazione dell’importanza essenziale di determinati valori come fondamento della convivenza civile, e quindi della legittimità dello Stato. Al contrario, come si vedrà meglio più avanti, un popolo è tale in quanto costituisce una comunità di valori. Significa però che quei valori non devono essere considerati, in questo contesto, sotto il profilo normativo della loro validità universale, ma sotto quello empirico della loro «fatticità», cioè in quanto sono condivisi da un popolo concreto. Il ricorso al popolo consente quindi di risolvere il problema della precedenza tra sovranità e legittimità. La sovranità denota il potere del popolo di dare a sé stesso le regole che definiscono la sua fisionomia; mentre la legittimità denota il consenso che il popolo presta alle regole che esso stesso si dà. E poiché il soggetto che detta le regole e quello al quale sono dettate sono lo stesso soggetto, sovranità e legittimità sono la stessa cosa. Ne discende — tra l’altro — che la definizione della sovranità come monopolio della forza legittima è circolare. Se infatti legittimità e sovranità sono la stessa cosa, la legittimità non può costituire parte della definizione della sovranità. Al contrario, legittimità e sovranità sono entrambe definite dal monopolio, detenuto dal popolo, della forza tout court, né è concepibile, a meno di non ricorrere ad un’idea di legittimità fondata su valori assoluti, cioè sul diritto divino, un monopolio illegittimo della forza.
Si noti che l’identificazione del popolo come il vero soggetto della sovranità non contrasta per nulla con il fatto già ricordato che l’idea di sovranità sia nata nella storia politica europea con le monarchie assolute dell’inizio dell’età moderna. La monarchia assoluta, superando l’anarchia feudale, con i disordini e le violenze che l’avevano caratterizzata, ha infatti creato un legame nuovo tra il potere e i sudditi, e quindi dei sudditi tra di loro. Essa ha creato uno spazio pacificato, prima inesistente, che ha consentito l’instaurazione tra gli uomini di rapporti giuridici — imperfetti ma reali — e ha creato le condizioni per lo sviluppo della civiltà moderna. Della caotica moltitudine medievale, composta da soggetti appartenenti a sfere diverse e intersecantisi, vincolati da lealismi contrastanti e in preda all’arbitrio di rapporti di potere incerti e mutevoli, essa ha fatto un popolo, dal quale ha ricevuto un sostegno consapevole.
 
Identità di popolo e Stato.
 
Si deve sottolineare che l’attribuzione della sovranità al popolo non contrasta con la sua attribuzione allo Stato. Popolo e Stato sono due polarità dello stesso fenomeno, anche se la polarità «popolo» si manifesta con maggiore evidenza nei momenti costituenti, mentre la polarità «Stato» si manifesta con maggiore evidenza nei momenti normali. E’ comunque vero che esiste un popolo soltanto là dove esiste uno Stato, e che, quando le istituzioni di uno Stato, o addirittura la comunità politica come tale, sono in crisi, è in crisi anche il popolo. La consapevolezza di questa identità consente di risolvere una contraddizione apparente che rende difficile capire la dinamica dei trasferimenti di sovranità fino a che popolo e Stato vengono considerati due entità del tutto distinte. Si tratta di un problema di particolare importanza per chi si batte oggi per l’unificazione federale dell’Europa, che comporta appunto un trasferimento di sovranità dagli Stati nazionali ad uno Stato federale europeo. Molti affermano che il progetto della Federazione europea è irrealizzabile perché la sua esecuzione presuppone l’esistenza di un popolo europeo, che oggi non esiste.[11] Il popolo quindi verrebbe prima dello Stato, e costituirebbe la condizione della sua nascita. Questa opinione ha una parvenza di plausibilità. Ma ne ha una anche quella opposta, secondo la quale un popolo non può nascere se non nel quadro e per opera di uno Stato, e quindi viene dopo lo Stato.[12] La verità è che le idee di Stato e di popolo si richiamano reciprocamente e che il problema della precedenza dell’uno o dell’altro nel tempo è simile a quello dell’uovo e della gallina. Uno Stato nasce quando un popolo lo vuole, così come un popolo nasce quando vuole uno Stato. In ultima analisi Stato e popolo sono la stessa cosa.[13] Da tutto ciò si deve concludere che è vero che oggi un popolo europeo non esiste (anche se esistono, grazie agli effetti di un lungo processo di integrazione, le condizioni perché esso si formi), ma che questa constatazione non costituisce un argomento contro la realizzabilità, anche in tempi assai brevi, del progetto federale europeo. Il popolo europeo nascerà — se nascerà — quando l’evolvere delle circostanze consentirà la formazione di una volontà comune (la volontà di creare istituzioni di natura federale). Popolo europeo e Stato europeo nasceranno quindi insieme nel corso di un processo che sarà di grande intensità e di breve durata, e sarà contrassegnato da uno o più eventi costituenti di grande valore simbolico, che si imprimeranno indelebilmente nella memoria collettiva e daranno a coloro che li vivranno il senso di appartenere ad una nuova comunità di destino. Tener presente questo aspetto del trasferimento della sovranità è essenziale per non commettere l’errore di considerare quest’ultimo come un fatto puramente istituzionale. Certo esso è anche questo, ma non solo. Qualunque costruzione istituzionale, se non prende vita e senso da un atto di volontà che ha il suo soggetto ultimo nel popolo e che ha come contenuto un modo diverso di stare insieme, è sempre eminentemente ambigua, perché i termini del linguaggio di cui si serve possono facilmente essere messi al servizio di fini contrastanti. Basti ricordare il modo in cui è stato corrotto il senso del termine «costituzione» nel recente dibattito politico europeo.
 
Indivisibilità della sovranità.
 
Se la sovranità è il potere di decidere in ultima istanza, essa è per ciò stesso indivisibile. Se infatti essa fosse divisibile potrebbero esistere sullo stesso territorio e all’interno dello stesso ordinamento due o più soggetti dotati del potere di decidere in ultima istanza e la decisione su quale di essi sia legittimato ad esercitarlo in ogni singolo caso non potrebbe essere lasciata che alla forza. Ciò determinerebbe uno stato di guerra civile, cioè la negazione di quella pace sociale della quale la sovranità è la garanzia e l’espressione. Si tratta peraltro di una situazione che ricorre nella storia, ma che non è l’espressione della divisibilità della sovranità, bensì della sua assenza.
Affermare che la sovranità è indivisibile implica riconoscere che essa lo è sia per materia che per territorio. E’ quindi errato distinguere una sovranità politica da una sovranità monetaria, come si fa spesso oggi in Europa quando si attribuisce la sovranità monetaria alla Banca centrale europea e la sovranità politica agli Stati nazionali. Così come è errato considerare lo Stato federale come un modello di Stato nel quale si realizza la divisione della sovranità tra governo federale e Stati membri. In realtà la sovranità negli Stati federali resta indivisa. Ma essa non viene esercitata da uno specifico livello di governo, determinando così la sua preponderanza sugli altri, ma dalla federazione come sistema istituzionale complesso, che comprende un livello di governo centrale e uno o più livelli di governo regionali (dove il termine «regionale» denota ogni livello di governo di dimensione inferiore a quella del livello di governo federale).
 
Indivisibilità del popolo.
 
All’indivisibilità della sovranità non può non fare riscontro quella del soggetto che ne è il titolare ultimo, cioè del popolo. L’affermazione dell’unicità del popolo, anche di quello degli Stati federali, non comporta certo la negazione del fatto che esso possa avere un carattere pluralistico, quando è di fatto caratterizzato da marcate differenze culturali. L’indivisibilità del popolo sta soltanto ad indicare l’esistenza di un’entità che a) è capace di esprimere una volontà unitaria nei momenti costituenti, o rivoluzionari, e b) garantisce con il suo consenso, nei momenti normali, la supremazia di un’unica legge fondamentale (la costituzione) e di un’unica istituzione munita del potere di interpretarla (la Corte suprema) la quale, decidendo caso per caso la competenza dell’uno o dell’altro ordinamento subordinato, sia esso centrale o regionale, consente l’applicazione inequivoca, in ogni singolo caso, di una e una sola norma. L’espressione «Europa dei popoli», che talvolta viene usata anche in ambienti europeistici con riferimento alla Federazione europea, è quindi errata. Gli Stati federali si fondano su di un unico popolo, e dall’unicità di questo discende che qualunque tentativo secessionistico da parte di uno Stato membro di una federazione costituisce la più grave delle violazioni costituzionali, e deve essere impedito con qualsiasi mezzo, ivi compresa la guerra.[14] Nello stesso modo, dall’indivisibilità della sovranità discende la rilevanza del territorio come elemento costitutivo dello Stato. Se infatti lo Stato, grazie all’attributo della sovranità, è, nelle fasi normali, il titolare del potere di imporre, in ogni singolo caso concreto, l’efficacia di un ordinamento giuridico, e di uno solo, questo suo potere non può che manifestarsi all’interno di un territorio delimitato da frontiere. Parlare di «deterritorializzazione dello Stato» o di «Stato virtuale» è semplicemente privo di senso. Ciò non significa — è bene ribadirlo — che non vi possano essere situazioni nelle quali vi sia incertezza sul soggetto che dispone del potere di decidere in ultima istanza. Ma queste sono situazioni di assenza di Stato, cioè di potenziale o attuale guerra civile.
 
Federazione e confederazione.
 
Dall’indivisibilità della sovranità discende che, nell’ipotesi di unioni di Stati, la dicotomia confederazione-federazione mantiene intatta la sua validità, malgrado i tentativi di una certa dottrina e di una certa pubblicistica di avvalorare la tesi secondo la quale questa contrapposizione sarebbe superata e l’Unione europea — che non sarebbe né una confederazione né una federazione — costituirebbe la dimostrazione dell’assunto. In realtà è impossibile sfuggire all’evidenza della constatazione che, a meno di cadere nell’anarchia, la sovranità deve risiedere o negli Stati che costituiscono l’unione o nell’unione stessa (sempre intesa come insieme del livello di governo federale e dei livelli di governo regionali). Tertium non datur.[15] Ciò non toglie naturalmente che in determinate situazioni storiche, come quella che si è creata in Europa occidentale per mezzo secolo dopo la fine della seconda guerra mondiale, possa venire ad esistenza un ordinamento contrattuale relativamente stabile tra gli Stati membri di una confederazione, e che questa situazione possa costituire la premessa per un effettivo passaggio di sovranità. Ma è importante non confondere i presupposti della nascita di una realtà con la realtà stessa. E la realtà dell’Unione europea di oggi è che i soggetti della sovranità — per quanto si tratti di una sovranità indebolita — sono gli Stati membri.
In situazioni come questa possono essere create istituzioni che dispongono (come la Corte di giustizia e la Banca centrale nel caso dell’Unione europea) della competenza formale di decidere in ultima istanza in alcuni settori, mentre il potere reale — in particolare il potere di modificare le competenze degli organi dell’Unione, o di non ottemperare alle loro decisioni, o di predeterminarne il contenuto attraverso il ricatto, o infine quello di abbandonare l’Unione o di deciderne con gli altri partner la dissoluzione — rimane sempre nelle mani degli Stati membri. Si crea in questo modo una sorta di distinzione fittizia tra sovranità formale e sovranità sostanziale. Ma, ancora una volta, non esiste che una sovranità, che si identifica con la sovranità sostanziale.
 
Popolo e cittadini.
 
Molti rifiutano l’attribuzione della sovranità al popolo — che sarebbe un’entità di natura ideologica dalla composizione indeterminata — e sostengono che essa sia una prerogativa dei cittadini, come individui concreti. Questa affermazione riposa su di un equivoco. La cittadinanza, come fondamento della titolarità di una serie di diritti e di doveri, è una prerogativa radicata nella costituzione. Al contrario il popolo, come detentore del potere costituente, è al di fuori della costituzione[16] in quanto ne fonda la legittimità. La cittadinanza è costituita, il popolo è costituente. Inoltre i cittadini sono titolari di diritti e di doveri uti singuli mentre il popolo esprime un’unica volontà collettiva e non è soggetto di diritti, ma titolare di un potere. L’affermazione secondo la quale la sovranità è una prerogativa dei cittadini è quindi il segno di una radicale incomprensione della natura della sovranità, che non è un attributo della cittadinanza, ma ne costituisce il fondamento.
 
Differenza tra democrazia e volontà popolare.
 
Ne consegue che la manifestazione della volontà popolare non si deve confondere con le scelte espresse dal corpo elettorale (che è costituito da una parte dei cittadini) nelle elezioni dei suoi organi rappresentativi così come essi sono definiti e regolati dalla costituzione, e che l’uso che i partiti fanno di questa espressione riferendola ai risultati elettorali è ideologica. Il corpo elettorale è un organo dello Stato, che agisce nei limiti, alle scadenze e secondo le regole definiti dalla costituzione e dalle leggi, ed esso non esprime un’unica volontà collettiva, ma distinte preferenze individuali. Al contrario la volontà popolare si esprime attivamente soltanto nei momenti di crisi, e senza seguire procedure predeterminate, perché essa fonda la legittimità di tutte le procedure. Va da sé che, in particolari circostanze, essa si può servire, per manifestarsi, anche della procedura del voto o del referendum, che quindi acquistano una valenza costituente. Ma questa, quando si verifica, rimane una coincidenza casuale. Si deve quindi tenere accuratamente distinta la volontà popolare dalla democrazia. La prima è il fondamento della costituzione. La seconda costituisce la più avanzata tra le tecniche della lotta per il potere all’interno dello Stato e si esercita nell’ambito della costituzione.[17]
 
Volontà popolare e diritti di libertà.
 
Le considerazioni che precedono non implicano certo una svalutazione o una relativizzazione dei diritti democratici e di libertà che la tradizione costituzionale occidentale garantisce ai cittadini, e che hanno la loro radice nel riconoscimento della inviolabile dignità dell’individuo. Ma implicano che nessun governo e nessun partito può giustificare di fronte al Tribunale della storia e dell’opinione pubblica mondiale posizioni autoritarie, intolleranti, demagogiche o faziose accampando la consacrazione che queste avrebbero ricevuto, attraverso il voto, dalla volontà popolare. Così come implicano la piena legittimità, in nome dei principi della democrazia, della limitazione dell’accesso alla competizione elettorale esclusivamente a quei partiti che nei principi della democrazia si riconoscono senza equivoci (anche se la pratica realizzazione di questa legittima esigenza può essere assai difficile). L’idea dell’irresistibilità del potere del popolo sovrano, quale esso si manifesta nei momenti costituenti, non ha quindi nulla a che fare con l’esercizio delle funzioni di governo da parte dei rappresentanti della maggioranza dei cittadini il quale, se non è accuratamente regolato, può dar luogo a regimi populistici, corrotti o totalitari. Ciò è tanto vero che nelle democrazie liberali moderne la volontà costituente del popolo sovrano si esprime attraverso l’adozione di costituzioni che si preoccupano, tra l’altro, di porre un argine, attraverso un sistema di checks and balances, allo strapotere della maggioranza e di garantire ai cittadini, attraverso il riconoscimento di una serie di diritti, una sfera di libertà che il potere politico non può comunque violare.
 
Natura eccezionale della manifestazione della volontà popolare.
 
Il fatto che la volontà popolare, come espressione attiva della sovranità, si manifesti soltanto nelle fasi rivoluzionarie, o costituenti, ha la sua radice nel fatto che gli uomini si fanno guidare dalla preminente preoccupazione per l’interesse generale, e quindi si occupano attivamente del contenuto delle regole fondamentali che devono disciplinare la loro convivenza, soltanto nei momenti nei quali le basi di quest’ultima sono in pericolo, perché soltanto in quei momenti gli interessi della collettività coincidono di fatto con gli interessi privati di ciascuno.[18] Nelle fasi normali invece, quando la convivenza appare sicura, questa coincidenza non esiste e gli uomini si occupano prevalentemente dei propri affari, il che significa che essi si disinteressano del bene comune (che essi peraltro considerano garantito dalle istituzioni, sostenute dal loro tacito consenso) o lo interpretano attraverso la lente deformante dei loro interessi privati, che sono per definizione divergenti. Si noti peraltro che questo stato di fatto è perfettamente funzionale a una convivenza che promuova nella misura massima possibile la realizzazione delle disposizioni degli individui che di quella convivenza sono i soggetti. In una comunità utopica, nella quale tutti fossero mossi in ogni momento dalla preoccupazione per l’interesse generale, la distinzione tra volontà generale e democrazia verrebbe a cadere, come verrebbe a cadere la distinzione tra pubblico e privato: non vi sarebbe più costituzione, come sedimento stabile di un atto di volontà passato, che sopravvive nella forma passiva del consenso, e la vita sociale sarebbe una sorta di continua, affannosa rifondazione dello Stato. I valori liberali, che esprimono l’esigenza di garantire ai cittadini una sfera di libertà contro il governo, non avrebbero più ragion d’essere perché governo e cittadini sarebbero la stessa cosa. E’ facile vedere che la realizzazione di un’utopia di questo genere comporterebbe la politicizzazione totale della vita, e quindi negherebbe gli stessi presupposti su cui si fonda. La sfera pubblica infatti, una volta allargata alla totalità della vita sociale, non solo cancellerebbe la realtà stessa degli interessi privati, ma perderebbe anche il suo carattere strumentale rispetto alla promozione della civiltà, cioè delle arti, delle scienze, della letteratura e della filosofia, che si coltivano attraverso il raccoglimento, il quale a sua volta non si può raggiungere se non garantendo all’individuo uno spazio di libertà dalla politica, nel quale anche il più democratico dei poteri non può interferire. Perché ciò avvenga è quindi necessario che nei periodi normali la politica rimanga appannaggio di un ceto di professionisti e che l’assunzione diretta da parte del popolo del suo potere sovrano avvenga soltanto in momenti eccezionali, anche se questa affermazione non è per nulla incompatibile con l’esigenza di rafforzare il controllo dei cittadini sul potere né con quella di migliorare la qualità, di promuovere l’estensione e di aumentare l’intensità della loro partecipazione alla vita politica normale nelle forme previste dalla costituzione e dalle leggi.
 
Legame tra volontà popolare e democrazia.
 
Democrazia e sovranità popolare infatti, pur essendo nettamente distinte, sono strettamente collegate. Del resto, un effettivo esercizio della democrazia presuppone l’esistenza di un potere capace di prendere decisioni, e quindi di uno Stato. L’idea di una democrazia senza Stato, che si cerca di avvalorare con riferimento al ruolo del Parlamento europeo nel quadro dell’Unione europea è del tutto priva di senso. Il presentimento di democrazia europea che si manifesta nei debolissimi poteri del Parlamento europeo esiste soltanto nella misura nella quale l’Unione europea è essa stessa il presentimento di uno Stato. Allo stesso modo è vero che in uno Stato la cui sovranità sia seriamente compromessa, e nel quale quindi tutte le decisioni più importanti siano prese da soggetti estranei ad esso, la democrazia si riduce ad un puro rituale. Se ne deve concludere che la sovranità popolare è una condizione necessaria dell’esercizio della democrazia, anche se non si identifica con essa. Si deve inoltre tener presente che la democrazia non può comunque essere pensata senza un riferimento all’interesse pubblico, sia perché l’esistenza di un meccanismo che consente il confronto pacifico tra interessi privati risponde di per sé all’interesse generale, sia perché l’organizzazione del consenso da parte dei partiti si attua attraverso la mediazione tra interessi privati nel quadro di diverse interpretazioni dell’interesse pubblico, sia infine perché, come si è accennato, in alcuni casi una ricorrenza elettorale o referendaria può coincidere con un momento costituente.
 
 
2. La sovranità nella realtà storico-sociale
 
Il popolo e i rapporti internazionali. Popolo e nazione.
 
Il popolo non si è mai realizzato nella storia in una forma adeguata al suo concetto. La sua sovranità, nella sue manifestazioni concrete, è sempre stata soggetta a due limitazioni. La prima ha la sua radice nella pluralità dei popoli storici, che fa sì che ogni creazione di un nuovo Stato, così come ogni trasformazione della costituzione di uno Stato esistente, avvenga in un contesto internazionale che riduce, spesso in misura drastica, la libertà di decisione del titolare del potere costituente. L’affermazione che un popolo storico ha il potere di decidere in ultima istanza del proprio destino deve quindi essere attenuata, precisando che le sue decisioni vengono prese non soltanto in considerazione del proprio astratto interesse, ma anche tenendo conto dei rapporti di potere esistenti tra gli Stati; e talvolta vengono addirittura prese da altri Stati (come quando a uno Stato uscito sconfitto da una guerra viene imposta — anche se quasi sempre con l’appoggio di una parte dei suoi cittadini e della sua classe politica — una nuova costituzione dai vincitori).[19] La dottrina internazionalistica ha tentato di rimuovere questa difficoltà mediante la formulazione del principio di non ingerenza, in forza del quale ogni Stato viene pensato come un’entità del tutto isolata dal contesto internazionale. Ma il principio di non ingerenza non ha mai avuto concreta attuazione nella realtà storica — che offre, e ha sempre offerto, lo spettacolo di continue ingerenze di Stati negli affari interni di altri. Esso rimane confinato alla sfera del diritto internazionale, del quale la politica fa un uso puramente strumentale.
La pluralità dei popoli storici mette inoltre in discussione il fatto che il popolo sia per sua natura l’arbitro del bene comune, che in ipotesi si identifica con il suo bene. Nel contesto internazionale infatti il bene di ogni popolo concreto non coincide con il bene comune (che è il bene dell’umanità), ma con il bene particolare di una parte dell’umanità. Questa ambiguità si proietta sull’idea stessa di popolo, quando questa è calata nella storia. Essa tende a confondersi con l’idea di nazione, che ha in sé la connotazione della diversità e, quando le vicende dell’equilibrio internazionale lo esigono, della contrapposizione di ogni popolo nei confronti di tutti gli altri. L’idea di nazione introduce nel quadro l’idea dell’altro, del nemico, che fa di ogni nazione non un’entità astratta che persegue il bene comune, ma un individuo concreto che persegue il proprio interesse particolare. Deve essere sottolineato a questo proposito che l’idea di nazione nel senso forte del termine denota una specifica ideologia che nasce con la Rivoluzione francese.[20] Così come si deve notare che esistono oggi Stati di dimensione continentale, come gli Stati Uniti, la Russia, la Cina e l’India, nei quali le differenze linguistiche, etniche e religiose sono così profonde da rendere improprio attribuire loro la natura di Stati nazionali nel senso più pregnante dell’espressione (anche se in ciascuno di essi è in corso un processo di assimilazione dello Stato al modello creato dalla Rivoluzione francese). Rimane però il fatto che là dove una comunità sovrana — per quanto solo imperfettamente tale — vive la propria identità anche in contrapposizione ad altre comunità — il che accade inevitabilmente fintantoché più comunità indipendenti convivono sulla Terra —, l’idea di popolo viene comunque inquinata da quella di nazione, anche se nell’accezione debole del termine. La sola prospettiva che consente di liberare l’idea di popolo dalla commistione con quella di nazione è quella del popolo mondiale — il primo vero popolo della storia —, che prenderebbe corpo attraverso la fondazione di uno Stato federale mondiale. E’ solo nella prospettiva dello Stato mondiale che l’idea di bene comune come fondamento della legittimità del contratto sociale viene depurata da ogni contaminazione provocata dai rapporti di forza internazionali.
Ma fino ad oggi la legittimità degli Stati storici si è fondata su di una commistione tra l’idea razionale del bene comune e la solidarietà generata dalla necessità di fare fronte comune contro il nemico (un sentimento che è presente, anche se in forma attenuata, anche nei momenti in cui i rapporti tra gli Stati sono pacifici, e il nemico viene percepito soltanto come l’altro). La prospettiva della nascita del popolo mondiale nel quadro dello Stato federale mondiale presuppone quindi un atto di fede nella capacità degli uomini di andare al di là della pratica della politica come attività fondata sulla polarità schmittiana amico-nemico;[21] e di basare la propria convivenza soltanto sul rispetto kantiano che ognuno deve ad ogni suo simile in quanto membro del genere umano e il proprio consenso nei confronti del potere sulla sola motivazione del perseguimento disinteressato del bene pubblico. Soltanto in questo modo si potrebbe realizzare l’ideale del «patriottismo costituzionale».
 
Il popolo e le élites.
 
La seconda limitazione alla quale la sovranità è sottoposta nelle sue manifestazioni storiche è costituita dal fatto che il suo soggetto — il popolo — non esprime mai la sua volontà in modo unanime. Anche le grandi rivoluzioni della storia sono sempre state l’opera di minoranze, che hanno potuto superare la resistenza di altre minoranze grazie alla disponibilità passiva della maggioranza ad accettare l’innovazione della quale i rivoluzionari erano i portatori. Esse sembrano quindi negare le idee stesse di sovranità e di legittimità, che poggiano sull’identità tra Stato e popolo, cioè tra il soggetto che detta le regole fondamentali della convivenza e il soggetto che le riceve e le accetta: un’identità che viene a mancare se chi detta le regole fondamentali della convivenza è soltanto una parte del popolo, mentre chi le deve seguire è il popolo nella sua totalità. Molti traggono da tutto ciò la conclusione che l’idea di popolo è una pura ideologia, dietro la quale si nasconde la realtà dei rapporti di potere tra ceti, gruppi e interessi che determinano i cambiamenti di regime o le unificazioni di Stati e che garantiscono poi la stabilità dei nuovi regimi e delle nuove comunità politiche creati dai precedenti sommovimenti rivoluzionari.
Resta però il fatto che il linguaggio politico non riesce a fare a meno dei termini di popolo e di sovranità popolare. Di fatto, nelle rivoluzioni che hanno segnato i grandi momenti di emancipazione della storia dell’umanità, anche se il motore del processo è stato costituito da una parte soltanto del popolo, la manifestazione della volontà di questa parte attiva ha introdotto nel processo storico norme, valori e comportamenti che sono divenuti patrimonio comune di (quasi) tutti i cittadini di uno Stato (e, al di là dei cittadini di uno Stato, dell’intera umanità). In queste circostanze l’affermazione che le minoranze agenti hanno rappresentato il popolo nella sua totalità ha una sua precisa giustificazione.
Peraltro non si deve dimenticare che la storia offre anche numerosi esempi nei quali radicali trasformazioni istituzionali sono state veicolate da vere e proprie esplosioni di barbarie, che, da un lato, hanno avuto come loro soggetti minoranze anche assai consistenti della popolazione di uno Stato e sono state tollerate dalla maggioranza della parte residua e che, dall’altro, hanno avuto come loro esito regimi ferocemente autoritari. Basti, come esempio tra tutti, ricordare la salita al potere di Hitler in Germania, che è stata la conseguenza di un ampio movimento di opinione pubblica. Avvenimenti di questa natura ci pongono di fronte alla necessità (sempre che non si voglia abbandonare puramente e semplicemente l’idea che il popolo è il fondamento della sovranità e della legittimità dello Stato) di tentare di individuare un criterio obiettivo che consenta di stabilire quando, in occasione di sommovimenti che modificano profondamente la struttura costituzionale di uno Stato o danno luogo ad unioni o a dissoluzioni di Stati, ci si trova di fronte ad un popolo nell’esercizio del suo potere costituente e quando invece ci si trova di fronte alla sua crisi, cioè alla dissoluzione del vincolo che ne garantisce l’unità; e così di sfuggire alla conclusione che, posta l’identità tra popolo e Stato, tutti gli Stati che esistono oggi e sono esistiti in passato, dalla più avanzata delle democrazie alla più efferata delle dittature, sono ugualmente legittimi.
 
La storia come realizzazione del concetto di popolo.
 
Molti tentano di uscire da questo dilemma negando che il popolo sia il fondamento della legittimità, e sostenendo che questo debba essere cercato non nella sfera della realtà ma nella sfera dei valori. Sarebbe quindi legittimo lo Stato che professa e realizza, almeno in parte, determinati valori universali.[22] Ma la verità è che i valori non sono idee disincarnate. Essi hanno un senso in quanto sono valori di qualcuno, e possono dirsi universali soltanto quando sono valori di tutti. Oggi un sistema di valori universali — al di là di un accordo puramente formale sui loro nomi — non esiste, perché in contesti culturali diversi da quelli in cui noi viviamo, altri uomini ritengono universali valori diversi dai nostri. D’altro canto la convinzione che i propri valori sono potenzialmente universali è il fondamento sia dell’impegno politico che della ricerca storico-sociale, e in ultima analisi della possibilità stessa di comunicare: e il suo abbandono comporta la caduta nel relativismo, cioè la negazione della conoscenza e della morale. E’ quindi essenziale conciliare l’esigenza razionale della potenziale universalità dei valori con il fatto empirico della loro diversità, e spesso della loro contrapposizione, nella realtà storica. Ciò può accadere soltanto se si tiene ferma l’idea del popolo come fondamento della legittimità, ma nel quadro di una visione filosofico-storica in forza della quale i popoli storici sono soltanto prefigurazioni provvisorie e transeunti di un futuro popolo mondiale di uguali, del quale il processo storico è la progressiva realizzazione. Ciò avviene attraverso un lungo e faticoso itinerario, rallentato dal permanere e dal ripresentarsi della violenza, dell’oppressione e dell’ingiustizia, ma nel quale, ciononostante, il superamento delle disuguaglianze economico-sociali tra gli uomini e la caduta delle barriere alla comunicazione realizzano progressivamente le condizioni politiche e istituzionali di una formazione sempre più razionale della volontà politica e della pratica di una sempre più larga e intensa solidarietà, che tende a fondere tutti i valori nell’imperativo di trattare i propri simili sempre come fini e mai come mezzi. Soltanto sulla base di questi presupposti diventa possibile individuare un criterio oggettivo che consenta di orientare il giudizio storico nel distinguere le manifestazioni di volontà collettiva che costituiscono genuine espressioni della sovranità popolare da quelle che tali non sono; e che non sia esterno (come lo è qualunque sistema di valori quando questi sono considerati sotto il profilo della loro validità assoluta), ma interno all’idea di popolo. Questo criterio non può essere appunto che quello dell’avvicinamento dei popoli storici all’idea di popolo, cioè dell’estensione dell’orbita dello Stato e del consolidamento, fondato sul libero consenso, delle sue istituzioni. E’ l’applicazione di questo criterio che ci consente, per esempio, di interpretare il superamento dell’anarchia feudale realizzato dallo Stato moderno (se pure nella forma della monarchia assoluta) come una genuina, anche se embrionale, manifestazione della sovranità di popoli in formazione; e il recente smembramento della Jugoslavia (con la relativa nascita dei cosiddetti «popoli» delle repubbliche secessionistiche) come una selvaggia manifestazione di ferocia nazionalistica, che ha comportato la creazione di Stati la cui sovranità è drasticamente limitata rispetto a quella della precedente Federazione e che costituisce un passo indietro nel processo di emancipazione del genere umano. O ancora l’instaurazione, in passato, di regimi come quello nazista in Germania o fascista in Italia come espressioni non certo dell’esercizio del potere costituente di un popolo, ma degli ultimi sussulti dell’agonia di popoli in dissoluzione e del tentativo estremo delle élites al potere di impedire la sopravvenienza dell’anarchia attraverso l’imposizione della dittatura.
Si noti che questa prospettiva consente di liberare il rapporto tra l’idea di popolo e quella di nazione da una parte dell’ambiguità che lo contraddistingue. Nella vita dei popoli nazionali tenderanno a prevalere le connotazioni dell’idea di popolo quando gli obiettivi perseguiti dalle minoranze attive saranno il superamento delle barriere interne ed esterne che impediscono il rafforzamento e l’allargamento della solidarietà, mentre, al contrario, tenderanno a prevalere quelle dell’idea di nazione quando quegli obiettivi saranno il rafforzamento delle barriere esterne o la creazione di barriere interne che prima non esistevano.
 
La sovranità come realtà in itinere.
 
Da tutto ciò consegue che anche la sovranità, così come il popolo che ne è il soggetto, è una realtà in itinere, che si avvicina asintoticamente alla purezza del suo concetto con il progredire della civiltà politica (anche se si può esprimere con diverse intensità, a parità di grado di sviluppo della civiltà, in Stati diversi, a seconda delle loro dimensioni e del loro potere). Essa era presente nel mondo antico soltanto come premonizione, in particolare ad Atene e nella Roma repubblicana; ma era assente in tutte le forme di dominio imperiale, nelle quali un sottile ceto dirigente di una popolazione egemone dominava la massa passiva delle popolazioni sottomesse;[23] così come era sostanzialmente assente, se non in forma embrionale, nell’anarchia feudale del Medioevo. Essa è nata con la nascita dello Stato moderno nel XVI secolo ed è rimasta a lungo limitata ai paesi dell’Europa occidentale. Da due secoli si è progressivamente diffusa al di fuori dell’Europa, ma si manifesta in una forma tanto più avanzata quanto più lo Stato il cui popolo ne è il soggetto è indipendente nei rapporti internazionali e il suo ordinamento costituzionale è sorretto da un largo consenso da parte dei suoi cittadini.
Ciò non significa peraltro che la compresenza nel mondo di più sovranità di diversa intensità che si condizionano e si limitano reciprocamente in diversa misura configuri quello che si usa chiamare un gioco a somma zero, nel quale all’indebolimento della sovranità di un popolo corrisponde necessariamente il rafforzamento di quella di un altro. E’ sempre di importanza cruciale non confondere la sovranità con il puro fatto del potere. L’esercizio dell’egemonia (come espressione di un potere superiore) da parte di uno Stato su di un altro diminuisce il grado di sovranità dello Stato che è sottoposto all’egemonia, ma non accresce quella dello Stato che la esercita: perché la sovranità è autonomia,esercizio del monopolio del potere di un popolo su sé stesso, e quindi non ha nulla a che fare con il dominio di un popolo su di un altro. Allo stesso modo, l’affievolimento della sovranità di un gruppo di Stati dovuto alla necessità di collaborare tra di loro provocata dall’aumento dell’interdipendenza, come avviene nel caso degli Stati dell’Unione europea, non si traduce automaticamente in un trasferimento di sovranità alle istituzioni create per gestire la cooperazione, né ad uno Stato egemone esterno al gruppo. E’ per questo che nell’Unione europea attuale la sovranità, per quanto indebolita, rimane una prerogativa esclusiva degli Stati nazionali.
 
I gradi della sovranità.
 
Anche dopo la sua consapevole affermazione con la nascita dello Stato moderno quindi la sovranità si manifesta nella realtà degli Stati e dei popoli storici soltanto per gradi. Il che significa che la stessa idea di Stato — che è indissolubilmente legata a quella di sovranità — si può realizzare nei singoli contesti storici in misura maggiore o minore, nel senso che gli «Stati» storici sono di fatto più o meno Stati a seconda che maggiore o minore sia il grado di sovranità che essi posseggono (anche se tutti la devono possedere nella misura minima necessaria a giustificare la percezione che essi sono comunque Stati). E ciò a dispetto del fatto che la comunità internazionale, con l’aiuto delle teorie elaborate dal diritto internazionale, e in particolare mediante l’affermazione del principio di non ingerenza e la pratica dell’istituto del riconoscimento, mantiene in essere la finzione che tutti gli Stati siano uguali nell’esercizio della pienezza, reciprocamente riconosciuta, della loro sovranità. Si tratta infatti di una uguaglianza che viene continuamente negata dalla pratica della guerra e dalla realtà della permanente ingerenza da parte degli Stati più forti negli affari interni di quelli più deboli. Sotto questo profilo appare parzialmente giustificata l’espressione di «ipocrisia organizzata» con la quale Krasner caratterizza la sovranità, e in particolare il suo aspetto esterno. Ma il fatto che la sovranità non sia presente dappertutto, né dappertutto nella stessa misura, non le impedisce di rimanere il presupposto essenziale del perseguimento storicamente possibile del bene comune e la misura del progresso della convivenza civile. Questi obiettivi infatti sono realizzati tanto più compiutamente quanto maggiore è il grado di sovranità posseduto dai popoli che li perseguono. Per questo la violazione della sovranità — per quanto limitata e imperfetta — di uno Stato da parte di un altro è un evento traumatico che assume sempre la forma della guerra — o della minaccia della guerra — e che turba profondamente l’opinione pubblica internazionale.[24]
Allo stesso modo è inevitabile che, nella sua marcia verso la piena realizzazione della sovranità, la storia passi attraverso fasi involutive. La prospettiva di un secondo Medioevo non è impensabile. Ciò che invece è moralmente inaccettabile è che questa prospettiva venga accettata con una sorta di serena rassegnazione, e talvolta addirittura auspicata, dimenticando che una lunga e generale crisi mondiale della sovranità significherebbe una lunga e generale crisi dell’idea stessa di bene comune, e quindi della convivenza pacifica all’interno dello Stato, e quindi ancora della civiltà tout court. Al contrario ogni politico responsabile dovrebbe porsi oggi come obiettivo prioritario quello di comprendere le condizioni alle quali la sovranità può essere ripristinata là dove è compromessa e di impegnarsi con tutte le sue forze perché queste condizioni si realizzino.
 
 
3. Popolo e valori
 
I valori come fondamento dello Stato.
 
Se quanto si è detto fino a questo punto è vero, la sovranità si identifica con la volontà popolare e con il consenso del popolo nei confronti delle istituzioni al fine di garantire la pace sociale come condizione del perseguimento del bene comune. Ma questa connotazione è ancora formale. Il fatto stesso della pluralità dei popoli storici, ognuno dei quali occupa distinte porzioni di territorio, significa che ciascuno di essi si è formato e ha mantenuto la sua unità per difendere un proprio e specifico modo di stare insieme, cioè un complesso di valori condivisi. Del resto la pace sociale non può essere semplicemente imposta dallo Stato, se è vero che questo si identifica con il popolo: essa viene resa possibile dalla (quasi) generale condivisione di alcuni valori fondanti da parte degli ideali contraenti del patto sociale. E il ruolo delle istituzioni dello Stato è soltanto quello di imporre l’osservanza di certi comportamenti nei casi marginali nei quali alcuni singoli individui violano le regole formulate in conformità al patto.[25] Si deve notare che questi valori non hanno nulla a che fare con i diritti fondamentali che sono spesso elencati nelle costituzioni liberal-democratiche, e il cui scopo è per lo più quello di garantire al cittadino una sfera di autonomia nei confronti del potere. Qui si tratta invece dei valori che costituiscono le motivazioni primarie in base alle quali è stato idealmente stipulato e viene osservato il contratto sociale. Essi quindi fondano il potere e, quando vengono formulati, non prendono la forma di diritti, ma quella di doveri, cioè dei sacrifici alla propria libertà che ognuno deve consentire e delle regole che deve imperativamente osservare per rendere possibile la convivenza. E’ interessante notare a questo proposito che nei primi documenti di carattere costituzionale delle colonie americane (che sono i soli esempi storici documentati di comunità politiche nate attraverso qualcosa di molto simile ad un vero e proprio patto) sono spesso presenti elencazioni di doveri nella forma di norme di natura penale.[26] E del resto, anche negli Stati moderni, alcuni orientamenti del diritto penale forniscono la chiave più sicura per interpretare il tipo di convivenza civile che lo Stato esprime e tutela.
Queste norme si fonderanno in un unico sistema di valori nel momento ideale della nascita di un popolo e di uno Stato mondiali. Peraltro le imperfette sovranità degli Stati storici sono pur sempre l’espressione di una ricerca incompiuta del contenuto universale dell’idea di bene comune, che vive come presentimento in tutti i popoli. Questa comune ricerca è riflessa dal fatto che molte norme fondamentali della convivenza sono sostanzialmente uguali in tutte le aree di civiltà: ed essa rende comunque possibile l’elaborazione di quell’elementare lingua franca morale che serve da veicolo per il confronto — spesso conflittuale ma sempre in atto — tra le culture.[27] Questa comune ricerca si svolge però nel contesto di realtà politico-sociali diverse e, pur contribuendo — secondo il postulato filosofico-storico precedentemente enunciato — a far convergere a lunghissimo termine queste realtà verso un unico modello, produce, a medio termine, esiti storici profondamente diversi essi stessi, anche se sullo sfondo di un patrimonio etico e giuridico comune. Esiste quindi oggi, come sempre in passato, un problema di compatibilità tra i valori che ispirano la convivenza negli Stati presenti nelle grandi aree di civiltà nelle quali si suddivide il genere umano.
 
Lo Stato come arbitro neutrale.
 
In ogni caso, rimane il fatto che gli Stati storici possono sussistere soltanto in quanto si pongono come garanti dell’affermazione di alcuni valori fondamentali che informano la convivenza al loro interno, cioè in quanto sono istituzionalizzazioni di sistemi di valori. Peraltro, il carattere necessario del legame tra Stato e valori è negata da una intera tradizione culturale che ha il suo capostipite in Max Weber. Secondo Weber la caratteristica dello Stato moderno è quello di fondarsi su di una legittimazione razionale, costituita dal fatto che il consenso dei cittadini nei confronti delle decisioni del potere ha come sua unica motivazione la circostanza che queste decisioni sono prese da una classe politica e da una burocrazia organizzate secondo regole.[28] Questa teoria è stata affinata da Niklas Luhmann, che individua nella procedura il fondamento della legittimazione delle decisioni politiche, amministrative e giudiziarie dello Stato moderno.[29] Si tratta, secondo Luhmann, del risultato di un processo che ha come motore la positivizzazione del diritto, resa indispensabile dalla crescente complessità dei rapporti sociali, e dalla conseguente impossibilità di giustificare ogni singola norma e ogni singola decisione con il riferimento ai valori condivisi dalla comunità. La procedura ha la funzione esclusiva di ridurre la complessità fornendo un criterio puramente formale per verificare la legittimità di una norma e quindi di consentire al potere e ai cittadini di orientarsi in un mondo che, a causa dell’infinita varietà degli interessi, delle pulsioni e dei rapporti che in esso si manifestano e si coagulano, diventerebbe ingovernabile. Nello stesso filone, anche se in modo più sfumato, si colloca Habermas[30] che, nell’analizzare quella che chiama la «costellazione postnazionale» e in particolare il processo di unificazione europea, tende ad ascrivere l’identificazione dello Stato con un sistema di valori ad una forma storica particolare di Stato, lo Stato nazionale: e a considerare le forme di aggregazione politica che oggi stanno nascendo e che vanno al di là dello Stato nazionale (le quali pur sembrano dover assumere per Harbermas un carattere statuale esse stesse, quantomeno nel caso dell’Europa) come sedi neutrali di arbitrato tra concezioni della vita sociale ispirate a diversi sistemi di valori, che invece rimarrebbero ancorati agli Stati nazionali.
 
I valori e la costituzione.
 
Queste teorie lasciano evidentemente aperti grossi interrogativi. In particolare, il problema che rimane irrisolto è quello di stabilire in forza di quali criteri si giustificano agli occhi degli uomini che le devono legittimare con il loro consenso le regole di Max Weber e le procedure di Luhmann e a quali principi lo Stato-arbitro di Habermas si deve ispirare nel formulare le norme in base alle quali dirimere i conflitti tra pretese che discendono da valori contrastanti. La verità è che i valori, cacciati dalla porta, rientrano dalla finestra. Ciò che i teorici del distacco dello Stato dai valori non vedono è la differenza che esiste tra, da una parte, la cornice delle regole costituzionali, che sono volute dal popolo nei momenti costituenti e sono sostenute dal suo tacito consenso nei momenti normali (e che sono volute e sostenute perché esprimono una concezione della convivenza civile ispirata a certi valori) e, dall’altra, le norme varate e le decisioni prese dagli organi dello Stato nelle fasi normali (che sono accettate non necessariamente perché sono giuste o corrette in sé stesse, o perché realizzano determinati valori, ma perché provengono da un’autorità legittima, che fonda la propria legittimità sulla costituzione).
 
Valori primari e valori secondari.
 
Si ritorna così alla constatazione che lo Stato non è mai neutrale, ma esprime la condivisione da parte del popolo di alcuni valori fondamentali. Il progetto di unificazione dell’Europa, per esempio, è realizzabile perché gli Europei condividono alcuni valori e perché questa condivisione costituisce la condizione di possibilità della loro unione in un unico popolo. Al di là di questi valori condivisi da (quasi) tutti, la vita della società civile viene arricchita dal confronto tra altri valori e modelli di comportamento, tra loro diversi, che hanno la loro matrice nelle nazioni tradizionali o in altre forme di aggregazione. Ma questo confronto — che può diventare contrapposizione — non diventa un fattore di disgregazione dello Stato soltanto se quei valori e quei modelli di comportamento sono secondari, e come tali sono riconosciuti da (quasi) tutti, nella misura in cui (quasi) tutti accettano che i conflitti che la loro diversità provoca vengano risolti sulla base di norme che si ispirano ai valori primari che (quasi) tutti condividono e che sono garantiti dallo Stato nell’esercizio della sua sovranità.
 
Il multiculturalismo.
 
Il problema che mette in evidenza Habermas con riferimento allo Stato (o costellazione) postnazionale si ripropone in termini ben più acuti con riferimento al fenomeno del multiculturalismo, che non è la conseguenza di un’unificazione tra Stati nazionali con un patrimonio culturale pluralistico ma sostanzialmente comune, bensì della migrazione di gruppi umani di grandi dimensioni in contesti culturali radicalmente diversi da quelli d’origine. Da quanto si è detto in precedenza discende che anche di fronte a questo fenomeno un atteggiamento progressivo non si può e non si deve basare su di una concezione neutrale dello Stato, come se fosse possibile mettere tra parentesi o dimenticare il fatto che certe pratiche e certe tradizioni — che hanno un senso in altri contesti politico-culturali — sono incompatibili con i principi fondamentali su cui si basa la convivenza civile nei paesi di accoglienza. La verità è che la finzione della «neutralità» dello Stato ne maschera soltanto l’ipocrisia. I gruppi culturalmente diversi vengono ghettizzati e lasciati vivere a condizione che formino piccole società isolate all’interno delle più grandi società che li ospitano, nel nome — che Kant chiamava «altezzoso» — della tolleranza. Questa concezione della società multiculturale, nella misura in cui il fenomeno si espande, è destinata a minare le basi stesse dello Stato, perché recide il legame che esiste tra le istituzioni ed una comunità tenuta insieme da una comune concezione della convivenza. Il solo modo di affrontare il problema è quello di integrare il valore della tolleranza con quelli del dialogo e della solidarietà in vista del superamento di ogni contrapposizione tra i modelli fondamentali di convivenza che ispirano le varie comunità all’interno dello Stato (il che non presuppone affatto che le culture dei gruppi immigrati non possano dare importanti contributi all’evoluzione di quelle delle società ospitanti). Certo la tolleranza rimane comunque essenziale come valore provvisorio, che garantisce che il contatto tra le culture non dia luogo a fenomeni di violenza razzista: ma essa non deve mascherare il disinteresse dei privilegiati nei confronti dei diseredati, né giustificare, da parte dello Stato, atteggiamenti permissivi incompatibili con le esigenze della propria sopravvivenza.[31]
 
L’identità.
 
La marcia del genere umano verso la propria unità nel quadro di una Federazione mondiale presuppone non certo la giustapposizione di opposte culture che si ignorino reciprocamente all’ombra di un potere asettico e neutrale, ma la progressiva formazione, attraverso il confronto, talvolta traumatico, tra di esse, di un unico sistema di valori che fondi la convivenza dell’intera umanità in un unico quadro statale e che consenta a ciascuno di vedere concretamente in ognuno degli individui di cui si compone il genere umano, dovunque esso risieda, un concittadino con il quale si possa e si debba lavorare per la costruzione di una società che sia migliore per tutti. In questa prospettiva emerge l’ambiguità del concetto di identità, che accentua invece la molteplicità e la contrapposizione delle culture mettendo tra parentesi la vocazione universale della cultura intesa nel senso alto della parola. Non si vuole con questo negare che l’esistenza di una pluralità di lingue, dialetti, stili architettonici ed artistici, tradizioni culinarie, manifestazioni folkloristiche, ecc. sia importante e dia significato al concetto di identità. Ma questo ovvio riconoscimento non deve far dimenticare che il progresso della civiltà, cioè dell’emancipazione umana, coincide con la nascita progressiva di una comunità di comunicazione universale, grazie alla quale gli uomini ricorrano al dialogo e ad una comune idea di giustizia, anziché alla violenza, per la soluzione delle loro controversie. Le identità quindi,sulle quali oggi tanto si pone l’accento perché in esse si crede di individuare degli strumenti di difesa contro la omogeneizzazione che il processo di globalizzazione porta con sé, devono rigorosamente passare in secondo piano rispetto ai valori che fondano l’esistenza del popolo sovrano e, in prospettiva, a quelli che fonderanno in futuro il sentimento di appartenenza al genere umano in quanto tale. Esse quindi devono essere considerate fattori di arricchimento della convivenza soltanto nella misura in cui: a) non acquistino un’importanza tale nel sentimento di identificazione di gruppo da ostacolare la diffusione in ambiti sempre più ampi di sistemi di valori comuni e di veicoli linguistici che favoriscano la loro condivisione (fino a giungere ad un unico sistema di valori fondamentali e ad una lingua di comunicazione universale), b) non rendano impossibile o difficile il cambiamento di patria in un mondo nel quale l’interdipendenza cresce continuamente e nel quale la vita delle persone deve potersi svolgere in più luoghi diversi senza che nessuno debba mai sentirsi straniero in alcuno di essi e c) non soffochino il libero sviluppo e la piena espressione della personalità individuale, che è la sede ultima dell’autonomia morale e della creatività.
Vale anche la pena di ricordare che le cosiddette «identità culturali» non sono certo gli unici vettori del pluralismo nella convivenza civile, che è tanto importante come presidio della democrazia. Il pluralismo è pienamente compatibile con la condivisione di uno stesso sistema di valori fondamentali e di uno stesso strumento di comunicazione. Esso viene fatto vivere dalla diversità dei problemi e dei compiti che la diversità delle risorse e della conformazione del territorio pone alle diverse comunità umane, di dimensione nazionale, regionale e locale, e che devono essere affrontati da ciascuna di esse con strumenti e con strategie diverse, anche se in vista del perseguimento degli stessi valori e senza pregiudicare, con chiusure ed esclusioni artificiose e provinciali, la comunicazione e la collaborazione reciproca.[32]
 
 
Appendice metodologica
 
Il concetto che corrisponde al termine «sovranità», come molti altri del linguaggio politico-giuridico, non è la semplice fedele riproduzione di fatti «obiettivi», né il risultato di un processo di generalizzazione a partire da una serie di fenomeni che si presentano nella realtà storico-sociale. Essa è piuttosto, in prima approssimazione, un tipo ideale nel senso di Max Weber, cioè una costruzione teorica che lo stesso Max Weber definisce «utopica» e che, nelle sue parole, risulta dall’«accentuazione unilaterale di uno o più punti di vista e dalla riunione in una rappresentazione unitaria di una serie di fenomeni particolari, presenti nella realtà in modo diffuso e differenziato, talora più, talora meno frequentemente, e in qualche caso del tutto assenti, e che si adeguano a quei punti di vista unilateralmente accentuati».[33] La funzione del tipo ideale quindi è quella di fungere da criterio di selezione di quegli aspetti della realtà che si ritengono rilevanti per la comprensione di un evento, di un’ideologia o di un’istituzione. Ogni individualità storica è infatti infinitamente complessa, il che ne renderebbe impossibile la comprensione se non si disponesse di uno strumento concettuale capace di isolare in essa un numero finito di connotazioni rilevanti rispetto all’interesse di colui che si propone di comprenderla. Queste costruzioni teoriche possono avvicinarsi più o meno alla realtà concreta dell’oggetto dell’indagine e talvolta se ne possono ampiamente discostare. Ma ciò non compromette la loro utilità conoscitiva, che è quella di fungere da modelli ai quali confrontare i fenomeni storici concreti per collocarli in uno schema concettuale coerente, che ne consenta la comprensione. Il tentativo di comprendere la natura della sovranità ci può portare quindi, come ci ha di fatto portato, alla conclusione che la sovranità non è mai esistita nella storia se non in forme imperfette, e che, fino a tempi relativamente recenti, essa è esistita soltanto in embrione, senza che questo sminuisca per nulla l’utilità dell’indagine.
Ma il concetto di tipo ideale in realtà serve soltanto in prima approssimazione. Esso infatti, nel significato che gli dà Max Weber, è unicamente un criterio di interpretazione della realtà (in quanto tale presente soltanto nella mente dello storico o dello scienziato sociale) e quindi si fonda sul presupposto che la realtà storica non abbia un senso in sé stessa ma possa riceverne uno soltanto da chi la studia. Va da sé che Max Weber è perfettamente consapevole del fatto che a molti tipi ideali corrispondono nella realtà storica idealità che motivano il comportamento degli uomini. Così come egli è perfettamente consapevole del fatto che i valori di colui che si propone di comprendere la realtà storica sono parte integrante del processo di comprensione in quanto determinano la scelta dell’oggetto dell’indagine e il modo in cui viene elaborato il tipo ideale. Ciononostante il suo ideale di oggettività della scienza lo induce a mantenere una separazione radicale tra soggetto e oggetto dell’indagine e a porre il primo al di fuori del processo storico. I valori di colui che indaga sono quindi il risultato di una sua scelta, in ultima analisi arbitraria, mentre quelli degli attori del processo sono accessibili soltanto ad una indagine di natura non logica — che investirebbe la loro validità — ma psicologica, che investe soltanto la loro «fatticità».
Ma in realtà la contrapposizione irriducibile di Max Weber tra soggetto e oggetto non regge. L’arbitrio del soggetto nella scelta dei valori che guidano la sua ricerca sfocia necessariamente nell’arbitrio della conoscenza, cioè nella dissoluzione del concetto stesso di verità. Nella realtà storica soggetto e oggetto si collocano nello stesso mondo, e sono legati da una continuità di senso, nella quale chi viene dopo continua verso nuovi orizzonti, ma mantenendo, anche se a prezzo di cadute e di sviamenti, la stessa direzione generale di marcia, il percorso di chi era venuto prima, e nella quale l’azione, in quanto dotata di senso, è sempre anche comprensione e la comprensione, in quanto avvenimento, è sempre anche azione. E l’accettazione della continuità del senso della storia implica il riconoscimento del carattere cumulativo dello sviluppo della cultura (intesa nel suo senso più ampio), anche se questo riconoscimento non deve certo sfociare nel ritorno ad un’ingenua concezione ottocentesca della storia come progresso lineare, nel quale lo stesso male radicale viene gradualmente superato grazie all’affinamento della civiltà. Chi riflette sulla storia avendo alle spalle le spaventose vicende che hanno funestato il XX secolo non può non riconoscere il carattere dialettico del processo storico e l’ingombrante presenza in esso della violenza e dell’oppressione dell’uomo sull’uomo. Ma questo riconoscimento non è incompatibile con la concezione della storia come cammino — certo faticoso e irto di ostacoli — del genere umano verso qualche forma di unità. La diversità tra i valori che motivano i comportamenti e le riflessioni degli uomini è il risultato del diverso condizionamento al quale questi sono stati sottoposti dalle circostanze storiche: ma quei valori, nella loro diversità, sono comunque l’espressione di un unico orientamento che è presente in nuce nell’uomo fin dalla sua comparsa sul pianeta e che è destinato ad emergere esplicitamente e consapevolmente come sistema di valori universali nel momento in cui le circostanze avranno fatto cadere le barriere materiali (tecnologiche, economiche, sociali e istituzionali) che hanno ostacolato e ostacolano la libera circolazione delle idee e la comprensione reciproca. Questa concezione della storia comporta il rifiuto del politeismo weberiano, in quanto essa postula che lo storico, se vuol giungere ad una selezione corretta e ad una comprensione profonda dei fatti del passato, deve mettersi all’ascolto, cogliere il messaggio che gli è stato destinato da coloro che lo hanno preceduto — pur scontando la sua indeterminatezza e le sue ambiguità — e su questa base articolare le opzioni di valore che guideranno la sua ricerca. Ciò non significa certo affermare che esiste oggi la possibilità di dimostrare la superiorità obiettiva di certi valori nei confronti di altri né, a fortiori, che sia lecito imporne l’adozione. Ma comporta il dovere di rifiutare l’atteggiamento della disinvoltura, e quindi di respingere la tentazione di considerare la scelta dei propri valori-guida come totalmente arbitraria e come tale sottratta alla discussione. Soltanto in questo modo è possibile superare il relativismo etico e conoscitivo e ricuperare l’idea dell’esistenza di una morale e di una verità, seppur nella consapevolezza che nessuno possiede il monopolio né dell’una né dell’altra.
Questo orientamento filosofico-storico non rimane senza conseguenze sulla natura di alcune importanti categorie delle scienze storico-sociali. Si tratta di quelle che (come democrazia, federalismo, sovranità) denotano insieme un complesso di fatti e un valore, e che perdono qualsiasi efficacia esplicativa nel momento stesso in cui il loro aspetto di valore viene obliterato. E ciò accade perché quella che esse denotano è una realtà in movimento, che realizza progressivamente il valore che le è intrinseco e che costituisce il motore del suo sviluppo. Essa quindi non può essere capita se si espunge quel valore dal suo concetto.
Da tutto ciò consegue che, per idee come quella di sovranità, il ricorso al tipo ideale weberiano, utile in prima approssimazione, deve essere sostituito, ai fini di una loro più profonda comprensione, dal ricorso ad uno strumento più adeguato, cioè all’idea della ragione kantiana.[34] L’idea kantiana, come il tipo ideale di Max Weber, è un modello, che non trova alcuna esatta corrispondenza nella realtà. Ma, mentre nel tipo ideale weberiano il modello è creato de toutes pièces dal soggetto che studia la realtà storico-sociale, nell’idea kantiana esso è presente come ideale all’interno della realtà stessa. Ciò comporta che soggetto e oggetto dell’indagine storico-sociale sono legati da una intrinseca continuità di senso e fanno parte dello stesso processo. Il contenuto dell’idea kantiana non dipende da una scelta di valore soggettiva, e quindi arbitraria, dello storico o dello scienziato sociale, ma corrisponde a obiettive linee di tendenza presenti nella società, di cui lo storico o lo scienziato sociale sono a loro volta una manifestazione, e che essi devono comunque cercare di capire. Essa quindi tende, anche se asintoticamente, verso la propria realizzazione nel corso del processo storico in forza della tensione tra l’imperfezione della realtà e la consapevolezza, presente in modo implicito o esplicito anche nella mente degli attori, della distanza che separa la realtà dai valori, che sono insieme quelli degli attori stessi e quelli di chi si propone di comprenderne l’operato. L’idea kantiana non è soltanto un arbitrario termine di paragone con il quale confrontare i fenomeni della realtà storico-sociale, ma costituisce l’ideale intrinseco verso il quale i fenomeni della realtà storico-sociale spontaneamente evolvono e che essi realizzeranno nel momento ideale della fine della storia. In questo modo vengono superati insieme il carattere arbitrario delle opzioni di valore dello storico o dello scienziato sociale — che si devono porre in sintonia con quelle degli attori del processo — e il carattere puramente «fattuale» o «oggettivo» di queste ultime, che invece possono e debbono essere esaminate, per essere comprese, anche sotto il profilo della loro validità, cioè della loro maggiore o minore prossimità all’ideale.


* Questo scritto è un’integrazione di un precedente saggio, pubblicato nel n. 3/1995 di questa rivista con il titolo «La sovranità e il popolo federale mondiale come suo soggetto», alla cui bibliografia si fa riferimento.
[1] Per un’ampia analisi degli elementi costitutivi del potere si veda la classica opera di Hans J. Morgenthau, Politics among Nations. The Struggle for Power and Peace (Brief Edition, revised by Kenneth W.Thompson), 7a ed., New York, 1993, pp. 124 e segg.
[2] In uno scritto sulla sovranità ci si potrebbe aspettare che la definizione dell’oggetto dell’analisi venisse data alla fine e non all’inizio. Ma in realtà l’obiettivo di questo scritto non è la definizione della sovranità. La definizione della sovranità come potere di decidere in ultima istanza o, alternativamente, come controllo di un potere irresistibile viene data per acquisita, anche se nella piena consapevolezza che essa non sarebbe accettata da una parte della dottrina. Va da sé peraltro che si tratta di una definizione non arbitraria, in quanto essa viene comunque condivisa da una parte della stessa dottrina ed è sostituibile al termine «sovranità» in molti dei contesti nei quali questo viene usato nel linguaggio politico e giuridico. Su questa base l’obiettivo dell’indagine è quello della verifica delle conseguenze di un uso il più possibile rigoroso del termine, nella definizione che se ne dà all’inizio dello scritto, della formulazione corretta delle espressioni nelle quali esso viene comunemente impiegato e del significato dei termini che ad esso sono correlati.
[3] Si veda a questo proposito il libro sempre attuale di Bertrand de Jouvenel, De La souveraineté. A la recherche du bien politique, Parigi, 1955.
[4] Francis Fukuyama, The End of History and the Last Man, New York, 1992. La letteratura su questo argomento è ormai sterminata. Citiamo soltanto, a titolo di esempio, il breve ma chiarissimo saggio di Jean-Marie Guéhenno, La fin de la démocratie, Parigi, 1993. A proposito della presunta scomparsa della sovranità e del potere nei rapporti internazionali, si veda, tra gli altri, Robert Cooper, The Post-Modern State and the World Order, Londra, 1996, che divide gli Stati esistenti nel mondo di oggi in tre categorie, dipendenti grosso modo dal loro grado di sviluppo tecnologico, economico e civile: gli Stati pre-moderni, che non hanno ancora raggiunto una piena soggettività politica, e che sono caratterizzati da divisioni tribali e comunque da profonde lacerazioni interne; gli Stati moderni, che hanno raggiunto lo stadio della sovranità e che agiscono sulla base dei dettami della ragion di Stato tradizionale; e gli Stati post-moderni, che hanno superato i condizionamenti della ragion di Stato tradizionale e del potere e che hanno instaurato tra di loro un tipo di rapporti fondato sulla collaborazione e sulla ragionevole mediazione tra i loro interessi. Si noti che Cooper deve prendere atto del fatto che gli Stati Uniti, in quanto potenza egemonica mondiale, costituiscono un’eccezione in questo quadro, in quanto essi devono essere fatti rientrare nella categoria degli Stati moderni, pur avendo raggiunto un elevatissimo livello di sviluppo. Nel campo della letteratura internazionalistica si veda il volume di Bertrand Badie, Un monde sans souveraineté, Parigi, 1999, che sostiene la tesi, peraltro ormai ripetuta a sazietà da innumerevoli osservatori del mondo contemporaneo, secondo la quale lo Stato non è più il protagonista esclusivo dei rapporti internazionali in quanto il suo ruolo è svolto in un numero crescente di occasioni da organizzazioni internazionali e da organizzazioni non governative. Badie sostiene anche che nel mondo post-bipolare il potere viene progressivamente sostituito dalla responsabilità, contrapponendo così due motivazioni del comportamento degli uomini e degli Stati che nella realtà sono inestricabilmente connesse in quanto l’esercizio del potere, sia nei rapporti interni che nei rapporti internazionali, è insieme esercizio di responsabilità.
Per l’analisi di questi problemi in una prospettiva federalista si veda su questa rivista Luisa Trumellini, «Interdipendenza globale e crisi della sovranità», Anno XLII (2000) pp. 126 e segg., Nicoletta Mosconi, «La crisi degli Stati come criterio di giudizio storico e politico», Anno XLII (2000), pp. 191 e segg., nonché, in un contesto più vasto, il saggio di Sergio Pistone «La ragion di Stato, la pace e la strategia federalista», Anno XLIII (2001), pp. 10 e segg. In un’ottica federalista mondiale si veda, sempre su questa rivista, il saggio di Lucio Levi dal titolo «L’unificazione del mondo come progetto e come processo. Il ruolo dell’Europa», pubblicato a pagina 150 dell’anno XLI (1999).
[5] Questo problema è uno degli oggetti principali della riflessione di Carl Schmitt. Esso è stata ripreso recentemente con esemplare chiarezza, anche se la soluzione proposta rimane ambigua, da Ernst-Wolfgang Böckenförde, per esempio nel saggio «Begriff und Probleme des Verfassungsstaates», in Staat, Nation, Europa, Francoforte s.M., 1999.
[6] La teoria della sovranità popolare ha radici assai lontane. Le sue formulazioni classiche sono quelle di Rousseau e dell’abate di Siéyès. Ma nei due secoli precedenti il riferimento al popolo era affiorato negli scritti dei cosiddetti Monarcomachi, sia Calvinisti, come l’autore delle Vindiciae contra tyrannos, che Gesuiti, anche se si trattava di scritti strumentali rispetto alle dispute religiose dell’epoca, e che avevano come scopo quello di mettere in discussione, ricorrendo all’idea della violazione di un patto tra popolo e monarca (il quale ultimo peraltro continuava a derivare il proprio potere da Dio, anche se in modo condizionato), la legittimità di quelle monarchie che imponevano credenze e pratiche che i Calvinisti o i Gesuiti giudicavano eretiche. Nella stessa ottica l’idea è riaffiorata nell’Inghilterra del XVII secolo. Si vedano a questo proposito alcuni degli scritti contenuti nei due volumi curati da Joyce Lee Malcolm, dal titolo The Struggle for Sovereignty. Seventeenth-Century English Political Tracts, Indianapolis, 1999.
[7] E’ opportuno sottolineare che il possesso di un potere irresistibile viene da molti identificato con il controllo dell’esercito (o del potere di reclutarlo in caso di necessità). Questa identificazione può costituire un’utile approssimazione alla realtà nelle situazioni normali. Ma anche l’esercito è un’istituzione, la cui lealtà e disciplina dipendono dall’esistenza di un grado sufficiente di consenso, che spesso viene a mancare nelle situazioni di crisi. Il che rinvia ancora una volta al popolo.
[8] Il nesso tra ordinamento giuridico e sovranità è negato da H.L.A. Hart nella sua classica opera The Concept of Law, Oxford, 1a ed. 1961, 2a ed. completata con un poscritto 1994. Hart impernia la sua teoria del diritto sulla constatazione che ogni ordinamento comprende due categorie di norme: le norme primarie, che si rivolgono direttamente ai cittadini, imponendo loro determinati comportamenti od omissioni, e le norme secondarie, che regolano la struttura e il funzionamento delle istituzioni che producono e applicano le norme (norme di procedura e, in ultima analisi, norme costituzionali). Secondo Hart l’identificazione della norma giuridica con un ordine fatto valere attraverso la minaccia di sanzioni, che si potrebbe, anche se imperfettamente, applicare alle norme primarie, è invece incompatibile con le norme secondarie, che non prevedono sanzioni. Questa distinzione, secondo Hart, mostrerebbe il carattere fittizio del problema della sovranità, che presupporrebbe in ipotesi la necessità di una singola autorità che disponesse del potere di applicare in ultima istanza le sanzioni. Hart è però costretto, per non cadere nel puro formalismo giuridico, a concedere che l’ordinamento, con particolare riferimento alle norme secondarie, deve essere «generalmente accettato», cioè basarsi sul consenso delle istituzioni e dei cittadini. Ma questa ammissione non porta Hart a concludere che il fondamento dell’ordinamento giuridico è la sovranità popolare, anche se egli giunge a porsi il problema, seppure di passaggio. Esaminando la circostanza che nessuna istituzione può considerarsi sovrana perché nessuna istituzione, ivi compreso l’elettorato, è sottratta a regole che ne limitano la sfera d’azione, Hart conclude (p. 78): «Dobbiamo dire a questo punto che è la società nel suo complesso (il popolo nel nostro contesto n.d.a.) ad essere sovrana e che queste limitazioni legali (quelle imposte alla sfera d’azione delle istituzioni n.d.a.) sono state tacitamente ordinate da essa, in quanto non si è ribellata contro di loro? Il fatto che questa affermazione annullerebbe la distinzione tra rivoluzione e legislazione è forse una ragione sufficiente per respingerla». Per Hart quindi, che peraltro rifiuta l’esistenza di qualsiasi nesso necessario tra diritto e morale, il fondamento di ogni ordinamento giuridico è puramente formale. Esso coincide con l’insieme delle norme secondarie che ne fanno parte, le quali, a loro volta, non hanno alcun fondamento di legittimità, ma cadono dal cielo. E ogni cesura rivoluzionaria che si produca storicamente tra due ordinamenti giuridici successivi è del tutto estranea alla sfera del diritto.
Questa posizione è il riflesso di una implicita visione conservatrice della storia, che rifiuta qualunque concezione evolutiva del diritto e si limita a porre il problema dei criteri formali in base ai quali si è legittimati a dire, nei singoli casi concreti, se ci si trova o meno di fronte ad un ordinamento giuridico. La teoria di Hart può essere confutata soltanto contrapponendo a questa visione conservatrice una visione filosofico-storica «progressiva», sulla quale si ritornerà nel prosieguo di questo scritto, in forza della quale il diritto tende a realizzare la propria idea, e quindi a perfezionarsi, nel corso dello sviluppo storico. Adottando quest’ultima prospettiva, la rivoluzione, che Hart si rifiuta persino di prendere in considerazione, si identifica con l’esercizio del potere costituente del popolo, cioè con l’affermazione dei principi fondamentali di un ordinamento giuridico che un sistema istituzionale ormai superato dall’evoluzione della convivenza civile non è più in grado di far valere, e quindi svuota del suo contenuto originario; mentre il consenso che sorregge l’ordinamento nelle successive fasi di equilibrio non è che la prosecuzione di una volontà costituente che ha ormai raggiunto il suo obiettivo. La rivoluzione è quindi la madre del diritto.
[9] L’idea di dualist democracy, cioè la sottolineatura del carattere essenziale della differenza tra le decisioni — di natura costituzionale — prese dal popolo e quelle prese dal governo (nel senso anglosassone del complesso delle istituzioni di uno Stato) costituisce il punto di partenza della riflessione di Bruce Ackermann nel suo bellissimo volume We the People. Foundations, Cambridge, Mass./Londra, 1991.
[10] Numerosi riferimenti storici a questo proposito si trovano nella citata opera di Bertrand de Jouvenel, alle pp. 252 e segg.
[11] Questa tesi è stata ripetutamente usata da uomini politici come Tony Blair e Giuliano Amato. Nella letteratura si è espresso in questo senso, tra gli altri, Ernst-Wolfgang Böckenförde, «Welchen Weg geht Europa?», op. cit., pp. 68 e segg.
[12] Si veda per esempio il recente volume di Jean-Marc Ferry, La question de l’Etat Européen, Parigi, 2000, pp. 43 e segg.
[13] Questa affermazione comporta la conseguenza che il motore dell’evoluzione storica dello Stato non è costituito dalla sua incompleta coincidenza con il popolo, e quindi dalla formazione di successive contraddizioni tra gli Stati storici e i popoli che ad essi corrispondono, bensì dal fatto che le figure storiche che vengono assunte sia dallo Stato che dal popolo non coincidono con i rispettivi concetti, che sono, come si vedrà meglio in seguito, quelli di Stato universale e di popolo universale. Il fattore che genera l’evoluzione storica dello Stato, e che è stato all’origine delle successive trasformazioni che hanno portato dalla città-Stato greca alla democrazia continentale americana, è quindi il fatto che, in determinate circostanze, la contraddizione tra una specifica forma di Stato (e di popolo) e il concetto puro di Stato (e di popolo) diventa acuta e consapevole e dà luogo alle vicende che determinano la nascita di una nuova forma di Stato, che continua a non coincidere con il concetto puro di Stato, ma vi si avvicina di un passo. Ciò non toglie che, prima della nascita di un nuovo Stato (e di un nuovo popolo), l’evoluzione dei rapporti di produzione, della situazione di potere, della capacità delle istituzioni di rispondere ai bisogni primari dei cittadini, ecc. ne creino progressivamente le condizioni. Rimane però il fatto che un nuovo popolo nasce nel momento in cui prende coscienza della necessità della nascita di un nuovo Stato, e che un nuovo Stato nasce per il solo fatto di questa presa di coscienza, che in quanto tale deve essere accuratamente distinta dalle condizioni materiali che la rendono possibile.
[14] Per una discussione più approfondita del «diritto» di secessione v. su questa rivista, Nicoletta Mosconi, «Il diritto di secessione», Anno XXXVII (1995), pp. 40 e segg.
[15] Sul modo in cui si è andata delineando la contrapposizione tra federazione e confederazione nel dibattito costituzionale americano che ha accompagnato e seguito la Convenzione di Filadelfia, v. su questa rivista il saggio di Franco Spoltore, «Il dibattito tra federalisti e antifederalisti americani dal 1787 al 1800 e la sua attualità», Anno XLII (2000), pp. 162 e segg.
[16] Sull’idea di popolo prima e al di sopra della costituzione vedi Carl Schmitt, Verfassungslehre, cit., pp. 238 e segg.
[17] La teoria della sovranità popolare, riferita ai momenti costituenti e al consenso nei confronti della costituzione, è quindi perfettamente compatibile con la classica critica della democrazia di Schumpeter (in Capitalism, Socialism and Democracy, Londra, 5a ed. 1974), o con la sua identificazione con l’idea di poliarchia, elaborata da Dahl in tutta la sua opera.
[18] Per dare un inquadramento generale dell’approccio a questo problema è essenziale il saggio di Mario Albertini, «La Politica», in Il Federalista, II (1960), oggi ripubblicato in Una rivoluzione pacifica. Dalle nazioni all’Europa, Bologna, 1999. Di estremo interesse è anche l’analisi che in questa ottica fa della storia costituzionale degli Stati Uniti Bruce Ackermann nell’opera precedentemente citata.
[19] Si veda a questo proposito il volume di Stephen D. Krasner, Sovereignty. Organized Hypocrisy, Princeton, 1999.
[20] Non è necessario in questa sede richiamare la ricchissima letteratura sull’idea di nazione. Basti ricordare che nella cultura federalista il riferimento fondamentale rimane il classico volume di Mario Albertini, Lo Stato nazionale, Milano, 1960. Michael Walzer fa a questo proposito una distinzione tra appartenenza politica e appartenenza culturale, che applica ai cittadini americani, in particolare a quelli di provenienza non britannica (v. What means to be an American. Essays on the American Experience, New York, 1996), sostenendo che il sentimento di una comune appartenenza politica è sufficiente a definire una specifica identità americana. Si tratta di un problema che sarà esaminato in modo più approfondito nella terza parte di questo scritto. E’ bene però sottolineare fin d’ora che il sentimento di appartenenza politica non può essere un lealismo fondato sul nulla, ma è il risultato della comune accettazione di un certo tipo di convivenza, cioè di certi valori i quali, in quanto garantiscono l’unità della comunità politica, prevalgono su quelli che definiscono una «cultura». Infatti, nell’ipotesi di conflitto tra questi ultimi, chi si riconosce in alcuni di essi deve essere pronto a rinunciarvi in nome dell’esigenza superiore della salvaguardia della convivenza, e quindi dei valori che la ispirano. Il venir meno di questa gerarchia significherebbe l’instaurazione di uno stato di virtuale guerra civile.
[21] Cfr. Carl Schmitt, Der Begriff des Politischen, Berlino, 1932.
[22] Si veda per esempio la classica trattazione di Hermann Heller, in Staatslehre, Leida, 1934, alle pp. 245 e segg. della 6a edizione (Tübingen, 1983).
[23] Il problema dell’incompatibilità della sovranità con l’idea di impero è trattata da Bertrand Badie, op.cit., pp. 28 e segg.
[24] Si deve notare che tutto ciò comporta, tra l’altro, la negazione della distinzione che si fa comunemente tra sovranità interna e sovranità esterna (quest’ultima fondata sul riconoscimento da parte della comunità internazionale)come se si trattasse di due prerogative nettamente distinte. Il riconoscimento di uno Stato da parte della comunità internazionale coincide di norma con il riconoscimento dell’esistenza di una entità relativamente autonoma, e quindi dotata di un grado di sovranità tout court, e comunque non ne costituisce un presupposto, se non nella prospettiva puramente formale del diritto internazionale. Nessuno potrebbe credibilmente sostenere che la Cina Popolare, prima del suo riconoscimento da parte di una larga parte della comunità internazionale, non fosse uno Stato sovrano. Si può quindi ragionevolmente sostenere che la sovranità è sempre soltanto interna, e che i rapporti internazionali impongono ai vari Stati diversi gradi di limitazione di essa. Ed è per questa ragione che la sovranità si potrà esprimere nella pienezza delle sue determinazioni soltanto quando la dimensione internazionale della politica verrà superata e nascerà un popolo mondiale pienamente autonomo. Vedi a questo proposito le pp. 209 e segg. del classico volume di C. E. Merriam, Jr., History of the Theory of Sovereignty since Rousseau, New York, 1900, ristampato nel 1968. Vedi anche la citata opera di Krasner.
[25] V. a questo proposito John S. Searle, The Construction of Social Reality, New York, 1995, particolarmente alle pp. 90 e segg. e 115 e segg.
[26] Cfr. Colonial Origins of the American Constitution. A Documentary History, edited and with an introductory essay by Donald S. Lutz, Indianapolis, 198. Vedi anche, in questa rivista, Lorenzo Petrosillo, Elio Smedile, «Alla ricerca delle origini del federalismo moderno: il Covenant nell’esperienza storica americana», Anno XXXVIII (1996), pp. 191 e segg.
[27] Nella prospettiva strettamente analoga del diritto penale, questo tema è trattato da Otfried Höffe, Gibt es ein interkulturelles Strafrecht? Ein philosophisches Versuch, Francoforte s.M., 1999.
[28] V. in particolare il cap. III della prima parte di Wirtschaft und Gesellschaft, Tübingen, 5a ed. 1976, ed inoltre «Die drei reinen Typen der legitimen Herrschaft» e «Soziologische Grundbegriffe» (§ 7) in Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre, Tübingen, 3a ed., 1968. Per la verità, nelle brevi note che Weber dedica a questo problema si trova anche un fuggevole accenno ad una legittimità fondata su norme «razionali rispetto ai valori» (zweckrational). In questo modo i valori vengono in qualche modo introdotti nel quadro. Ma le norme «razionali rispetto ai valori» sono per Max Weber essenzialmente quelle del diritto naturale, mentre «la forma di legittimità oggi più frequente» è quella che si fonda sulla disposizione ad ottemperare «a norme create in modo formalmente corretto e nelle forme abituali».
[29] In Legitimation durch Verfahren, Francoforte s.M., 1982.
[30] Die Postnationale Konstellation. Politische Essays, Francoforte s.M., 1998, in particolare nel saggio «Die postnationale Konstellation und die Zukunft der Demokratie».
[31] V. Nicoletta Mosconi, «Tolleranza e società multiculturale», in Il Federalista, XXXVIII (1996), pp. 208 e segg.
[32] V. su questa rivista Nicoletta Mosconi, «L’identità individuale tra ideologia e ragione», Anno XXXVI (1994), pp. 196 e segg.
[33] In «Die ‘Objektivität’ sozialwissenschaflicher und sozialpolitischer Erkenntnis», op.cit., p. 191.
[34] Per una rigorosa critica ai fondamenti della metodologia weberiana v. Eric Voegelin, The New Science of Politics, Chicago, 1952. Un’interessante, anche se appena accennata, contrapposizione tra l’approccio weberiano e quello kantiano alla conoscenza storica si trova in una delle ultime lettere che Jaspers scrisse a Hannah Arendt, nel 1968. V. Karl Jaspers/Hannah Arendt, Briefwechsel 1926-1969, Monaco, 1985 (lettera del 16 novembre 1968).

 

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