IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XLII, 2000, Numero 3, Pagina 162

 

 

Il dibattito tra federalisti ed antifederalisti
americani dal 1787 al 1800 e la sua attualità
 
FRANCO SPOLTORE
 
 
Premessa
 
E’ difficile prevedere se e su quale testo si accorderanno quegli Stati dell’Unione europea che saranno disposti a darsi una Costituzione federale. E’ però realistico prevedere che, anche se la Federazione europea non sarà una copia di quella americana, i nodi da sciogliere nella fase costituente saranno analoghi a quelli che si presentarono ai tempi della fondazione della Federazione americana. Una prima conferma a questa ipotesi viene dal dibattito sviluppatosi dopo le dichiarazioni fatte dai massimi responsabili di alcuni governi europei[1] a favore della Costituzione europea. Questo dibattito idealmente si riallaccia a quello tra antifederalisti e federalisti americani di oltre due secoli fa. Un dibattito in cui i costituenti americani cercarono di dare una risposta a domande del tipo: il governo centrale dell’Unione deve essere più forte di quello dei singoli Stati? Quali devono essere i suoi poteri? Chi rappresenta il popolo? Chi è sovrano nell’Unione? Quali diritti devono essere garantiti ai cittadini nei confronti del governo? Può uno Stato essere condotto di fronte ad un tribunale? Chi garantisce la pace fra gli Stati? Chi ha il potere di stipulare trattati internazionali? I singoli Stati possono mantenere milizie armate?
Se si pensa all’Unione europea anziché agli Stati Uniti d’America, l’attualità di queste domande è evidente. Un’attualità che emerge anche dalle argomentazioni di chi oggi si oppone alla creazione di un governo federale europeo, dalle quali risulta come la difesa degli interessi particolari e della sovranità sono, oggi come ieri, i maggiori ostacoli sulla strada della federazione. Infatti l’antifederalismo contemporaneo, al pari di quello americano, affonda le proprie radici in un’idea di Stato, di sovranità, di popolo e di diritto che non ammette la possibilità di estendere democraticamente l’orbita del governo da uno a più Stati per realizzare la pace. Si tratta di un’idea che il nazionalismo ha esasperato, ma non inventato, e che la Federazione americana ha intaccato, ma non sconfitto, come dimostra la difficoltà di creare nuove federazioni continentali al di fuori dell’America. Infatti se l’esperienza storica e la ragione suggeriscono che la federazione è la vera alternativa all’anarchia internazionale, l’antifederalismo continua a prevalere nelle scelte degli uomini.
La ragione si trova esposta nel Principe di Machiavelli nel capitolo sui nuovi principati.[2] L’inerzia e la difficoltà di innovare fanno sì che negli uomini prevalga la tendenza a conservare gli «ordini vecchi» e ad ignorare quei buoni esempi degli antichi che potrebbero aiutarli nel rinnovare gli Stati.[3] In Europa esistono da tempo le condizioni storico-sociali e politiche per fondare uno Stato federale ma, dopo mezzo secolo di integrazione, la Federazione europea è ancora una cosa «dubia a riuscire», perché molti — troppi — sostengono ancora l’impossibilità di imitare la Federazione americana.[4] Spetta ai federalisti dimostrare che un simile atteggiamento si basa su una «non vera cognizione dell’istoria».[5] Certo è più facile pensare che la fondazione della Federazione americana fu inevitabile, e che quella europea è impossibile perché ancora troppo avversata. Ma non è così. Le istituzioni su cui si fondano tuttora gli Stati Uniti furono inizialmente molto contrastate e si consolidarono solo a seguito della battaglia condotta principalmente da Hamilton e da pochi federalisti.
Grazie ad Altiero Spinelli e a Mario Albertini il federalismo europeo ha recuperato il senso storico di quella battaglia, di cui i saggi del Federalist, scritti da Hamilton insieme a Jay e Madison allo scopo di illustrare i vantaggi della Costituzione federale rispetto alla formula confederale, restano una testimonianza fondamentale.[6]
 
I. Le origini del dibattito: pluralità di Stati o Stato unitario?
 
Dopo la vittoria della guerra d’indipendenza, gli Stati Uniti d’America dovettero affrontare una serie di gravi problemi di tipo commerciale, economico e militare. Non è questa la sede per entrare nel merito di quei problemi. E’ sufficiente ricordare che la volontà di mettere in discussione gli Articles of Confederation maturò in un clima di profonda crisi ed incertezza. Come osservò George Washington,[7] senza una nuova Costituzione l’Unione sarebbe presto stata preda di «anarchia, tumulti e disordine», come dimostrano, ad esempio, la rivolta antifiscale scoppiata nel 1786 in Massachusetts, stroncata dall’intervento dell’esercito[8] e le rivendicazioni secessioniste del Vermont dallo Stato di New York.[9]
In questa difficile situazione si riunì la Convenzione di Filadelfia. Il dibattito fu aperto con un’esposizione del piano della Virginia (maggio 1787) da parte del governatore Edmund Randolph, che prevedeva il rafforzamento del governo centrale, poneva le basi di una nuova Costituzione, e rifiutava una semplice riforma degli Articles of Confederation. Dopo aver enumerato i difetti della Confederazione, Randolph era passato a proporre i rimedi, delineando uno schema che prevedeva una prima Camera eletta dal popolo ed una seconda con rappresentanti nominati dalla prima e dai parlamenti degli Stati, un esecutivo unitario ed un sistema di Corti nominate dalle due Camere. Dopo alcuni giorni di intenso dibattito, la maggior parte delle proposte del piano della Virginia aveva trovato buona accoglienza da parte dei delegati, ma molti Stati, soprattutto i più piccoli, erano preoccupati dalla prospettiva di un eccessivo rafforzamento dell’esecutivo generale, ed insistevano sulla necessità di mantenere una uguale ripartizione del potere di voto e di governo fra gli Stati. A quel punto la delegazione del New Jersey presentò un secondo piano che proponeva di mantenere la forma della lega di Stati prevista dagli Articles of Confederation. Nel corso di questo dibattito Hamilton, delegato di New York, si dichiarò apertamente «contro entrambi i piani»,[10] perché convinto che nessuno dei due prevedesse istituzioni adeguate alla sopravvivenza di un governo dell’Unione sufficientemente energico e degli stessi principi repubblicani in America.[11] Nel suo intervento egli criticò il Piano del New Jersey in quanto, «lasciando agli Stati la loro sovranità», esso rimaneva nell’ambito della vecchia Confederazione; e contestò quello della Virginia in quanto lasciava agli Stati troppi margini per rafforzare i propri governi a discapito di quello generale. Egli propose pertanto la trasformazione della Confederazione in uno Stato unitario con un esecutivo indipendente da quello degli Stati, attraverso l’istituzione di una monarchia elettiva. Nei giorni successivi al suo intervento i delegati continuarono a dividersi fra i sostenitori del piano virginiano e del piano del New Jersey ed Hamilton tornò a New York. Egli partecipò nuovamente ai lavori della Convenzione quando era già maturato il compromesso fra i sostenitori del mantenimento di più Stati e i fautori di un governo unitario e, insieme a Samuel Johnson, al Governatore Morris, a Madison e a King, fece parte della commissione che elaborò il testo finale della Costituzione.
Dopo tre mesi di acceso dibattito la Convenzione approvò la Costituzione da sottoporre alla ratifica delle Convenzioni dei singoli Stati. Tre delegati, Randolph e Mason della Virginia e Gerry del Massachusetts si rifiutarono però di aderire all’appello di Franklin, delegato della Pennsylvania, di sottoscrivere una mozione unitaria d’approvazione con la formula «di accettare la Costituzione con tutte le sue lacune» e di rinunciare a portare in pubblico le critiche espresse durante la discussione del testo adottato.[12] Altri delegati, come i due colleghi di Hamilton in rappresentanza dello Stato di New York, avevano lasciato la Convenzione in segno di aperto dissenso. Il modo in cui si era chiusa la Convenzione lasciava dunque presagire che l’esito della ratifica non era scontato. Pochi giorni dopo la chiusura della Convenzione di Filadelfia lo stesso Hamilton ammetteva che «le forze che operano contro la sua adozione sono potenti e ci si dovrebbe sorprendere del contrario». E così concludeva: «è probabile che le polemiche sulla delimitazione dei poteri fra i vari livelli di governo e l’influenza dei grandi Stati produrrà la dissoluzione dell’Unione. Questo in fondo sembra il risultato più probabile».[13]
Questi pochi accenni al dibattito che si svolse alla Convenzione danno un’idea della chiarezza con la quale furono posti sul tappeto i principali problemi da risolvere, sui quali, nonostante il compromesso raggiunto, avrebbero a lungo continuato a dividersi i sostenitori delle diverse soluzioni.
 
II. Il futuro degli Stati e quello dell’Unione (1787-1788)
 
La legittimità della Convenzione e della nuova Costituzione.
 
La Convenzione di Filadelfia non era stata convocata per fondare un nuovo Stato, ma per riformare la Confederazione. Essa fu convocata «per prendere in considerazione la situazione degli Stati Uniti ed elaborare quelle riforme necessarie per far sì che il governo federale sia adeguato alle esigenze dell’Unione».[14] La procedura di convocazione aveva dovuto tenere conto della necessità di garantire il coinvolgimento degli Stati nella riforma delle istituzioni continentali.[15] Fino all’ultimo vennero espressi dei dubbi sulla sua effettiva legittimità popolare. Di quale popolo era espressione la Convenzione? Quello americano che si era manifestato nella guerra di indipendenza o i popoli degli Stati?[16] Una puntigliosa contestazione della legittimità della Convenzione fu fatta dai due delegati antifederalisti dello Stato di New York alla Convenzione, Robert Yates e John Lansing, che avevano abbandonato Filadelfia anzitempo.[17] La giustificazione del loro comportamento nella lettera indirizzata al governatore George Clinton, testimonia il tentativo di annullare i risultati della Convenzione. Infatti Yates e Lansing sostennero che il loro comportamento era stato improntato a lealtà nei confronti del popolo e dello Stato di New York. Questo atteggiamento escludeva qualsiasi sottomissione ad altre Costituzioni o popoli, e si opponeva decisamente all’opinione espressa da un eminente esponente federalista, James Wilson, che aveva messo in evidenza la novità introdotta dalla Convenzione: «E’ bene ricordare che la Convenzione federale doveva affrontare problemi generali e non locali. Essa doveva perciò assumere un punto di vista continentale, che comprendesse quello di tredici poteri sovrani, e non limitato ad un singolo Stato… Dovevamo affrontare difficoltà di ogni genere senza poter contare su alcun precedente che guidasse la nostra opera».[18] Il discorso di Wilson conteneva anche una delle prime disamine dei vantaggi della Costituzione e analizzò le preoccupazioni espresse dagli antifederalisti raggruppandole in cinque punti: 1) l’assenza di una carta dei diritti; 2) i rischi di consolidamento del nuovo governo; 3) il pericolo dell’ascesa di un nuovo regime aristocratico lontano dal popolo; 4) il rischio di creare un sistema di tassazione più oppressivo di quello britannico; 5) i timori per la nascita di un esercito federale permanente. Questo discorso, ampiamente riprodotto e fatto circolare dalla stampa dell’epoca, suscitò una grande eco e le reazioni non si fecero attendere.
Poche settimane dopo questo discorso un altro delegato della Convenzione, Elbridge Gerry,[19] colse l’occasione per replicare a Wilson. Gerry ammetteva che, «poiché il bene dell’Unione richiede una Costituzione migliore [di quella] della Confederazione, penso che sia mio dovere come cittadino del Massachusetts sostenerla, sperando sinceramente che essa assicuri la libertà e la felicità dell’America». Tuttavia le sue obiezioni erano insidiose: Gerry non attaccava la Costituzione in quanto federalista, ma perché troppo poco federalista, rilevando l’ambiguità con la quale fu impiegato il termine «federale», usato come sinonimo di «confederale»: «La Costituzione proposta ha poche caratteristiche federali, se non addirittura nessuna, ma rappresenta piuttosto un sistema di governo nazionale. …Le questioni che essa pone sono della massima importanza: 1) il governo federale verrà sciolto? 2) I governi dei singoli Stati scompariranno? 3) La Costituzione proposta prenderà il posto dell’attuale governo federale e degli Stati senza essere emendata?».[20] E sulla questione degli emendamenti aggiungeva: «Alcuni possono supporre che la Costituzione può essere tranquillamente adottata così com’è in quanto è possibile emendarla successivamente: ma non sarebbe meglio emendarla prima di ratificarla? Perché un popolo dovrebbe accettare una forma di governo che vuole emendare già prima di adottarlo?».[21] L’intervento di Gerry tendeva dunque a rafforzare il partito di coloro i quali, pur riconoscendo i limiti della Confederazione, non erano pienamente soddisfatti della Costituzione elaborata a Filadelfia.
Luther Martin, uno dei delegati alla Convenzione che aveva contribuito ad elaborare il piano del New Jersey, intervenendo con lo pseudonimo di The Genuine Information, sostenne tesi analoghe.[22] Secondo Martin alla Convenzione si erano confrontati tre partiti: quello di chi voleva la distruzione dei governi esistenti e l’instaurazione di una sorta di monarchia americana, quello di chi voleva accrescere il potere dei singoli Stati e infine il partito federalista repubblicano che si proponeva di utilizzare «l’attuale sistema federale come base della riforma e, poiché l’esperienza aveva dimostrato la necessità di estendere i poteri del governo federale, di attribuirgli quei poteri». Per Martin i principi federali erano quelli che erano alla base degli Articles of Confederation: «Ogni Stato, quando diventa parte di un governo federale, ha lo stesso diritto di voto degli altri in quanto, prima di far parte di un simile governo, ogni Stato era ugualmente libero e indipendente… Perciò un’adeguata rappresentanza degli Stati in un governo federale consiste nell’attribuire ad ogni Stato un peso uguale in termini di rappresentanza come singolo o come delegazione in qualsiasi questione che riguardi il governo federale».[23] Da queste prime citazioni si può notare come le argomentazioni antifederaliste andassero ben oltre la difesa del diritto dei singoli Stati ad essere rappresentati nel nuovo sistema di governo, diritto del resto riconosciuto nella nuova Costituzione. Esse ponevano il problema della delimitazione della sovranità federale.
 
La sovranità.
 
In un’epoca in cui la sovranità era ancora generalmente riferita ad un unico soggetto (il monarca), e solo da poco, proprio in America, essa incominciava ad essere riferita al popolo, era difficile anche solo pensare di riferirla al sistema delle istituzioni federali. Gli antifederalisti sostenevano che era impossibile far coesistere più livelli sovrani nella stessa struttura istituzionale. Essi erano disposti ad ammettere l’inadeguatezza degli Articles of Confederation e la necessità di trasferire dei poteri al livello federale, ma non fino al punto da mettere in discussione la sovranità degli Stati. Da parte loro i federalisti osservavano che la Costituzione garantiva agli Stati la condivisione della sovranità federale. Uno degli autori più citati per difendere queste posizioni fu Montesquieu, le cui opere furono ampiamente studiate dagli antifederalisti e dai federalisti. Centinel (Samuel Bryan), Brutus e Cato (il governatore di New York, Clinton) cercarono di mostrare l’inadeguatezza della nuova Costituzione appellandosi all’autorità di Montesquieu. Ma a questo stesso si riferì Hamilton, prima con lo pseudonimo di Caesar[24] e poi con quello di Publius,[25] per dimostrare il contrario.
Madison, parlando di supremazia piuttosto che di sovranità, affrontò il problema da un altro punto di vista: per confutare l’argomento antifederalista del carattere nazionale (accentratore) della Costituzione sostenne la tesi che la Costituzione non era «né nazionale né federale».[26]
A differenza degli Articles, la nuova Costituzione non specificava chi era sovrano nell’Unione.[27] Il futuro dell’Unione sarebbe quindi dipeso inevitabilmente dagli equilibri tra i vari poteri e i vari livelli di governo, e non più da atti unilaterali degli Stati. A questo proposito le critiche di Cincinnatus (Arthur Lee) nei confronti di Wilson sono indicative delle preoccupazioni degli antifederalisti: «La sovranità, in quanto espressione delle norme generali che regolano la vita civile, è chiamata potere legislativo, mentre è chiamata potere giudiziario in quanto espressione delle norme che regolano i conflitti tra i cittadini. La sovranità è il potere di fare la guerra o la pace, in quanto implica la possibilità di ordinare ai cittadini di armarsi contro un nemico o di cessare le ostilità. Essa si manifesta inoltre nel potere di nominare magistrati. Ora, Signore, poiché tutti questi attributi della sovranità sono ormai riconducibili al nuovo governo, non è forse una beffa sostenere che le sovranità degli Stati non sono state cancellate? E nonostante ciò voi insistete nell’affermare che la loro sopravvivenza è alla base del piano federale proposto, con l’argomento che [i parlamenti degli Stati] contribuiscono ogni due anni ad eleggere parte della sovranità federale».[28]
Sul piano della propaganda gli antifederalisti si trovavano in una situazione difficile quando dovevano indicare delle soluzioni alternative alla nuova Costituzione. La strada seguita fu quella di chiedere l’introduzione nella Costituzione di un Bill of Rights che garantisse i cittadini dagli abusi del governo federale e di proporre una serie di emendamenti limitativi del potere federale. Federal Farmer[29] diede magistralmente voce a questa propaganda. Con toni moderati, ma fermi, con argomentazioni articolate e apparentemente aperte al dibattito, egli espresse la sua netta preferenza per un piano di consolidamento limitato in cui fossero specificati i campi d’azione del nuovo governo. L’obiettivo di Federal Farmer era quello di dimostrare il rischio dell’allontanamento del governo dal popolo e quindi del ritorno ad un governo tirannico. La sua preoccupazione riguardava i «poteri indefiniti» e tutti quei poteri il cui esercizio avrebbe potuto non essere esercitato «su di una appropriata e sicura base».[30] Il dubbio dell’autore di queste lettere era esplicito: «Invece di avere dei poteri ben salvaguardati nelle mani di molti legislatori e giudici, assisteremo alla concentrazione dei poteri in un unico centro, in cui alcuni uomini li gestiranno a loro discrezione».[31] Da qui la proposta di emendare la Costituzione per garantire agli Stati più potere. Federal Farmer voleva mettere in evidenza la relazione fra la tutela dei diritti individuali e le garanzie costituzionali degli Stati. La sua conclusione era che solo al livello più vicino al popolo, quello degli Stati, sarebbe stato possibile garantire diritti e libertà degli individui. In questo senso Federal Farmer condivideva con altri autori, come per esempio An Old Whig (George Bryan),[32] la fiducia nelle costituzioni statali per preservare le libertà. Il partito costituzionalista della Pennsylvania, di cui An Old Whig era espressione, considerava infatti prioritario preservare i valori repubblicani conquistati e inglobati nelle varie costituzioni durante la guerra di indipendenza rispetto al problema di avere un efficace governo dell’Unione. In questa ottica l’obiettivo era quello di formulare «un piano confederale che ci consenta di sostenere la nostra unione continentale con vigore ed efficacia, e di mantenere i diritti degli Stati e le libertà individuali».[33] Questa richiesta esprimeva il desiderio di affermare il primato delle legislazioni degli Stati rispetto a quella federale. E’ significativo a questo proposito il dibattito sull’effettiva garanzia offerta alle libertà individuali dalle varie legislazioni come dimostrano alcune leggi della Pennsylvania, la cui Costituzione era considerata da molti antifederalisti come la più avanzata nell’Unione (Centinel la descrisse come il «grande tempio della libertà»).[34] Con i Test Acts questo Stato privava dei pieni diritti di cittadinanza quei cittadini che non accettavano di prestare un giuramento di fedeltà allo Stato. Gli Acts prevedevano inoltre delle sanzioni per alcune minoranze religiose e sociali. Alle accuse dei federalisti di volere mantenere la supremazia delle legislazioni statali per preservare, in alcuni casi, leggi discriminatorie, Centinel rispose con l’obiezione che la nuova Costituzione era stata concepita per distruggere l’armonia interna Stati.[35]
La tradizione costituzionale della Pennsylvania, insieme alla circostanza che il dibattito sulla ratifica ebbe inizio proprio in quello ne fecero un crocevia non solo del dibattito, ma anche delle tensioni. In Pennsylvania gli antifederalisti, come vedremo, non si dettero facilmente per vinti. Uno dei documenti più precoci che espresse il dissenso alla Costituzione proposta e che ebbe una larga circolazione fu l’Address and Reasons of Dissent of the Minority, cioè degli antifederalisti della Pennsylvania sconfitti alla Convenzione per la ratifica. Questo documento, elaborato e diffuso per cercare di rilanciare l’opposizione alla ratifica negli altri Stati, oltre a esporre una serie di emendamenti, denunciava la violazione degli articoli della confederazione nello stabilire un numero minimo di ratifiche necessarie per l’entrata in vigore della Costituzione.[36] Questa norma, secondo gli autori, minava le basi stesse dell’Unione in quanto violava lo spirito del patto confederale degli Stati Uniti.
Come abbiamo accennato, le tensioni in Pennsylvania non furono solo verbali. Nel dicembre del 1787, dopo che la Convenzione dello Stato aveva ratificato la Costituzione, la rivolta di piazza nella città di Carlisle produsse delle preoccupate reazioni persino in campo antifederalista. Gli stessi autori del Dissent si espressero contro simili atti di violenza e Gerry denunciò il pericolo di una possibile guerra civile.
Lo scontro sul tema della sovranità finì per toccare anche il nodo cruciale del ruolo del potere giudiziario e della sua efficacia nel dirimere i conflitti fra Stati, fra Stati e Federazione e fra individui e Stati. Il rapporto fra individui e Stati era di particolare attualità a quel tempo. In questione non erano solo i cittadini degli Stati Uniti, ma anche quelli britannici ansiosi di reclamare i loro crediti dalle ex-colonie. Federal Farmer intervenne anche su questo tema, denunciando il pericolo che gli Stati fossero umiliati dalle Corti di giustizia.[37] Brutus evocò esplicitamente questo rischio con uno scritto che si proponeva di rispondere alla domanda: «Può un individuo citare in giudizio uno Stato?».[38] Ora, la Costituzione di Filadelfia non solo prevedeva la possibilità per i singoli cittadini di portare in giudizio uno Stato, ma consentiva di ampliare l’azione del potere giudiziario attraverso atti del Congresso. Brutus analizzò questa eventualità, ne mise in evidenza i pericoli, accusando gli autori della Costituzione di volere un illimitato consolidamento dello Stato. I suoi argomenti tendevano a suscitare lo sdegno dei cittadini nei confronti di una procedura che annullava la sovranità dei loro Stati. «Il compito del potere giudiziario, in ogni forma di governo, consiste nello stabilire qual è la legge di un paese… Ma ritengo che estendere il potere giudiziario alla definizione delle controversie tra uno Stato e i cittadini di un altro Stato sia improprio in sé e, in prospettiva, sarà pericoloso e distruttivo. E’ improprio perché costringe uno Stato a rispondere ad una Corte su richiesta di un individuo. Un fatto questo umiliante e degradante per un governo: nessuna autorità suprema di alcuno Stato si è mai sottomessa ad una simile procedura.
Tuttora gli Stati non sono soggetti ad azioni di questo genere. Tutti i contratti stipulati fra degli individui e uno Stato sono stati stipulati prendendo a fondamento l’autorità e le garanzie offerte dallo Stato stesso: gli individui non hanno mai preteso di obbligare i governi ad adempiere agli impegni assunti».[39]
 
Ratifica condizionata o in toto.
 
Durante il processo di ratifica furono proposti oltre cento emendamenti alla Costituzione. Fra questi, due erano particolarmente significativi: quello che chiedeva di riaffermare esplicitamente la sovranità Stati e quello che proponeva di escludere la possibilità di ricorrere alla Corte Suprema per dirimere i conflitti fra due o più Stati. Molti delegati delle Convenzioni, sull’esempio di quella del Massachusetts, accettarono di ratificare con l’intenzione di dare battaglia al primo Congresso. Altri cercarono di ottenere subito una seconda Convenzione.
Nei passaggi decisivi delle ratifiche, i toni raggiunsero livelli molto accesi, per esempio nei casi della Virginia e di New York. Quando annunciò il suo voto contrario alla Costituzione, il virginiano Richard Henry Lee usò termini che non lasciavano ben sperare per il futuro della Federazione: «Sembra probabile che la decisione di quattro Stati sarà influenzata da quella della Virginia. Questo ci impone di essere estremamente cauti e circospetti nel corso del dibattito sulla ratifica. Il metodo che propongo di seguire è quello adottato dal Parlamento inglese nel 1688. Dovremmo inserire nella nostra ratifica tutti quegli emendamenti sui quali siamo d’accordo e affermare che il popolo della Virginia non intende rinunciarvi considerandoli parte dei propri diritti e della propria libertà. E qualora essi non dovessero essere adottati, in base alla procedura prevista dalla Costituzione proposta, entro due anni dalla convocazione del nuovo Congresso eletto, la ratifica della Virginia dovrebbe essere considerata nulla».[40] Questa posizione ricattatoria non passò, ma nella risoluzione finale dovettero essere incluse diverse proposte di emendamento «molto discutibili», come scrisse Madison.[41] A testimonianza dell’asprezza del dibattito svoltosi nella Convenzione della Virginia, Madison informava Hamilton di essere «così poco benevolo da sospettare che i malumori espressi contro la Costituzione la manderanno in rovina. [Patrick] Henry ha dichiarato in occasione del voto finale che, sebbene si sia sottomesso alla ratifica come un qualsiasi tranquillo cittadino, egli non vede l’ora di riguadagnare, per vie costituzionali, le libertà perdute del suo paese».[42]
La battaglia tra federalisti ed antifederalisti alla Convenzione di New York ebbe inizio quando non si sapeva ancora se il numero minimo di ratifiche necessarie per l’entrata in vigore della Costituzione sarebbe stato raggiunto oppure no. La ratifica fu incerta, come mostra indirettamente ancora Madison in una lettera a Hamilton: «Mi dispiace che tu sia obbligato ad ascoltare le proposte che mi hai descritto. Ritengo che riservarsi il diritto di ritirare la ratifica, qualora gli emendamenti [proposti dalla Convenzione di New York] non vengano adottati secondo i termini previsti dalla Costituzione, equivalga ad una ratifica condizionata, cioè ad escludere New York dalla nuova Unione. I patti devono avere valore reciproco, ma questo non sarebbe il vostro caso. La Costituzione deve essere adottata in toto, e per sempre… L’idea di riservarsi il diritto di ritirare la ratifica fu avanzata anche a Richmond e, in quanto ratifica condizionata, venne considerata peggiore di una non ratifica».[43]
La Convenzione di New York (luglio 1788) fu l’ultima importante occasione per gli antifederalisti di giocare la carta della convocazione di una seconda Convenzione generale per emendare la Costituzione. Come si legge nella lettera di Madison appena citata, gli antifederalisti newyorkesi avevano proposto una ratifica condizionata. Durante il dibattito uno degli antifederalisti di spicco, Melancton Smith, propose alla Convenzione di invitare gli altri Stati a convocare una seconda Convenzione e a sospendere temporaneamente i poteri federali in materia militare, elettorale e fiscale, fino a quando la questione degli emendamenti non fosse stata risolta. Smith, riprendendo le proposte del virginiano Lee, cercò di strappare una ratifica che includesse il riconoscimento del diritto di secessione qualora il primo Congresso eletto non avesse convocato una seconda Convenzione. Ma dopo che gli giunse la notizia della ratifica della Virginia e del New Hampshire e dopo aver ricevuto assicurazioni sul fatto che la Convenzione di New York avrebbe appoggiato la richiesta di includere il Bill of Rights nella Costituzione, egli accettò di votare la ratifica. Per far recedere alcuni antifederalisti dalla loro intenzione di non votare la ratifica, venne deciso l’invio agli altri Stati di una Circular,[44] elaborata con il contributo di Jay,[45] mediante la quale i delegati della Convenzione di New York invitavano ad organizzare una seconda Convenzione generale. La Pennsylvania fu il primo ed unico Stato a rispondere con solerzia all’invito, convocando a Harrisburg (settembre 1788) una Convenzione aperta ad antifederalisti di diverse tendenze, fra cui il leader della rivolta di Carlisle, William Petrikin, che rappresentava l’ala più violenta, e Charles Pettit, un antifederalista moderato. L’intervento di quest’ultimo fu decisivo per smorzare i toni e per indicare una procedura che, denunciando il metodo dell’insurrezione armata proposto da Petrikin, raccomandava di seguire la via già intrapresa dagli altri Stati: prepararsi alle battaglie congressuali per chiedere di includere nella Costituzione un Bill of Rights e gli emendamenti proposti dalle varie Convenzioni. A questo punto la battaglia tra federalisti ed antifederalisti si spostava nel nuovo Congresso.[46]
 
III. Il potere degli Stati e quello della federazione (1789-1800)
 
Il Bill of Rights e il tentativo di restaurare la Confederazione.
 
Una volta in carica, il nuovo Congresso dovette affrontare i problemi sollevati dagli antifederalisti durante la ratifica e principalmente quello dell’inserimento nella Costituzione di un Bill of Rights, che avvenne poi nella forma dei primi dieci emendamenti alla Costituzione. In realtà solo il primo emendamento[47] approvato dal Congresso era direttamente in relazione con i principi fondamentali della tutela dei diritti, come sottolineò Madison nella sua relazione al Congresso.[48] Il preambolo al Bill of Rights ricordava esplicitamente le ragioni[49] per cui il Congresso aveva deciso di proporre agli Stati di ratificare una serie di emendamenti il cui testo finale era stato l’esito dell’ennesimo scontro tra federalisti ed antifederalisti. Madison, introducendo davanti al Congresso gli emendamenti proposti, spiegò così i rischi che si correvano allontanandosi dal dettato costituzionale: «Non è un segreto per i signori di questa Carnera che un gran numero di Costituenti fosse insoddisfatto della Costituzione, nonostante la sua ratifica da parte di undici Stati su tredici — in alcuni casi all’unanimità, in altri con larghe maggioranze… Ritengo che la Costituzione sia emendabile in quanto, se è vero che è possibile abusare di qualunque potere, a maggior ragione si può abusare del potere del governo generale. Perciò è opportuno vigilare su di esso in un modo più sicuro di quanto non sia stato previsto, garantendo allo stesso tempo che esso non venga in alcun modo sminuito. Così facendo guadagneremo qualcosa e, se agiremo con cautela (come sembra necessario in questo caso), non avremo nulla da perdere… Perciò non proporrò alcuna modifica [alla Costituzione] che non sia in linea con il suo spirito».[50]
Le formulazioni iniziali degli emendamenti sostenuti dalla minoranza antifederalista eletta al Congresso erano particolarmente insidiose. La questione maggiormente agitata dagli antifederalisti fu quella della tutela delle libertà dei cittadini, ma non fu la sola. Furono messe in discussione anche la struttura del sistema fiscale e di quello giudiziario. La situazione era molto incerta, dal momento che le strutture della vecchia Confederazione erano in disarmo, mentre le nuove istituzioni stavano nascendo. Per esempio, poiché la nuova Costituzione non definiva le procedure per la nomina dei vari uffici dell’esecutivo, il nuovo Congresso aveva dovuto discutere a lungo per stabilire la procedura di nomina dei segretari di Stato per la politica estera, il tesoro e la guerra. Alla fine fu accolta la proposta di Madison, in base alla quale ciascun segretario doveva essere «nominato dal Presidente con il consenso del Senato e… poteva essere rimosso dal Presidente».[51]
Nessun argomento fu però tanto aspramente dibattuto quanto quello relativo alla limitazione dei poteri del nuovo governo a quelli espressamente delegati dalla Costituzione. Su questo punto si giocava la rimessa in discussione dell’intero nuovo assetto costituzionale, e la restaurazione de facto della confederazione. La risposta di Madison fu che: «I poteri non delegati dalla Costituzione agli Stati Uniti, o da essa non vietati agli Stati, sono riservati ai rispettivi Stati ovvero al popolo».[52] Questa formulazione sarebbe stata recepita nel decimo emendamento. Antifederalisti come Tucker cercarono di far inserire la parola «espressamente» tra «non» e «delegati», ma senza successo. Madison osservò che «questa questione era già stata sollevata alla Convenzione della Virginia da coloro i quali non volevano la Costituzione, ma alla fine fu ritirata».[53] Allo stesso modo si sviluppò un’accesa battaglia sui poteri di tassazione, sul sistema elettorale e sul mantenimento delle milizie armate. Sulla questione delle tasse Tucker sostenne il diritto degli Stati di stabilire le tasse da applicare. Sul sistema elettorale Aedanus Burke sostenne un emendamento che assicurasse che il «Congresso non alteri, modifichi o interferisca sui tempi, luoghi e modi di eleggere i senatori o i rappresentanti, a meno che uno Stato si rifiuti, trascuri o sia impossibilitato da qualche invasione o ribellione a svolgere le elezioni».[54] Elbridge Gerry attaccò invece sul fronte del mantenimento delle milizie nazionali: «A che serve, signore, la milizia? A prevenire la formazione di un esercito permanente, il flagello della libertà».[55] Questa richiesta venne in parte recepita nel secondo emendamento, in base al quale i cittadini degli Stati Uniti, «essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una ben ordinata milizia», conservano ancora il diritto inviolabile «di tenere e portare armi».
In generale gli antifederalisti non furono soddisfatti del testo definitivo degli emendamenti proposto da Madison: essi ritenevano che il primo Congresso non era stato in grado di proteggere efficacemente i diritti degli individui ed i poteri degli Stati. Richard Henry Lee riassunse così l’insoddisfazione dei suoi colleghi: «I problemi delle libere elezioni, della composizione delle giurie dei tribunali, della limitazione del potere di tassare e di costituire eserciti permanenti in tempo di pace, rimangono insoluti. Sono stati affermati alcuni importanti diritti, ma restano sufficienti poteri per calpestarli quando si vuole».[56]
Conclusa la controversia sugli emendamenti, si apriva una nuova fase della lotta tra federalisti ed antifederalisti: quella sull’interpretazione della Costituzione.
 
La Banca centrale e i poteri impliciti.
 
Gli schieramenti che si erano confrontati nella fase preparatoria della nuova Costituzione e della sua ratifica non rimasero a lungo compatti. L’esercizio del potere da parte del governo federale imponeva delle scelte che non solo gli antifederalisti, ma anche molti federalisti, non erano disposti a condividere. Avrebbe per esempio potuto il nuovo governo operare senza disporre dei mezzi economici e finanziari adeguati? Questa era la preoccupazione alla base dei ripetuti rapporti al Congresso dal Segretario al tesoro Hamilton.[57] La Costituzione non prevedeva la creazione di una Banca centrale, non forniva indicazioni su come gestire il debito, né indicava come gestire i rapporti con le potenze europee: si trattava di interpretare di volta in volta la Costituzione e decidere se e come nei diversi campi il potere di decidere spettasse agli Stati o al Congresso. Per gli antifederalisti che si erano fino all’ultimo alla ratifica, la scelta era stata fatta da tempo. Non fu lo stesso per quegli antifederalisti che avevano accettato la nuova Costituzione e per quei federalisti moderati che temevano un eccessivo rafforzamento del potere federale. Un sostenitore della Costituzione come il senatore William Maclay (Pennsylvania), che a suo tempo aveva descritto Richard Henry Lee come «un noto antifederalista» e Elbridge come «estremamente antifederalista»,[58] si trovò sempre più spesso a sostenere gli argomenti di Lee e Gerry, per criticare «i piani di coloro i quali intendono usare il potere generale per applicare la Costituzione secondo ‘un’interpretazione costruttiva’ », osservando come questa strategia avrebbe potuto essere estesa «a qualsiasi materia che il Congresso avesse ritenuto necessario o conveniente».[59]
A quell’epoca l’unico testo di riferimento in circolazione era il Federalist. Non tutti però consideravano Publius come la miglior guida per interpretare la Costituzione. Per esempio Elbridge considerava il Federalist una «eresia politica» e denunciò la parzialità con la quale erano stati diffusi i resoconti delle varie Convenzioni di ratifica. Più in generale, la critica alla «interpretazione costruttiva» della Costituzione divenne il punto di incontro fra i tradizionali antifederalisti e molti federalisti che a suo tempo si erano battuti per la Costituzione. Tra questi ultimi andavano ormai annoverati anche Madison e Jefferson.
Vale la pena di soffermarsi sulle obiezioni di fondo che Madison oppose al piano di Hamilton sulla necessità di una Banca centrale. «Il potere di creare una Banca è previsto dalla Costituzione degli Stati Uniti?... Per ammettere o respingere il principio di una autorità che sia frutto di ‘un’interpretazione costruttiva’ della Costituzione, occorre prendere in considerazione non solo il grado di dipendenza [di un potere] dall’autorità, ma anche la sua importanza, poiché da questa dipenderà la probabilità o meno di svilupparsi. Considerando la Costituzione da questo punto di vista, non è possibile scorgervi il potere di creare una Banca. Le sole condizioni previste dalla Costituzione in base alle quali un simile potere potrebbe essere invocato sono: 1) il potere di stabilire e raccogliere tasse per pagare i debiti e provvedere alla difesa comune e al benessere generale; 2) il potere di prendere a prestito denaro in nome degli Stati Uniti; 3) il potere di adottare tutte quelle leggi necessarie ed appropriate per rendere effettivi i poteri descritti prima».[60] La legge istitutiva della Banca non poteva rientrare in nessuno di questi poteri, dichiarò Madison, il quale così continuò: «Interpretare queste disposizioni nel senso più generale, in modo da giustificare la creazione di una Banca, significherebbe attribuire al Congresso un potere illimitato e rendere vana l’enumerazione dei poteri particolari descritti, annullando così tutti i poteri riservati agli Stati. Poiché queste specificazioni dei poteri sono state copiate dagli Articles of Confederation è evidente che esse vanno intese nel senso originario che era stato loro attribuito».[61] E infine, dopo aver ricordato come la Costituzione facesse esplicito riferimento al potere del Congresso di regolare il valore della moneta, di dichiarare la guerra, di armare un esercito, così proseguì sui poteri impliciti invocati dai fautori della Banca: «La dottrina dei poteri impliciti è una questione delicata… Non si può pretendere che ogni allusione o omissione fatta nella Costituzione sia il risultato di una volontà deliberata. Questo non accade in nessuna opera dei singoli individui, a maggior ragione non può accadere nell’opera di un gruppo di uomini. Gli esempi citati, con altri che potrebbero essere aggiunti, provano sufficientemente che è possibile interpretare la Costituzione in modo molto diverso rispetto a quello proposto per introdurre la legge istitutiva della Banca. Essi condannano l’esercizio di qualsiasi potere particolarmente importante e grande, che non sia evidentemente e necessariamente incluso in un potere espressamente previsto. E non si può certo negare che il potere proposto sia un importante potere».[62] La legge sulla Banca passò, non senza ulteriori pressioni e difficoltà. Ma il risultato immediato di quella battaglia non fu la nascita di una forte ed attiva Banca centrale — obiettivo questo che sarebbe stato raggiunto molto più tardi —, bensì il riaccendersi del confronto sulla sovranità. Le affermazioni di Madison non mettevano semplicemente in dubbio l’opportunità di creare una Banca. Esse toccavano il senso stesso di quello che era in gioco: la creazione di un nuovo Stato. Mentre Hamilton era decisamente proiettato verso quest’obiettivo, Madison e gli antifederalisti ritenevano che gli Stati Uniti non fossero e non dovessero diventare un vero Stato. Più precisamente essi temevano che l’affermazione della sovranità del nuovo Stato avrebbe implicato la sua trasformazione in una monarchia. Per Madison e Jefferson la ratifica della Convenzione rappresentava soprattutto l’ultimo atto della rivoluzione che aveva affrancato gli Americani dal dominio britannico. In un articolo che divenne una sorta di manifesto di fondazione del partito repubblicano-democratico in cui confluirono vecchi e nuovi antifederalisti, Madison sostenne che la ratifica della Costituzione aveva segnato l’inizio di una nuova divisione tra i partiti: non si trattava più d’essere pro o contro l’indipendenza dalla corona britannica, pro o contro la Costituzione, ma d’essere pro o contro i valori repubblicani: «Il partito repubblicano, come potremmo chiamarlo, consapevole di avere il consenso della maggior parte del popolo in ogni parte dell’Unione, in ogni Stato, e in ogni ceto, farà di tutto per seppellire le vecchie discordie e per bandire qualsiasi divisione che non sia quella tra nemici ed amici del governo repubblicano».[63] A partire da quella denuncia, lo scopo politico di Madison e degli antifederalisti diventò quello di mostrare che i veri nemici della Costituzione erano diventati proprio coloro i quali invocavano un rafforzamento del governo federale.[64] Ma la «leale opposizione», che Madison e gli altri dichiaravano di incarnare, nascondeva un’insidia: poiché agli occhi dei cittadini i valori repubblicani nella giovane democrazia americana erano un’emanazione delle Costituzioni dei singoli Stati, considerare prioritaria la difesa di quei valori conduceva, consapevolmente o no, a difendere le pretese degli Stati nei confronti della ancora fragile Federazione. Questa difesa avrebbe assunto diverse forme. Dapprima essa si manifestò nell’ambito del dibattito sulla divisione delle competenze fra il potere degli Stati e quello dell’Unione, ma successivamente divenne la premessa della rivendicazione del diritto alla secessione degli Stati.
 
Il potere di interposizione della Corte Suprema.
 
Nel 1793 furono portati due casi di fronte a John Jay, Presidente della Corte Suprema: il caso Ware v. Hylton, in cui le parti in causa erano un cittadino britannico ed uno della Virginia e il caso Chisholm v. Georgia, che vide un cittadino del South Carolina portare in giudizio lo Stato della Georgia. Quest’ultimo caso offrì a Jay l’opportunità di formulare un giudizio molto netto a favore della sovranità della Federazione rispetto a quella degli Stati. Il caso della chiamata in giudizio di uno Stato, paventato dagli antifederalisti durante il dibattito sulla ratifica della Costituzione, si manifestò con tale asprezza da indurre gli Stati a chiedere, ed ottenere, l’introduzione di un ulteriore emendamento limitativo dei poteri del Congresso. Jay espose con estrema chiarezza il suo giudizio sulla sovranità, cogliendo una delle prime occasioni per affermare il ruolo centrale del potere giudiziario in un sistema federale: «Si dice che la Georgia si rifiuta di comparire e rispondere al querelante in questo caso, perché è uno Stato sovrano, e perciò non giudicabile… Sarà sufficiente osservare brevemente che le sovranità in Europa, e in modo particolare in Inghilterra, si basano su principi feudali. Quei sistemi considerano il principe come il sovrano, e il popolo come suddito: il principe considera sé stesso come l’oggetto della lealtà ed esclude l’idea di essere sullo stesso piano dei sudditi, sia nelle Corti di giustizia che altrove. Quei sistemi considerano il principe come la fonte di ogni onore ed autorità… In America simili idee non possono imporsi. Con la rivoluzione la sovranità è stata devoluta al popolo, vero sovrano del paese: un sovrano senza sudditi (fatta eccezione per gli schiavi africani) che governa sé stesso. I cittadini d’America sono uguali in quanto concittadini e comproprietari della sovranità.
Dalle differenze esistenti tra sovranità feudali e governi fondati su di un contratto, ne conseguono diverse prerogative. La sovranità è il diritto a governare ed essa risiede nella nazione o nello Stato sovrano. In Europa la sovranità è generalmente ascritta al principe, in America al popolo. Là il sovrano amministra il governo, qui no. I nostri governanti sono agenti del popolo e dipendono dal loro sovrano come i reggenti europei dipendono dai loro sovrani. I loro principi hanno poteri, dignità e preminenza personali. I nostri governanti hanno poteri, dignità e preminenza ufficiali e non prendono parte alla sovranità se non in qualità di privati cittadini… Per queste ragioni sono chiaramente dell’opinione che uno Stato può essere citato in giudizio da cittadini di altri Stati».[65]
 
Politica interna e politica estera.
 
La situazione interna verso la prima metà degli anni Novanta del Settecento presentava segnali inquietanti. L’organizzazione di una «leale opposizione» attraverso una rete di club del nuovo partito democratico-repubblicano metteva sempre più in difficoltà il partito federalista al governo. Scopo di questi club era quello di suscitare l’attenzione dell’opinione pubblica sul pericolo di una degenerazione autoritaria del governo federale, in parte rifacendosi ai temi antifederalisti e in parte allo spirito rivoluzionario francese. In questo clima esplose la ribellione armata innescata dalla protesta contro la tassa federale sul Whiskey che Washington e Hamilton dovettero affrontare energicamente, suscitando nuove accuse di comportamento autoritario da parte degli antifederalisti.
La rivolta del Whiskey ebbe delle importanti ripercussioni anche sul dibattito circa il futuro del sistema giudiziario. I ribelli avrebbero dovuto essere giudicati da Corti federali, e anche a questo proposito i leaders democratico-repubblicani ripresero le obiezioni avanzate dagli antifederalisti durante la ratifica. Ecco come uno di loro, Albert Gallatin, intervenne: «I governi dispotici colgono avidamente ogni opportunità offerta loro dagli errori e dalla follia temporanea di qualcuno fra il per aggiungere nuova energia ai propri poteri e giustificare l’estensione della sfera del governo».[66] E sulla richiesta del governo di sottrarre i ribelli al giudizio delle Corti locali, così proseguì: «Devono essere processati non nel loro paese e il loro destino dipenderà dal verdetto di una giuria di stranieri e non da quello di concittadini che conoscono la loro personalità e il loro stile di vita».[67] Anche in quest’occasione gli antifederalisti reiterarono l’obiezione fatta ripetutamente durante e dopo la ratifica: la loro opposizione alla Costituzione e al governo era motivata dallo zelo e non dall’avversione nei confronti del federalismo. Findley spiegò così il suo antifederalismo: «Io stesso ed altri siamo stati chiamati antifederalisti, in segno di biasimo. Tuttavia ho sempre considerato questo appellativo con disprezzo. Se ho sbagliato, è stato per un eccesso di zelo federalista e di attaccamento a quei principi federali repubblicani che non sono stati sufficientemente salvaguardati. E in questo noi siamo con la maggioranza dei cittadini degli Stati Uniti».[68]
Neppure sul fronte internazionale la situazione era tranquilla. Si doveva infatti concludere il trattato con la Gran Bretagna per porre fine alle dispute sui confini occidentali e sui problemi commerciali. E proprio in relazione a questa questione (la ratifica del cosiddetto Trattato Jay),[69] il dibattito sull’interpretazione della Costituzione era destinato ad assumere toni sempre più accesi.
Al di là delle polemiche sui contenuti specifici del Trattato, che portarono anche a violente manifestazioni di piazza contro Jay — che aveva negoziato il Trattato — ed Hamilton — che lo aveva ispirato —, la questione di fondo che venne sollevata riguardava il potere di fare trattati, che per la prima volta veniva esercitato, secondo il dettato costituzionale, dal Presidente e dal Senato, con l’esclusione del Congresso, al quale in quell’occasione venne negata la documentazione relativa allo svolgimento delle trattative tra USA e Gran Bretagna. Da un lato l’opposizione democratico-repubblicana sosteneva demagogicamente il diritto del Congresso di ratificare i trattati, ma dall’altro coglieva l’occasione per ribadire l’opportunità di rivedere le norme costituzionali sulle maggioranze qualificate richieste in Senato per le ratifiche dei trattati internazionali. Hamilton scese ancora una volta in campo con una serie di articoli firmati Camillus per sostenere la ratifica del Trattato Jay da parte del Senato. Dopo tale ratifica, il Congresso non rinunciò a tenere un proprio dibattito nel corso del quale furono riproposte le considerazioni emerse in varie Convenzioni sull’opportunità di rendere più stringente la maggioranza necessaria per ratificare i trattati — 2/3 del numero totale dei senatori anziché 2/3 dei senatori presenti — e sull’antidemocraticità della procedura che escludeva il Congresso, cioè la Camera dei rappresentanti del popolo, dalle ratifiche dei trattati. Il dibattito si sviluppò a colpi di citazioni del Federalist da un lato, del Dissent of the Minority, delle lettere del Federal Farmer e dei verbali delle Convenzioni dall’altro. Questi ultimi, in particolare, divennero i principali testi di riferimento degli oppositori del governo.
 
La rivendicazione del potere di interposizione da parte degli Stati.
 
Risolta la crisi costituzionale provocata dalla ratifica del Trattato Jay, il confronto tra federalisti ed antifederalisti si spostò su di un altro terreno: quello della legittimità degli atti del Congresso. Questo scontro ebbe origine ancora una volta dalla politica estera. Avviati a soluzione i rapporti con la Gran Bretagna, diventava sempre più urgente definire la politica degli Stati Uniti nei confronti della Francia. Da un lato si temeva che la Francia fomentasse una rivoluzione negli Stati Uniti, facendo leva sul diffuso malcontento antifederalista e sui numerosi contatti esistenti fra rivoluzionari francesi e uomini politici americani. D’altro lato destavano preoccupazione le azioni del governo francese in campo internazionale. Le tensioni tra Francia e USA giunsero ad un punto tale da indurre il Presidente Adams a incaricare l’ex-Presidente Washington e Hamilton di predisporre un piano militare in vista di una eventuale invasione francese. Questa situazione, insieme all’adozione da parte del Congresso degli Alien and Sedition Acts,[70] riaccese l’opposizione antifederalista che accusò i federalisti di voler perseguire il disegno nascosto dell’instaurazione di un regime autoritario e unitario. L’opposizione agli Acts fu durissima ed ebbe conseguenze importanti sull’evoluzione teorica e pratica dell’antifederalismo. Invece di perseguire la strada dell’opposizione costituzionale, e quindi quella del ricorso alla Corte Suprema, gli antifederalisti, con in testa Jefferson e Madison, fomentarono la disubbidienza degli Stati nei confronti del governo federale. I due atti politici che misero seriamente in discussione la legittimità del governo federale furono le risoluzioni del Kentucky, elaborata da Jefferson, e quella della Virginia, elaborata da Madison. I due documenti andavano al di là della retorica antifederalista contro il consolidamento del federale. Essi sposavano la tesi in base alla quale il patto federale era un contratto fra Stati, e non con il popolo, e pertanto gli Stati, e non la Corte Suprema, in quanto espressione del popolo, potevano giudicare le violazioni del patto. Nella risoluzione del Kentucky si affermava: «In tutti i casi di patti tra parti che non hanno un giudice comune, ciascuna mantiene un uguale diritto di giudicare sé stesso, tanto per le infrazioni quanto per le riparazioni».[71] In questo modo il Kentucky affermava il diritto degli Stati di giudicare da sé la costituzionalità delle leggi federali. La variante introdotta dalla risoluzione della Virginia consisteva nell’affermare il diritto di più Stati insieme, e non di un solo d’essere giudici della costituzionalità degli atti legislativi. Gli altri Stati non seguirono gli inviti alla disobbedienza del Kentucky e della Virginia. A questo punto il Kentucky reiterò la sua richiesta di considerare nulli quegli atti legislativi federali non considerati conformi alla Costituzione (nullification), mentre la Virginia riaffermò il diritto degli Stati di pporsi all’applicazione di quegli atti del governo o del Congresso che sembravano violare i diritti costituzionali (interposition). Anche se non si parlava esplicitamente di secessione, queste posizioni ponevano una seria minaccia alla sopravvivenza dell’Unione. Il Rapporto di Madison allo Stato della Virginia del 1800 presentò in modo più cauto di quanto non avesse sperato Jefferson la questione del diritto di secessione Stati, tentando di conciliare federalismo e secessionismo.[72] Il risultato fu che esso fornì la copertura teorica che ancora mancava agli antifederalisti per continuare la loro battaglia contro la legittimità della Federazione. E’ un fatto confermato dalla letteratura favorevole all’antifederalismo americano[73] che il Rapporto del 1800 di Madison sarebbe diventato un importante punto di riferimento  per coloro che si sarebbero battuti nel corso dell’Ottocento in difesa della sovranità degli Stati. A questo proposito è opportuno citare alcuni passi di quel lungo Rapporto, che costituì l’occasione per presentare le risoluzioni di sfiducia dello Stato della Virginia nei confronti del Congresso. «La Costituzione degli Stati Uniti è entrata in vigore grazie alla ratifica degli Stati in quanto entità sovrane. Ciò aggiunge stabilità e dignità, e anche autorità alla Costituzione, che poggia così su solide e legittime fondamenta. E poiché sono gli Stati ad essere le parti in causa del patto costituzionale, nella loro sovranità, ne consegue che non vi può essere alcun tribunale al di sopra di essi per decidere in ultima istanza se il patto è stato violato oppure no. Ciò significa che essi stessi devono decidere in ultima istanza di tutte quelle questioni di tale importanza da richiedere il loro intervento».[74] E sulla questione dell’opportunità di fare ricorso alla Corte Suprema così argomentava: «La risposta appropriata a questa osservazione è che la risoluzione adottata dal Congresso si riferisce a questioni di così straordinaria importanza, che gli strumenti previsti dalla Costituzione possono rivelarsi inefficaci per proteggere i diritti essenziali delle parti in causa».[75] Inoltre Madison affermava che il tentativo «di consolidare gli Stati gradualmente in un’unica sovranità», avrebbe significato «trasformare l’attuale sistema repubblicano degli Stati Uniti in una monarchia assoluta o, nel migliore dei casi, mista».[76]
L’attenuarsi delle tensioni con la Francia e il ritorno della politica estera ai margini della scena politica americana fecero rientrare la crisi. La sconfitta, nello stesso anno, del partito federalista alle elezioni presidenziali e l’ascesa alla presidenza di Jefferson prima e Madison poi contribuì a rassicurare nel ventennio successivo quella che un tempo era stata l’opposizione antifederalista e che de facto era giunta al potere. Tramontava così il proposito di Hamilton[77] di rafforzare rapidamente il governo federale. La marginalità del continente americano rispetto alle lotte europee, salvo qualche raro episodio, consentì agli USA di mantenersi in una sorta di limbo del potere.[78] A partire dal 1800, solo la Corte Suprema avrebbe ancora giocato un ruolo nel difendere le istituzioni federali dalle pretese degli Stati, affermando ripetutamente la sua autorità nel giudicare la conformità alla Costituzione degli atti dei vari livelli di potere e di governo. Tuttavia la sua azione da sola, in assenza delle lungimiranti politiche che Hamilton poté solo abbozzare e mai intraprendere a favore dello sviluppo continentale e del consolidamento della legittimità dell’Unione, non sarebbe stata sufficiente per evitare la crisi della guerra civile qualche decennio dopo.
 
Brevi considerazioni finali.
 
Da questa rapida rassegna delle posizioni federaliste ed antifederaliste nell’ultimo decennio del diciottesimo secolo, possiamo trarre alcune conclusioni.
1) I federalisti e gli antifederalisti cercarono di affermare o difendere due diversi modelli di sovranità. In un caso si trattava di una sovranità inesplorata, quella dell’Unione di più Stati, nell’altro di una sovranità sperimentata, quella degli Stati, rivelatasi inadeguata per affrontare i problemi posti dal distacco delle colonie dalla Gran Bretagna. Fu proprio l’evidenza di quell’inadeguatezza che costrinse molti antifederalisti ad appoggiare la ratifica della Costituzione. Se rivolgiamo lo sguardo all’oggi, anche in Europa l’elaborazione prima e la ratifica poi di una Costituzione federale, almeno per un nucleo di paesi, non potranno avvenire senza l’appoggio degli antifederalisti moderati. Un appoggio che difficilmente si potrà manifestare al di fuori di un quadro di da crisi, in cui l’alternativa tra confederazione e federazione si dovrà necessariamente presentare in modo netto agli occhi della classe politica e dell’opinione pubblica.
2) L’approvazione della Costituzione non pose fine alla lotta politica tra federalisti ed antifederalisti, ma segnò l’inizio di una nuova battaglia per affermare la sovranità federale. In questa fase incominciò a manifestarsi il ruolo fondamentale della Corte Suprema che, sottraendo al Congresso e agli Stati il potere di interpretare la Costituzione, contribuì a consolidare i meccanismi federali rispetto a quelli confederali. Pensando al futuro dell’Europa, il problema dell’affermazione della sovranità federale verosimilmente costituirà una fase cruciale della lotta tra federalisti ed antifederalisti europei dopo l’eventuale ratifica della Costituzione. Anche gli antifederalisti europei difficilmente rinunceranno ad approfittare dell’iniziale debolezza delle istituzioni federali per cercare di spostare nuovamente a favore degli Stati l’ago della bilancia del potere.
3) Senza l’avvio del rafforzamento della Federazione all’indomani della sua nascita, le spinte centrifughe antifederaliste avrebbero condannato gli Stati Uniti d’America al ritorno alla confederazione e quindi all’anarchia. La futura Federazione europea si troverà a dover affrontare un problema analogo ed in una situazione più difficile in quanto l’Europa, a differenza dell’America, resterà al centro e non ai margini dei principali problemi internazionali. In questo quadro le tensioni che inevitabilmente si produrranno a seguito delle scelte che dovranno essere fatte in politica estera, rappresenteranno un difficile banco di prova per la sopravvivenza della Federazione.


[1] Soprattutto dopo i discorsi del Ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer all’Università Humboldt di Berlino, il 12 maggio 2000 e del Presidente della Repubblica francese Jacques Chirac al Bundestag il 27 giugno 2000.
[2] Niccolò Machiavelli, Il Principe, Torino, Einaudi, 1961, Cap. VI, p. 28.
[3] «Nell’ordinare le Repubbliche, nel mantenere gli stati, nel governare i Regni, nell’ordinare la milizia e amministrare la guerra, nel giudicare i sudditi, nell’accrescere lo imperio, non si trova né principe, né Repubblica, né capitano, né cittadino, che agli esempi degli antichi ricorra… Donde nasce che infiniti, che leggano, pigliano piacere d’udire quella varietà degli accidenti che in esse si contengono, senza pensare altrimenti di imitarle, giudicando la imitazione non solamente difficile, ma impossibile: come se il cielo, il sole, gli elementi, gli uomini fussero variati di moto, di ordine e di potenza da quella ch’egli erano anticamente». Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Milano, BUR, 1984, pp. 59-60.
[4] Un esempio illuminante è costituito da Larry Siedentop, che nel suo libro Democracy in Europe, Penguin Books Ltd, 2000, spiega tutti i vantaggi della federazione e conclude che i tempi non sono ancora maturi per realizzarla in Europa.
[5] Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, cit., p. 60.
[6] Mario Albertini, Il Federalismo, Bologna, Il Mulino, 1993 e ID., «Il federalismo», in Il Federalista, XLII (2000), p. 89. Si veda in proposito anche l’edizione italiana del Federalist, Il Federalista, Bologna, Il Mulino, 1997, e in particolare l’introduzione di Lucio Levi.
[7] «George Washington to Charles Carter», in The Debate on the Constitution, Part One, New York, Literary Classics of the United States, Inc., 1993, p. 612.
[8] In una lettera a Jefferson alla fine del 1786, così Jay esprimeva la sua preoccupazione: «L’inefficacia del nostro governo diventa quotidianamente sempre più evidente. Le nostre finanze sono in una situazione difficile ed è probabile che ci saranno dei cambiamenti prodotti dallo scatenarsi delle passioni o dal manifestarsi della saggezza. Uno spirito di licenziosità più formidabile di quanto si potesse immaginare ha infettato il Massachusetts. Se anche in altri Stati dovesse diffondersi questo malessere, la situazione diverrebbe problematica». Donald L. Smith, John Jay, A Founder of a State and Nation, New York, Teachers College Press, 1968, p. 113. (La traduzione delle citazioni è mia)
[9] Solo poche settimane prima dell’avvio della Convenzione di Filadelfia Hamilton era intervenuto di fronte all’Assemblea dello Stato di New York sulla questione della richiesta di indipendenza del Vermont. Egli propose di rifiutare sia l’ipotesi di soffocare la secessione con l’intervento armato sia di soddisfare le richieste del Vermont: se New York non era più in grado di mantenere l’unità con il Vermont, «questa consapevolezza dovrebbe indurre più Stati a rafforzare l’Unione». In questa prospettiva Hamilton chiedeva di accettare il riconoscimento dell’indipendenza del Vermont solo a patto che questo nuovo Stato facesse parte dell’Unione. Questo precedente sarebbe stato molto importante per precisare i criteri dell’allargamento e della formazione di nuovi Stati nell’ambito degli Stati Uniti, come si può vedere dall’Articolo 4 della Costituzione che così recita: «Nuovi Stati potranno essere ammessi nell’Unione per decisione del Congresso; ma nessuno Stato nuovo potrà essere costituito entro la giurisdizione di qualsiasi Stato già esistente; e nessuno Stato potrà essere formato dalla riunione di due o più Stati già esistenti o di parte di essi, senza il consenso del Congresso degli Stati interessati, oltre che del Congresso federale». Broadus Mitchell, Alexander Hamilton, Youth to Maturity 1755-1788, New York, The Macmillan Company, 1957, p. 376.
[10] Alexander Hamilton, «Plan for National Government, June 18, 1787», Ralph Ketcham, The Anti-Federalist Papers and the Constitutional Convention Debates, New York, New American Library, 1986, p. 70.
[11] Nel 1803 Hamilton avrebbe giustificato in questo modo le preoccupazioni che erano state alla base del suo intervento a Filadelfia: «1) Per far durare nel tempo quei principi politici che potessero garantire un governo repubblicano al popolo; 2) per consentire alla teoria repubblicana di esprimersi pienamente e giustamente; 3) per realizzare un governo sufficientemente energico e stabile da conciliare la teoria con la pratica». Broadus Mitchell, Alexander Hamilton, Youth to Maturity (1755-1788), cit., p. 400.
[12] Benjamin Franklin, «Speech at the Conclusion of the Constitutional Convention, September 17, 1788», in The Debate on the Constitution, Part One, cit. p. 3.
[13] Alexander Hamilton, «Conjectures about the New Constitution, September 24, 1788», in The Debate on the Constitution, Part One, cit., pp. 10-11.
[14] Donald L. Smith, op. cit., p. 116.
[15] Il problema della legittimità delle istituzioni continentali non era nuovo nel dibattito politico americano. Basti pensare che già nel 1776 Thomas Paine lo affrontò in uno scritto di grande successo: Common Sense. Thomas Paine, Collected Writings, New York, Literary Classics of the United States, 1995, pp. 32-34.
[16] Così nel gennaio 1787 Jay scriveva a Washington: «Il potere della Convenzione mi sembra discutibile, in quanto la sua autorità non può che derivare da atti dei parlamenti degli Stati. Ma questi sono autorizzati ad alterare le costituzioni? Penso di no. Chi detiene il potere può sempre decidere di non rinunciarvi o di non estenderlo. Probabilmente la Convenzione non ordinerà, ma raccomanderà. In questo caso c’è il pericolo che le raccomandazioni producano interminabili discussioni e gelosie tra le parti. Sarebbe meglio il Congresso dichiarasse apertamente che l’attuale governo federale è inadeguato per esercitare i poteri previsti, mettendo in evidenza i difetti delle attuali istituzioni, reclamando l’estensione dei suoi poteri e prevenendo così il diffondersi di malsane gelosie. Ma nel frattempo i vari Stati dovrebbero immediatamente eleggere delle Convenzioni statali (nei modi scelti dalle loro assemblee generali), investite di un unico ed esplicito mandato: quello di nominare i delegati alla Convenzione generale incaricati di esaminare gli Articles of Confederation e di proporre le modifiche, gli emendamenti e le integrazioni ritenuti necessari e opportuni. Questi delegati, così scelti, avrebbero la facoltà di ordinare zione delle riforme proposte con la stessa forza e lo stesso valore vincolante degli attuali Articles. Nessuna riforma del governo potrebbe essere fatta, né avrebbe successo se non fosse riconducibile alla sola fonte della vera autorità: il popolo». Donald L. Smith, op. cit., p. 116.
[17] «Vi chiediamo di lasciarci brevemente spiegare le cogenti ragioni che, tra le altre, ci hanno indotto ad essere contrari al consolidamento degli Stati. Queste ragioni riducibili a due: 1) i limitati e ben definiti poteri entro i quali agivamo, e che non potevano, sotto nessun aspetto, contemplare l’idea di prevedere una Costituzione generale che sovvertisse quella dello Stato; 2) la convinzione dell’impraticabilità di stabilire un governo generale per tutti gli Stati Uniti capace di estendere i benefici essenziali della sua opera per tutti… Queste sono le ragioni per le quali abbiamo maturato il convincimento che un sistema di governo consolidato non avrebbe potuto, in alcun modo, essere preso in considerazione dal parlamento di questo Stato. Infatti, poiché l’adozione delle misure previste dalla Costituzione tendevano a privare il governo dello Stato dei suoi essenziali diritti sovrani e a porlo in una condizione subalterna, era impensabile che gli atti della Convenzione potessero essere in qualche modo approvati dallo Stato. Tutto ciò ci convinse che i nostri poteri non potevano implicare il sovvertimento della nostra Costituzione che, in quanto espressione del nostro popolo, poteva essere abrogata solo dietro sua espressa volontà e non da un organo legislativo autorizzato da esso soltanto a preservarla». «Robert Yates and John Lansing, Jr, to Governor George Clinton, January 14, 1788», in The Debate on the Constitution, Part Two, cit., p. 3.
[18] «James Wilson’s Speech at a Public Meeting, Philadelphia, October 6, 1787», in The Debate on the Constitution, Part One, cit., p. 65.
[19] «Elbridge Gerry to the Massachusetts General Court, November 3, 1787», in The Debate on the Constitution, Part One, cit., p. 231.
[20] Ibid., p. 232.
[21] Ibid., p. 233.
[22] Allora era comune per federalisti ed antifederalisti usare pseudonimi. Questa scelta era dettata da motivi retorici, dal desiderio di esporre le proprie idee senza che il lettore venisse influenzato dalla fama dell’autore, ma anche in alcuni casi da motivi meno nobili, quali il poter offendere la parte avversaria dietro l’anonimato per non incorrere nel rischio di essere denunciati per calunnia. Come per i federalisti Publius divenne la firma che nascondeva Hamilton, Madison e Jay nei Federalist Papers, così dietro pseudonimi come Brutus, Cincinnatus, One of the Common People, A Democratic Federalist, A Federal Farmer, Centinel, ecc., si celarono altrettanti antifederalisti.
[23] «The Genuine Information II», in The Debate on the Constitution, Part One, cit., pp. 640-44.
[24] Consultato in italiano in Paolo Vervaro (a cura di), Hamilton-Clinton, Lettere sulla Costituzione federale, Napoli, Guida Editore, 1996.
[25] «Si è poi voluta fare una distinzione, più sottile che esatta, tra CONFEDERAZIONE e CONSOLIDAMENTO degli Stati. Si è, così, affermato che caratteristica essenziale della prima dovrebbe essere un’autorità ristretta ai propri membri, solo in quanto Stati, senza giungere sino agli individui dai quali ciascuno Stato è composto. Si sostiene che l’assemblea della confederazione non dovrebbe avere interferenza alcuna in questioni di amministrazione interna dei vari Stati. Si è inoltre insistito, come qualità essenziale di un governo federale, sulla necessità di pariteticità di voto tra i vari Stati membri. Queste posizioni sono, nel complesso, arbitrarie; esse non sono giustificate né in linea di principio, né dai precedenti. In effetti, è avvenuto che i governi di questo tipo si siano in genere comportati nella maniera che questa distinzione, già resa nota, vorrebbe addirittura inerente alla loro propria natura; ma in moltissimi casi si sono avute ampie eccezioni alla regola, il che serve a dimostrare, per quanto vale l’esempio, che una regola assoluta in materia non esiste. Si dimostrerà poi chiaramente, nel corso della nostra inchiesta, che ogniqualvolta è prevalso il principio di cui si dibatte, ciò è stato causa di irrimediabili disordini ed inefficienza del governo. La definizione di REPUBBLICA CONFEDERATA sembra implicare semplicemente un ‘insieme di società’, o un’associazione di due o più Stati in un unico Stato. L’estensione, le modifiche, e l’oggetto dell’autorità federale sono tutte questioni meramente discrezionali. Fino a che non venga abolita ogni forma di organizzazione separata dei membri, fino a che tale organizzazione sussista per scopi locali, per quanto essa dichiari piena e incondizionata lealtà all’autorità centrale dell’Unione, l’insieme continuerebbe ad essere, in teoria e in pratica, un’associazione di Stati, o confederazione che dir si voglia. La Costituzione che viene proposta, lungi dall’implicare una abolizione dei governi statali, li rende parti costituenti di una nazione sovrana, concedendo loro una diretta rappresentanza in Senato, e lasciando nelle loro mani una buona parte della sovranità. Il che corrisponde in pieno al concetto di governo federale in ogni possibile e ragionevole estensione del termine». Alexander Hamilton in Il Federalista, cit., IX, pp. 187-88.
[26] «Pertanto la Costituzione proposta non è né una costituzione nazionale in senso stretto, né una federale, ma una combinazione di entrambe. Nelle sue basi è federale, e non nazionale; nelle fonti da cui derivano i poteri ordinari del governo è in parte federale e in parte nazionale; nella dinamica di questi poteri è nazionale e non federale; ancora, nella loro estensione è federale e non nazionale e, infine, nel metodo di introdurre emendamenti da parte dell’autorità non è né pienamente federale né federale né pienamente nazionale». James Madison, in Il Federalista, XXXIX, cit., p. 377. In questo articolo Madison, per rispondere alle critiche antifederaliste, attribuisce al termine federal il senso di Unione come confederazione di Stati sovrani e al termine national quello di uno Stato unitario.
[27] L’articolo 2 degli Articles of Confederation così recitava: «Ogni Stato conserva la propria sovranità, libertà ed indipendenza e tutti quei poteri, giurisdizioni e diritti che non sono stati espressamente trasferiti agli Stati Uniti adunati in Congresso».
[28] Cincinnatus (Arthur Lee), «V, Reply to Wilson’s Speech, November 29, 1787», in The Debate on the Constitution, Part One, cit., p. 114.
[29] Gli studiosi sono stati incerti se attribuire queste lettere al virginiano Richard Henry Lee o a Melancton Smith, di New York.
[30] «Letters From the Federal Farmer», in The Debate on the Constitution, Part One, cit., pp. 260 e seguenti.
[31] Ibid., p. 282.
[32] Saul Cornell, The Other Founders, Anti-federalism and the Dissenting Tradition in America, 1788-1828, Chapel Hill, The University of North Carolina Press, 1999, p. 85.
[33] Ibid., p. 87.
[34] Ibid., p. 101.
[35] Ibid., p. 102.
[36] In particolare nel lungo documento venivano indicati tre motivi di dissenso: «…Noi dissentiamo, in primo luogo perché è opinione della maggior parte degli studiosi delle forme di governo, confermata dall’esperienza, che un territorio molto esteso non può essere governato sulla base dei principi della libertà se non attraverso una confederazione di repubbliche unite nella gestione dei loro affari generali ed esterni, ma che conservano tutti i poteri di governo al loro interno… Noi dissentiamo, in secondo luogo perché i poteri attribuiti dalla Costituzione al Congresso necessariamente annulleranno ed assorbiranno i poteri legislativi, esecutivi e giudiziari dei vari Stati, e faranno nascere sulle rovine di questi ultimi un governo consolidato il quale, per la natura stessa delle cose, sarà dispotico: nulla, tranne un dominio dispotico, potrà infatti tenere insieme e governare questi Stati Uniti sotto un unico governo… Noi dissentiamo, in terzo luogo perché se fosse praticabile un governo consolidato di un territorio così vasto come quello degli Stati Uniti, compatibile con i principi della libertà e della felicità del popolo, la Costituzione avrebbe dovuto essere elaborata in modo da poter raggiungere questi obiettivi ma, per la particolare natura del nostro caso, essa produrrà un sistema dispotico con la stessa celerità con la quale si propagano le rivoluzioni violente». «Dissent of the Minority of the Pennsylvania Convention, December 18, 1787», in The Debate on the Constitution, Part One, cit., p. 535.
[37] Ibid., p. 273.
[38] Brutus XIII, in The Debate on the Constitution, Part two, cit., p. 222.
[39] Ibid., p. 225.
[40] «Richard Henry Lee to Edmund Pendleton, May 26, 1788», in The Debate on the Constitution, Part two, cit., p. 464.
[41] James Madison, «To Alexander Hamilton, June 27, 1788», in Madison Writings, New York, The Library of America, 1999, p. 407.
[42] Ibid., p. 407.
[43] Ibid., p. 408.
[44] «Noi, membri della Convenzione di questo Stato, abbiamo deliberatamente e consapevolmente considerato la Costituzione proposta per gli Stati Uniti. Parecchi suoi articoli sono sembrati così discutibili alla maggior parte di noi, che si è formata una maggioranza sufficiente a ratificarla senza porre condizioni per introdurvi degli emendamenti, solo perché è prevalsa la fiducia di ottenere la revisione costituzionale attraverso una nuova Convenzione generale e a seguito di una invincibile riluttanza a separarsi dagli altri Stati fratelli». «Circular, July 26, 1788», in The Debate on the Constitution, Part two, cit., p. 546.
[45] Ibid., p. 1012.
[46] Saul Cornell, op. cit., pp. 136 e seguenti.
[47] I Emendamento: «Il Congresso non potrà fare alcuna legge per il riconoscimento di qualsiasi religione. O per proibirne il libero culto, o per limitare la libertà di parola o di stampa, o il diritto che ha il popolo di riunirsi in forma pacifica ed inoltrare petizioni al governo per la riparazione dei torti subiti».
[48] James Madison, «Speech in Congress Proposing Constitutional Amendments», in Madison Writings, cit., p. 437.
[49] Il preambolo del Bill of Rights è esplicito in proposito, e ricorda come esso fu la conseguenza delle riserve espresse dalle Convenzioni di numerosi Stati che, al momento della ratifica, avevano espresso «il desiderio di includere ulteriori clausole e dichiarazioni, per prevenire ogni abuso o falsa interpretazione dei poteri previsti dalla Costituzione, anche al fine di meglio assicurare il perseguimento dei fini benefici previsti dalle istituzioni attraverso l’estensione della fiducia del popolo verso il governo» (4 marzo 1789).
[50] James Madison, in Madison Writings, cit., p. 440.
[51] Broadus Mitchell, Alexander Hamilton, The National Adventure (1788-1804), New York, The MacMillan Company, 1962, p. 15.
[52] James Madison, Madison Writings, cit., p. 444.
[53] Saul Cornell, op. cit., p. 160.
[54] Ibid., p. 161.
[55] Ibid., p. 161.
[56] Ibid., p. 162.
[57] Si tratta del Report on the Public Credit, del Report on a National Bank, del Report on the Establishment of a Mint, del Report on Manufactures, presentati da Hamilton tra il 1789 e il 1791 e di un secondo Report on the Public Credit del 1795.
[58] Saul Cornell, op. cit., p. 164.
[59] Ibid., p. 165.
[60] Madison, «Speech in Congress opposing the National Bank», in Madison Writings, cit., pp. 482-83.
[61] Ibid.
[62] Ibid., p. 486.
[63] Madison, «A Candid State of Parties, 1792», in Madison Writings, cit., p. 530.
[64] Così riassunse la situazione l’antifederalista William Findley: «Quelli che si opponevano all’adozione di questo governo senza emendamenti, nella loro zelante critica alla Costituzione sostenevano che sarebbe venuto il momento in cui una insidiosa fazione si sarebbe insinuata nel parlamento ed avrebbe interpretato la Costituzione in modo da sovvertire i governi; ma i difensori della Costituzione nelle varie Convenzioni degli Stati dichiararono che questa preoccupazione era assurda… Coloro i quali furono chiamati antifederalisti quando la Costituzione doveva ancora essere approvata, non erano contro il governo federale, ma… obiettavano che gli strumenti proposti non erano definiti con quella precisione, né protetti da quei freni che erano necessari», in Saul Cornell, op. cit., p. 169.
[65] In The Founders’ Constitution, Volume 5, Amendment XI, Document 1, reperibile presso http://press-pubs.uchicago.edu/founders/documents/amendXIs1.htmI, The University of Chicago Press, 2000. «L’autorità di questo caso fu messa in discussione dall’undicesimo emendamento, l’Articolo 11 della Costituzione, che prevede ‘che il potere giudiziario federale degli Stati Uniti non potrà essere chiamato a decidere in, qualsivoglia processo, di legge o di equità, iniziato o intentato contro uno degli Stati Uniti da cittadini di un altro Stato o sudditi di qualsivoglia Stato estero’. Tuttavia questa sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti rimase una pietra miliare nel dibattito politico tra federalisti antifederalisti. Questo emendamento, proposto il 2 dicembre 1793, venne adottato l’8 gennaio 1798».
[66] Saul Cornell, op. cit., p. 202.
[67] Ibid., p. 203.
[68] Ibid., p. 206.
[69] Le istruzioni date a Jay per negoziare con gli Inglesi erano state semplici e chiare: «respingere la guerra, per la quale non siamo pronti… affermare con dignità e fermezza i nostri diritti e il nostro titolo ad essere ripagati per le passate offese», Broadus Mitchell, Alexander Hamilton, The National Adventure 1788-1804, cit., p. 336.
[70] Sotto la minaccia di una guerra con la Francia, nel 1798 il Congresso approvò quattro leggi, note come Alien and Sedition Acts. La prima di queste leggi era il Naturalization Act, (18 giugno). Questa legge stabiliva che occorrevano 14 anni di residenza anziché 5 per essere considerati cittadini degli Stati Uniti. Quindi il Congresso approvò l’Alien Act (25 giugno), con il quale autorizzava il Presidente ad espellere quegli stranieri considerati «pericolosi alla pace e alla sicurezza degli Stati Uniti». La terza legge, l’Alien Enemies Act (6 luglio), consentiva l’arresto e la deportazione di qualsiasi straniero che agisse in tempo di guerra agli ordini di una potenza straniera. L’ultima legge, il Sedition Act (14 luglio), dichiarava reato qualsiasi tradimento degli Stati Uniti, comprese le pubblicazioni di «qualunque scritto falso, scandaloso e malizioso». Questo provvedimento, ovvio per qualsiasi legislazione, non lo era ancora per quella federale, alla quale non era unanimemente riconosciuta una legittimità statuale. A seguito di questa legge 25 editori di giornali vennero arrestati, ma l’opposizione agli Alien and Sedition Acts fu tale da favorire l’elezione di Thomas Jefferson nel 1800. Una volta in carica, Jefferson concesse la grazia tutti coloro i quali erano stati imprigionati in base al Sedition Act, e il Congresso restituì tutte le multe pagate con gli interessi. Tuttavia leggi di questo tipo continuarono far parte della storia degli Stati Uniti, soprattutto nei momenti di crisi internazionale. Negli anni Quaranta lo Smith Act vietava a qualsiasi persona di dichiararsi favorevole al rovesciamento del governo degli Stati Uniti. Nel caso Dennis v. U.S. (1951) la Corte Suprema stabilì che era direttamente applicabile ai membri del Partito Comunista, ma da quando la Corte ha modificato il suo parere, il Congresso non è più autorizzato a legiferare per la messa al bando di chiunque sostenga genericamente la necessità di rovesciare il governo federale, questi «stia per agire nell’immediato o in un prossimo futuro» (Brandenburg v. Ohio, 1969).
[71] Saul Cornell, op. cit., p. 240.
[72] Ibid., p. 245.
[73] Si veda Saul Cornell, op. cit.
[74] Madison, «Report on the Alien and Sedition Acts, 1800», in Madison Writings, cit., p. 611.
[75] Ibid., p. 613.
[76] Ibid., p. 615.
[77] «I recenti sforzi dei parlamenti della Virginia e del Kentucky di allearsi per resistere ad alcune leggi dell’Unione non possono essere considerati in altro modo se non come un tentativo di rovesciare il governo». La riorganizzazione della milizia virginiana aveva fatto della sopravvivenza del governo federale, «una prova di forza». Per opporsi a questa deriva Hamilton propose un piano federale per promuovere l’influenza e la popolarità del governo, attraverso 1) la ramificazione del sistema giudiziario; 2) una efficace politica per la costruzione di nuove strade; 3) una politica di incentivi all’innovazione, attraverso premi per invenzioni e nuove tecniche nell’agricoltura e nell’industria; 4) la creazione di un’accademia militare federale; 5) la suddivisione dei grandi Stati in Stati più piccoli; 6) leggi punitive nei confronti di chi sobillava alla rivolta. Broadus Mitchell, Alexander Hamilton, The National Adventure 1788-1804, cit., pp. 455-56. Per avere un’idea di quanta strada dovessero ancora percorrere gli Stati Uniti per raggiungere alcuni degli obiettivi indicati da Hamilton, basti ricordare la motivazione del veto opposto nel 1817 dall’allora Presidente Madison alla legge del Congresso sui canali e le strade: «Il potere di regolare il commercio fra i vari Stati non può includere il potere di costruire strade e canali, e di migliorare la navigazione dei corsi d’acqua per facilitare, promuovere ed assicurare quel commercio… Riferire il potere in questione alla clausola che si riferisce alla difesa comune ed al benessere generale sarebbe contrario alle coerenti regole di interpretazione [della Costituzione] affermate [nel tempo]… Una simile interpretazione della Costituzione avrebbe come conseguenza quella di attribuire al Congresso un potere legislativo generale anziché uno limitato come fin qui inteso». Madison, in Madison Writings, cit., p. 719.
[78] «Nulla è più sorprendente per un viaggiatore europeo negli Stati Uniti dell’assenza di quello che noi chiamiamo governo o amministrazione», Alexis de Tocqueville, Democracy in America, New York, Random House, 1990,1:3.

 

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