IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XLII, 2000, Numero 1, Pag. 3

 

 

L’Europa e il commercio mondiale
 
 
La fallita riunione interministeriale di Seattle, che avrebbe dovuto dare inizio alla fase dei negoziati dell’Organizzazione mondiale del commercio battezzata «Millennium Round», ha messo in vista numerose linee di frattura. Una è stata la contrapposizione tra Stati Uniti ed Europa, sui temi dell’agricoltura e delle biotecnologie. In questa disputa gli Stati Uniti si sono presentati come i paladini della libertà di commercio, mentre gli Europei hanno sostenuto, in nome della salvaguardia del territorio e della difesa della genuinità dei cibi, la necessità di non abbandonare la politica agricola comune, con tutte le distorsioni della concorrenza internazionale che essa comporta, e hanno difeso, in nome della diversità biologica e della tutela della salute, una posizione restrittiva in materia di importazione di organismi geneticamente modificati e delle relative tecnologie. Una seconda è stata quella che ha opposto i paesi industrialmente avanzati a quelli del Sud del mondo. Qui i difensori del libero commercio sono stati i governi dei paesi più poveri, mentre i paesi ricchi hanno sostenuto la necessità di imporre restrizioni alle importazioni di beni provenienti dai primi, per impedire che essi continuino ad essere prodotti a prezzo del degrado ambientale, della violazione dei diritti umani, dell’imposizione di condizioni di lavoro inaccettabili e dell’impiego di manodopera minorile. Una terza ha visto le numerosissime organizzazioni non governative presenti a Seattle scagliarsi contro la logica mercantile delle multinazionali e dei governi che le sostengono in nome della difesa e della promozione della qualità della vita nei suoi diversi aspetti.
 
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Ma non si deve per questo credere che la contrapposizione che si è prodotta a Seattle sia stata tra diversi valori e in particolare tra il valore della libertà di commercio da una parte e valori di natura non economica dall’altra. E’ un fatto che a Seattle di tutti quei valori è stato fatto un uso largamente strumentale e che il vero scontro è avvenuto tra precisi interessi materiali. Questo vale per l’Europa, il cui interesse reale era la difesa della lobby agricola, assai potente in molti degli Stati dell’Unione, e la protezione di un’industria agroalimentare fortemente svantaggiata nei confronti dell’industria americana a causa dell’arretratezza della ricerca scientifica europea nel campo delle biotecnologie. E vale ancor di più per il mondo industrializzato nel suo complesso — dal quale peraltro provenivano tutte le organizzazioni non governative e i sindacati che hanno violentemente contestato l’incontro — il cui vero scopo era quello di proteggere i propri mercati contro la concorrenza dei paesi in grado di produrre alcuni tipi di beni a bassissimo costo. A Seattle ogni governo ha sostenuto la libertà dei commerci o la limitazione della medesima a seconda delle proprie convenienze, così come esse si configuravano nei diversi contesti.
Vale del resto la pena di ricordare che i paesi ricchi che oggi, poco o tanto, tutelano valori non economici come le condizioni di lavoro, l’ambiente e i diritti umani perché le loro opinioni pubbliche sono sensibili ad essi, lo possono fare grazie al grado di sviluppo economico che essi hanno raggiunto. E che questo grado di sviluppo è stato raggiunto nel passato grazie ad uno sfruttamento dei lavoratori e delle risorse naturali del tutto paragonabile, quando non peggiore, di quello esercitato attualmente nella maggior parte dei paesi del Terzo mondo. Basti richiamare il ruolo che la schiavitù ha avuto nello sviluppo economico degli Stati Uniti d’America, o le condizioni bestiali nelle quali uomini, donne e bambini sono stati costretti a lavorare fino alla fine dell’Ottocento nelle manifatture e nelle industrie europee, o le enormi proporzioni del saccheggio delle foreste e della erosione dei suoli che sono state provocate in Europa dalla rivoluzione agricola e industriale.
Ricordare tutto ciò non significa certo non avere a cuore quei valori, che anzi vanno promossi e tutelati perché dalla loro difesa dipende il miglioramento della qualità della vita ovunque e, a lungo andare, la sopravvivenza stessa dell’umanità. Significa al contrario tenere a mente che il modo migliore per promuovere, in prospettiva, la loro tutela nei paesi che oggi sono economicamente arretrati è quello di creare le condizioni materiali e culturali perché essi escano dalla loro condizione di arretratezza. E perché ciò avvenga essi devono poter produrre ed esportare, e quindi essere inseriti in condizioni privilegiate nel circuito del commercio mondiale anziché esserne esclusi con il pretesto che, essendo poveri, non possono realizzare i valori dei ricchi. Vero è che il loro sviluppo avrà comunque costi elevati in termini umani. Ma si tratta di costi che devono sempre essere valutati mettendoli a raffronto con quelli del mancato sviluppo: ricordando per esempio che spesso le alternative al lavoro minorile sono la delinquenza, la prostituzione o la morte per fame; e quella alla violazione dei diritti umani è la disgregazione della convivenza civile e la guerra di clan. E sarebbe in ogni caso una precisa responsabilità dei paesi avanzati contribuire con le proprie risorse alla riduzione di questi costi. E’ quindi difficile dare torto a coloro che sostengono che i veri sconfitti di Seattle sono stati i poveri tra i poveri del mondo.
La verità è che a Seattle si è verificato uno scontro tra contrapposti protezionismi dei paesi ricchi. E ciò può far legittimamente ritenere che il senso profondo del clamoroso fallimento dell’incontro sia stato quello dell’inizio di una vera e propria fase di crisi del commercio mondiale.
 
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Quale può essere la causa di questa crisi? Prima di azzardare una risposta a questa domanda è bene sgombrare il campo da un diffuso pregiudizio: quello secondo il quale libertà di commercio significa deregulation. In realtà non vi potrebbe essere idea più falsa e fuorviante. Il libero commercio presuppone la creazione e il mantenimento delle condizioni della concorrenza. E queste devono essere garantite da una serie di regole, che non solo devono esistere, ma devono essere fatte osservare. Non si dimentichi che il Mercato Unico che è stato avviato in Europa il 1° gennaio 1993 — e che era stato comunque preceduto da più di quarant’anni di progressiva armonizzazione tra le economie dei paesi membri della Comunità europea — ha richiesto il varo di quasi 300 provvedimenti degli organi della Comunità per rendere possibile un grado (peraltro ancora largamente insufficiente) di libertà di commercio. Ma non è tutto. La promozione della libertà di commercio in un mercato in cui sono presenti forti differenze di sviluppo presuppone anche la messa in atto di vere e proprie politiche compensative, che attenuino i divari più drammatici con trasferimenti di ricchezza dalle aree più ricche a quelle più povere. La deregulation quindi non è affatto sinonimo di libero mercato: essa dà luogo soltanto ad un brutale confronto di potere che con la libertà non ha nulla a che fare e che arricchisce i forti e impoverisce i deboli.
Lo stesso obiettivo di rendere compatibile la libera circolazione dei beni con le esigenze della tutela dell’ambiente, dei lavoratori, del territorio e della salute rientra in questo quadro, perché il grado in cui sono soddisfatte quelle esigenze nei diversi paesi fa parte delle condizioni della concorrenza. Così come per altro verso vi rientra il problema — che a Seattle non è stato evocato — della salvaguardia e della diffusione del modello dello Stato sociale, che costituisce una delle più grandi conquiste della civiltà politica europea, e che oggi è messo in pericolo dalla diffusione della cultura della deregulation. E’ fuori di dubbio che la concorrenza internazionale in un ambiente caratterizzato da una grande interdipendenza, da un rapido progresso tecnologico e da fortissime diseguaglianze sociali rende necessaria, nei paesi industrializzati, una serie di trasformazioni e richiede agli imprenditori e ai lavoratori un sempre maggiore grado di flessibilità. Ma è anche chiaro che questa esigenza deve essere contemperata con quella opposta della sicurezza e della programmazione graduale del cambiamento. Se ciò non accade, le conseguenze di una competizione internazionale senza regole sono nefaste: esse sono il forte aumento della mobilità della mano d’opera con i fenomeni di sradicamento sociale che essa comporta, la frequenza dei fallimenti delle imprese, l’accrescimento della parte della popolazione che versa in condizioni disperate di povertà e di abbandono — e quindi la diffusione della delinquenza — la desertificazione industriale di intere città, e talvolta di intere regioni: in ultima analisi la tendenziale disgregazione del tessuto sociale. L’alternativa a questi flagelli, che peraltro costituiscono la faccia oscura dell’impressionante sviluppo economico americano, è una politica che regoli la concorrenza e guidi il progresso tecnologico in modo da renderli compatibili con un elevato grado di stabilità sociale.
Se tutto ciò è vero, se ne deve trarre la conclusione che il libero mercato si manifesta nella sua forma più vicina al modello (nel quale tutti gli operatori agiscono su di un piano di parità) là dove vigono regole più certe e dove è possibile realizzare un grado sufficientemente elevato di solidarietà, cioè all’interno dello Stato. Ma la stessa esigenza vale per i rapporti commerciali internazionali, anche se questi non possono essere disciplinati da regole aventi natura giuridica, ed anche se il grado di solidarietà che si può esprimere nei rapporti tra gli Stati è incommensurabilmente più debole di quello che si può esprimere all’interno dello Stato (il Mercato Unico europeo è un caso intermedio perché è inquadrato da una legislazione che non ha ancora carattere statale, ma è il risultato di un grado sufficientemente intenso e duraturo di collaborazione tra Stati coinvolti in un processo di unificazione). Il «mercato» internazionale può funzionare in un modo soddisfacente, e favorire l’espansione del commercio e la diffusione della ricchezza, quando il ruolo che ha lo Stato nel mercato interno viene assunto, anche se in modo infinitamente meno efficace, da una o più potenze egemoni, in grado di imporre al resto del mondo (o comunque a quella sua parte che ha un peso nel commercio internazionale) linee di condotta relativamente stabili e uniformi. Si tratta di linee di condotta che, pur non presentando, come si è detto, il carattere di norme aventi efficacia giuridica o di politiche vincolanti, danno un accettabile grado di prevedibilità ai comportamenti degli operatori. Va da sé che questi orientamenti sono imposti dalla potenza egemone — o dalle potenze egemoni — nel proprio interesse: ma ciò non toglie che la condizione fondamentale del buon funzionamento di una egemonia sia costituita dal fatto che essa venga accettata dagli Stati che la subiscono perché corrisponde in ultima analisi anche agli interessi di questi ultimi.
 
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Il commercio mondiale si è espanso nel passato quando vi è stata una singola potenza che ha assunto un ruolo egemone, come di volta in volta hanno fatto, a partire dal quindicesimo secolo, il Portogallo, la Spagna, i Paesi Bassi e la Gran Bretagna; ed ha conosciuto fasi di turbolenza e di crisi nelle fasi di transizione tra l’una e l’altra egemonia. L’ultima, e la più drammatica, di queste fasi di crisi è stata quella determinata dalla fine della leadership commerciale mondiale della Gran Bretagna, che ha coinciso con lo scoppio della prima guerra mondiale. All’epoca gli Stati Uniti non avevano ancora preso coscienza (né l’avrebbero presa fino allo scoppio della seconda guerra mondiale) delle nuove responsabilità che essi avrebbero dovuto assumersi, e si isolarono dalle vicende politiche, e in parte anche economiche, del Vecchio continente. Ciò che accadde in questa fase non ha bisogno di essere ricordato. Essa finì, alla fine della seconda guerra mondiale, con una piena assunzione di responsabilità da parte degli Stati Uniti nei confronti dell’intero Occidente, le cui conseguenze sono state cinquant’anni di grande espansione del commercio e della ricchezza nella parte industrializzata del mondo.
Oggi pare ragionevole avanzare l’ipotesi che il senso storico profondo del fallimento di Seattle sia la spia del fatto che ci troviamo difronte ad un’altra svolta, e che anche gli Stati Uniti stiano per perdere la loro posizione di motore e di regolatore del commercio mondiale. Questa affermazione può sembrare paradossale se si pensa all’elevato tasso di crescita senza inflazione dell’economia americana, ai suoi bassi livelli di disoccupazione, alla sua leadership incontrastata nei settori a tecnologia avanzata e all’andamento di Wall Street. Ma a fronte di questi dati se ne devono menzionare altri due di segno opposto. Essi sono l’enorme squilibrio della bilancia commerciale americana e il moltiplicarsi dei contenziosi commerciali con le altre aree economiche mondiali. Questi ultimi elementi suggeriscono che sono oggi visibili, nei rapporti degli Stati Uniti con il resto del mondo, tendenze di segno opposto a quelle che operavano nei primi decenni seguiti alla fine della seconda guerra mondiale, quando la bilancia commerciale statunitense era strutturalmente attiva (come, a rigor di logica, dovrebbe sempre essere la bilancia commerciale del paese la cui moneta costituisce lo strumento di pagamento più importante nelle transazioni commerciali internazionali) e i rapporti commerciali tra gli Stati Uniti ed il resto del mondo (allora del mondo occidentale) non manifestavano importanti tensioni.
A questo indebolimento del ruolo egemone dell’economia americana nel mondo corrisponde la crescente incapacità degli Stati Uniti di imporre, attraverso l’OMC, le proprie regole al commercio internazionale. E poiché nessun altro è in grado di farlo, da tutto ciò discende una crescente deregulation, cioè una sempre più evidente crisi del mercato mondiale. E’ così che rinasce il protezionismo, anche se per lo più si tratta di un protezionismo che si nasconde dietro la maschera rispettabile della tutela dei diritti dell’uomo, della lotta contro lo sfruttamento dei lavoratori, e in particolare dei minori, della conservazione dell’ambiente, della protezione della salute, ecc. E se questa tendenza non è finora degenerata nel caos, ciò è dovuto al fatto che gli Stati Uniti suppliscono con la potenza politica e militare alle carenze della loro leadership economica. Il dollaro e Wall Street rimangono pur sempre risorse la cui affidabilità è garantita da quella che oggi è la sola grande potenza mondiale, alla quale non possono certo costituire un’alternativa un’Unione europea politicamente inesistente e la cui debolezza anche sul piano economico — provocata dalla sua divisione — si è manifestata in modo assai evidente anche a Seattle; o una Russia sull’orlo del disfacimento; o una Cina alle prese con giganteschi problemi di sviluppo e di modernizzazione. E’ così che i capitali continuano, malgrado tutto, a prendere la strada di Wall Street e a sostenere la potenza americana pagando con il danaro del resto del mondo i debiti degli Stati Uniti.
 
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Ma questa situazione non può continuare a lungo senza dar luogo ad una crisi di grandi proporzioni. Si tratta quindi di cercare di capire qual è la via d’uscita dalle attuali difficoltà, cioè quale dovrà essere il nuovo assetto del mondo che consentirà di definire ed imporre nuove regole del commercio internazionale e di dare un impulso decisivo al decollo delle economie più arretrate. Un punto sembra chiaro: che l’egemonia degli Stati Uniti non è destinata ad essere sostituita dall’egemonia di un’altra potenza, come l’egemonia britannica è stata sostituita, nella prima metà del nostro secolo, dall’egemonia americana. Oggi si tratta di dare inizio ad un processo di creazione delle condizioni per l’esercizio di una responsabilità collettiva, sempre più largamente condivisa, fino a giungere ad un completo superamento delle egemonie.
E’ bene mettere in chiaro fin dall’inizio che il motore di questo processo non sarà l’Organizzazione mondiale del commercio, per quanto importante questo organismo possa diventare come forum per condurre trattative multilaterali. Essa si limita infatti a rispecchiare l’instabile e squilibrata situazione di potere esistente oggi nel mondo, che è dominata, per quanto imperfettamente, dagli Stati Uniti e nella quale altri paesi, o i più importanti tra di essi, hanno un peso sufficiente a consentire ai loro governi di contestare l’ordine americano ma non il peso che sarebbe necessario per realizzare un ordine alternativo. A ciò si aggiunga che l’inestricabile connessione, alla quale si è ripetutamente fatto riferimento, tra il commercio e molteplici altri aspetti della vita fa sì che il problema della gestione dell’interdipendenza non possa che essere affrontato in modo precario e insoddisfacente da un organismo specializzato, che in quanto tale è del tutto impreparato a reagire alle contraddittorie rivendicazioni che vengono avanzate, spesso in modo pretestuoso, dagli Stati membri e da una galassia di disparate organizzazioni non governative.
La presa di coscienza che deve preludere a qualsiasi riflessione sul modo di superare l’attuale fase di impasse deve avere come oggetto la natura del problema da risolvere: e questo non è, o non è soltanto, quello del commercio, ma quello generale dello sviluppo compatibile a livello mondiale, che non è certo un problema di natura tecnica, da affrontare con lo strumentario del funzionalismo, ma un problema di natura politica, da affrontare con strumenti di governo. Si tratta quindi di pensare ad un processo nel corso del quale la dimensione delle istituzioni di governo si adeguino progressivamente alle dimensioni degli ambiti reali di interdipendenza.
 
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E’ evidente che il modo definitivo di assicurare un governo razionale dell’interdipendenza, facendo emergere, al di là dei conflitti tra divergenti interessi nazionali e delle incompatibilità tra istanze ispirate a valori diversi, l’interesse generale del genere umano, sarebbe un governo federale mondiale. Questo obiettivo — per lontano che esso sia — non deve mai essere perduto di vista se si vuole tentare di definire un percorso storico che consenta di progettare su basi realistiche un futuro migliore. Esso deve articolarsi in tappe attraverso le quali si moltiplichino e si estendano le unificazioni federali regionali, cioè le aree coperte da grandi Stati democratici, capaci di creare al loro interno, mediante un’efficace mediazione politica tra interessi, aspirazioni e valori confliggenti, le condizioni di una reale concorrenza, e di realizzare così dei grandi mercati interni. Parallelamente si creerebbero nei rapporti internazionali, attraverso la diminuzione del numero e il rafforzamento dei soggetti presenti sulla scena, le condizioni per garantire, pur scontando le inevitabili crisi, difficoltà e ricadute, le condizioni di una global governance, e quindi di un «mercato» mondiale, assai più stabili ed equilibrati degli attuali, in attesa che maturino le condizioni per la nascita di un governo federale dell’intera umanità.
Se questo è il cammino, esso non può incominciare che dall’Europa. Ma oggi l’Unione europea non è pronta ad assumersi le relative responsabilità. Essa tiene un atteggiamento difensivo e timoroso per quanto riguarda l’apertura commerciale e le politiche che ne sono il presupposto: cioè l’impulso agli investimenti, soprattutto in infrastrutture, e alla ricerca scientifica di base e applicata. E non potrebbe essere altrimenti, perché la sua divisione, che si è manifestata anche a Seattle, e che comunque è esplosa in modo spettacolare, fuori da Seattle, nella tormentata storia della carne bovina prodotta in Gran Bretagna, impedisce la nascita di una politica commerciale e di bilancio unica, orientata verso grandi obiettivi di sviluppo. I suoi governi sono così costretti a far propria la filosofia del patto di stabilità, che è la conseguenza inevitabile della divisione, e a proseguire sulla strada della deflazione competitiva. In questo modo l’Europa si riduce ad essere un debole centro di difesa di interessi corporativi, e ciò sebbene la sua vocazione naturale, dettata dalla sua struttura produttiva, la spinga all’apertura, allo sviluppo e all’innovazione, se pur in un quadro di compatibilità con la protezione dell’ambiente e con il mantenimento del suo modello sociale. Se mai ce ne fosse stato ancora bisogno, Seattle ha fornito un’ulteriore, limpida dimostrazione dell’importanza decisiva che l’unificazione politica dell’Europa avrebbe per l’inaugurazione di un nuovo ciclo, dinamico, equo e progressivo, del commercio mondiale.
 
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