IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XLII, 2000, Numero 1, Pagina 58

 

 

L’EUROPA E LA NUOVA CONVENZIONE DI LOME’
 
 
1. La posta in gioco: il superamento del divario Nord-Sud.
 
Alla fine del mese di settembre 1998 sono iniziate le trattative tra Unione europea e paesi dell’Africa sub-sahariana, dei Caraibi e del Pacifico (ACP) che dovrebbero portare entro il 2000 al rinnovo della Convenzione di Lomé su basi nuove come, ad esempio, la creazione di zone di libero scambio tra Unione europea e i poli di integrazione regionale che dovrebbero essere costituiti dai paesi ACP.[1] Questa prospettiva comporterà il graduale superamento del sistema delle preferenze, cioè di quel sistema che consente ai prodotti dei paesi ACP di affluire liberamente sul mercato europeo, ma di proteggerli dalla concorrenza europea sul proprio mercato. Le proposte dell’Unione europea costituiscono quindi un tornante rispetto al passato e sono profondamente influenzate sia dagli equilibri politici mondiali emersi dopo la caduta del Muro di Berlino, sia dall’ondata liberista in materia di scambi commerciali che ha trovato nuovo vigore con il crollo dell’URSS.
I rapporti di potere che avevano presieduto alla nascita della Convenzione di Lomé (e, prima ancora, delle due Convenzioni di Yaoundé) sono profondamente cambiati con la fine della guerra fredda. L’Europa, a partire dalla seconda metà degli anni ‘40 fino all’inizio degli anni ‘90, era preoccupata di mantenere l’Africa nell’orbita di influenza dell’Ovest e la politica di allineamento del continente africano allo schieramento occidentale era affidata alla presenza militare in Africa della Francia,[2] mentre il resto d’Europa partecipava a questa politica con fondi pubblici erogati attraverso il Fondo europeo di sviluppo e, soprattutto, con contributi nazionali bilaterali. Gli aiuti europei venivano concessi in un quadro di sostanziale indifferenza riguardo al rispetto dei diritti umani e dei principi democratici ed ai colpi di Stato che, con l’avvio della decolonizzazione, hanno portato al governo, in numerosi paesi africani, dittature militari. In quella fase, la preoccupazione che era quella di impedire l’estensione dell’influenza sovietica al continente africano: il discorso di La Boule di Mitterrand, che sancisce la fine di periodo, è infatti del 1990, e le prime prese di posizione dell’Assemblea parlamentare UE-ACP a favore dei diritti umani sono dell’inizio anni ‘90.
Con la fine della guerra fredda, sono emersi diversi fatti nuovi. Oggi gli Stati Uniti sono l’unica superpotenza rimasta sul campo, anche se sempre più debole, e il quadro economico generale è profondamente cambiato: la nascita di nuovi poli di sviluppo, in Asia ed in America latina, ha portato all’estensione del numero di paesi che partecipa allo sviluppo del mercato mondiale. Inoltre è entrata in funzione la WTO, che ha come obiettivo l’abolizione di tutti gli ostacoli, tariffari e non, al commercio mondiale, ed ha cominciato a sostenere che le regole che vigono nell’attuale Convenzione di Lomé sono incompatibili con dell’Uruguay Round e ad insistere perché le condizioni di favore riconosciute ai soli paesi ACP vengano estese a tutti i paesi in via di sviluppo. La fine dell’Unione Sovietica, dal canto suo, ha aperto la via alle richieste di adesione all’Unione europea prima dei paesi dell’Europa centrale e dei paesi baltici: quando l’adesione diverrà effettiva, essa comporterà un crescente impegno dei fondi del bilancio comunitario a favore di questi paesi e in direzione della stessa Russia, che sta affrontando una crisi economico-finanziaria di grandi proporzioni. Infine, da parte dell’Unione europea, vi è il riconoscimento del parziale fallimento della sola politica degli aiuti pubblici fin qui seguita a favore dei ACP, una politica sempre meno accettata dall’opinione pubblica, soprattutto se l’erogazione di fondi pubblici avviene in maniera indiscriminata.[3] Si sta quindi determinando una forte pressione sulle risorse disponibili dell’Unione, e ciò mette in luce un importante vincolo di bilancio.
Di qui le proposte dell’Unione europea volte ad incentivare l’intervento del capitale privato, attraverso la progressiva apertura del mercato africano alla concorrenza europea e mondiale: in seguito al ruolo che i capitali privati hanno avuto nel successo economico dei asiatici e dell’America latina — una dimostrazione del fatto che i finanziamenti pubblici, da soli, non riescono ad assicurare il decollo economico dei paesi beneficiari — il loro maggior coinvolgimento viene visto con favore da più parti.[4] Questa constatazione tende però a sottovalutare la condizione politica che consente ai capitali privati di svolgere un ruolo costruttivo. In effetti, il successo economico dei latino-americani, come di quelli asiatici che hanno superato la soglia della povertà nell’arco di una generazione, è dovuto alla stabilità politica di queste aree assicurata dalla presenza americana, la quale ha a sua volta favorito l’afflusso di capitali privati in provenienza dall’Europa, dal Giappone e dagli stessi Stati Uniti. Senza il concorso di questo fattore esterno, difficilmente i capitali privati sarebbero affluiti in misura significativa e difficilmente quindi le sole politiche interne, per quanto illuminate, o i fondi pubblici, per quanto generosi, avrebbero potuto sostenere lo sviluppo economico.
Nel caso dell’Africa, il punto debole delle proposte europee è che, perché queste abbiano effetti strutturali, tenuto conto dello stato di perenne conflittualità militare che caratterizza il continente africano, esse devono essere sostenute da una politica estera europea che oggi manca e che solo un governo europeo può esprimere. Per quanto riguarda, invece, la politica interna dei paesi africani, non si intende certo sostenere che, come è ancora il caso di molti paesi dell’Asia, la stabilità interna debba essere assicurata da un regime autoritario, in quanto se fosse questa la ragione ultima dello sviluppo, come sostenne a suo tempo The Economist, l’Africa dovrebbe già essere un gigante economico mondiale. Ciò che è essenziale è la stabilità politica esterna, nel senso che devono cessare i conflitti militari tra Stati, ed interna, nel senso che devono cessare le ricorrenti guerre civili e che governi e parlamenti degli Stati africani si devono fondare sul consenso popolare e devono avere una durata minima certa.
Prima di commentare le proposte di riforma della Convenzione di Lomé, il cui esame, per quanto sintetico, è sufficiente a mettere in luce il fatto che l’Unione europea non ha il potere di realizzare gli obiettivi che si è data, è opportuno ricordare qual è la posta in gioco con la trattativa tra Europa e paesi ACP. I problemi da affrontare, in realtà, vanno ben al di là del rinnovo di una Convenzione in scadenza: la posta in gioco è il superamento della tradizionale contrapposizione tra il Nord industrializzato del mondo ed il Sud in via di sviluppo.
Negli ultimi decenni lo sviluppo ha compiuto passi avanti enormi, tanto che, come è stato sostenuto, «soltanto negli ultimi dieci anni almeno tre miliardi di persone, tra mille contraddizioni, si sono avviate sulla strada del benessere e della sicurezza. Dall’America latina all’Africa, popolazioni intere si sono avvicinate alla sfera dei consumi e hanno conosciuto nuove opportunità. Si sono allungate le aspettative di vita; avanzano domande di assistenza, di formazione, di reddito; nascono sindacati e la rappresentanza politica, lentamente, acquista la sua irriducibile pluralità».[5]
Se queste novità sono difficilmente contestabili e costituiscono una testimonianza dell’allargamento a nuove popolazioni della partecipazione alla vita politica mondiale, d’altra parte occorre anche constatare come ricordano le indagini dell’ONU, l’unico continente dove lo sviluppo non può ancora dirsi acquisito in maniera strutturale è l’Africa.[6] Questo, ovviamente, non vuol dire che nelle altre parti del mondo dove lo sviluppo è una realtà, come in America latina ed in Asia, non esistano più aree di povertà, cosa che del resto balza in evidenza pensando, ad esempio, alla Colombia, al Bangladesh, all’Afghanistan, a regioni della stessa India o della Cina. Tuttavia queste aree di mancato sviluppo finiranno per essere trascinate nella crescita dagli enormi poli di sviluppo che si stanno affermando in queste parti del mondo. L’Africa è l’unico continente dove, con la parziale eccezione del Sud Africa e di altre aree, non si può dire che si intravedono i segni del superamento dell’emergenza del sottosviluppo.
Tuttavia l’Africa non ci offre solo l’immagine di un continente sconvolto da endemici conflitti armati esterni ed interni. In realtà gli obiettivi di integrazione regionale che l’Unione intende perseguire con il rinnovo della Convenzione non sono velleitari, ma si fondano su una volontà africana che si è manifestata in ripetuti tentativi di integrazione economico-monetaria, che si sono rivelati inefficaci perché non sostenuti adeguatamente da una forte volontà politica esterna al continente africano. Ad esempio, ancora recentemente, nel corso dell’ultimo Vertice dell’Organizzazione per l’unità africana, tenutosi a Sirte, in Libia, nel settembre 1999, i leaders africani hanno ripreso i contenuti del Trattato di 1991, che prevede la creazione di un mercato unico africano, un parlamento, una Banca centrale, un fondo monetario africano ed una Corte federale.[7] I leaders africani riuniti nella città libica hanno convenuto di rinviare al Vertice dell’OUA che si terrà a Lomé nel corso del 2000 la decisione relativa alla stesura di un calendario per attuare il programma adottato ad Abuja.
Se a Lomé verrà deciso un ennesimo rinvio oppure se l’Africa procederà risolutamente, sia pure per tappe intermedie, alla unificazione politica, dipenderà però soprattutto dalla politica che l’Europa saprà esprimere nei confronti dell’Africa. Se l’Europa nel frattempo non avrà saputo darsi una politica estera e di sicurezza e non avrà saputo sviluppare misure di ampio respiro nei confronti del continente africano, è verosimile attendersi che a Lomé venga deciso un rinvio o migliore delle ipotesi, vengano adottate decisioni minime. Per l’Europa, quindi, si tratta di rilanciare, in chiave europea e democratica, una prospettiva politica che fu tentata dalla Francia alla vigilia del processo di decolonizzazione, ma che fallì sia perché fu solo una politica nazionale che non superava i rapporti di carattere coloniale, sia perché era condizionata dalla politica di contenimento dell’influenza sovietica nel continente africano. Sotto molti aspetti, si tratta di ricuperare, con una iniziativa europea, un ritardo storico rispetto agli obiettivi che la Francia, alla fine degli anni ‘50, intendeva perseguire. Con questa nota, quindi, non si vuole fare una ricostruzione storica dei tentativi di unione regionale, ma piuttosto contribuire a rendere consapevoli le forze politiche europee del fatto che l’idea di rapporti evolutivi tra l’Unione europea e l’Africa non è una prospettiva poco realistica, così come non è poco realistico uno sforzo europeo finalizzato a risolvere, nello spazio di una generazione, il problema del sottosviluppo in Africa.
 
2. Globalizzazione dell’economia e sottosviluppo del continente africano.
 
Come già detto, tutti i continenti sono oggi coinvolti nel processo di unificazione del mercato a livello mondiale, tranne il continente africano. Inoltre, quest’ultimo presenta la più elevata incidenza di capitali pubblici sul flusso totale dei capitali di cui beneficia, evidenziando così una forte dipendenza dall’aiuto pubblico,[8] al contrario di quanto avviene in altre aree del mondo dove i prestiti privati hanno avuto uno sviluppo maggiore.[9] Approfondendo le motivazioni del mancato coinvolgimento dell’Africa nello sviluppo dell’economia mondiale, si può osservare che le peculiarità africane si manifestano con riferimento sia al suo inserimento nel mercato mondiale, sia al grado di integrazione del mercato interno africano, sia, infine, alla scarsa attrattività che presenta il continente per gli investimenti privati. L’export totale dei paesi africani, secondo il GATT, nel 1991 è stato pari a 99 miliardi di dollari, lo stesso livello di 10 anni prima. La quota dell’export africano, sul commercio mondiale, che nel frattempo si è sensibilmente incrementato, si è ridotta dal 5% nel 1981 al 2,8% nel 1991: l’Africa quindi, malgrado molti suoi paesi esportino una quota importante del proprio Pil, ha progressivamente perso quote di mercato a livello mondiale ed oggi è un’economia più chiusa rispetto al resto del mondo. Ma i paesi dell’Africa sono anche chiusi ognuno rispetto agli altri, come mostrano alcuni confronti relativi alla dimensione del commercio infra-regionale delle principali aree mondiali. Ad esempio, secondo il GATT, mentre nel 1991 il commercio intra-europeo ha rappresentato il 72% dell’intero export dei paesi europei, il commercio intra-asiatico il 46% dell’intero export dei asiatici, quello intra-americano del nord il 33% e quello del sud il 16%, il commercio intra-africano è stato pari solo al 6,6% dell’export totale del continente.[10]
Ancora più significativi sono i risultati di un’indagine dell’ONU sugli investimenti diretti all’estero delle trans-national corporations (TNC), secondo la quale il mercato africano non è ancora sufficientemente attrattivo per gli investitori esteri. Nel periodo 1981-85, il flusso investimenti esteri diretti delle TNC nell’America latina era a 6 miliardi di dollari all’anno e nel 1992 è salito a 16 miliardi; nello stesso periodo, gli investimenti diretti esteri nel Sud-Est asiatico (Giappone escluso) sono passati da 5 miliardi di dollari all’anno a 21 miliardi. In Africa, invece, nel 1992, con 2 miliardi di dollari, gli investimenti sono rimasti pari allo stesso livello medio annuo della prima metà anni ‘80[11] e si sono concentrati in pochi paesi. Questi dati relativi scambi intra-africani ed agli investimenti privati, dal punto di vista delle opportunità di crescita dell’Africa sono di una particolare gravità, in quanto se, da un lato, l’azione delle multinazionali pone un problema di controllo democratico a livello mondiale, d’altra parte è anche vero che esse sono uno degli strumenti di sviluppo e di unificazione del mercato. Secondo l’ONU, le cosiddette TNC alimentano più del 70%, del commercio mondiale, ed in particolare si stima che il 25%, del commercio mondiale sia costituito da scambi tra società appartenenti allo stesso gruppo multinazionale.[12]
La conclusione evidente è che il continente africano, nella misura in cui non riesce ad attirare gli investimenti delle TNC, resta escluso dal processo di globalizzazione dei mercati, che sta portando ad una sempre più spinta divisione internazionale del lavoro ed alla nascita di una economia mondiale. Ma occorre notare che il limitato afflusso di capitali privati verso il continente africano non ha una motivazione economica, bensì politica. Secondo uno studio della Banca mondiale, gli investimenti diretti che vengono realizzati in Africa presentano una redditività mediamente doppia rispetto ad altre aree in via di sviluppo del mondo: tale differenza dà la misura della estrema selettività degli investimenti, imputabile al maggior rischio politico di cui gli investitori devono tenere conto e che influenza e limita l’afflusso di capitali privati.[13]
Con il prossimo rinnovo della Convenzione di Lomé, si stanno quindi modificando gli orientamenti che l’Unione europea dovrebbe assumere in vista della scadenza della Convenzione di Lomé IV all’inizio del 2000. Il mandato che la Commissione europea ha ricevuto alla fine del 1998 per l’avvio delle trattative, testimonia dell’intento europeo di inserire l’economia africana in quella mondiale. Tuttavia, senza il sostegno di una forte volontà politica, che solo un governo europeo può assicurare, la politica europea rischia di risolversi in un disastro economico per il continente africano.[14] Tra gli orientamenti più rilevanti ai nostri fini, possiamo ricordare: l’intenzione di legare la nuova Convenzione al sostegno da darsi ai processi di unificazione regionale; una graduale liberalizzazione degli scambi commerciali tra Africa ed Europa e quindi l’abolizione progressiva delle preferenze commerciali di cui hanno fin qui goduto le imprese africane; lo sviluppo dell’iniziativa privata; una politica dell’aiuto non più basata sul finanziamento dei singoli progetti, bensì del bilancio pubblico dello Stato africano beneficiario, lasciando a quest’ultimo la responsabilità di attuare il proprio piano di sviluppo, con verifiche annuali da parte europea come garanzia sull’efficace utilizzo degli aiuti. L’altro obiettivo che si pone l’Unione europea è politico ed è quello di destinare più mezzi al servizio della prevenzione dei conflitti, rafforzando soprattutto la capacità di azione delle organizzazioni africane, come l’OUA e le organizzazioni sub-regionali.[15]
 
3. Un «Piano Delors» ed una politica europea per il rilancio dell’unità politica del continente africano.
 
L’Europa nel suo complesso ha indubbiamente delle potenzialità decisive nella politica di sostegno allo sviluppo. Essa è il principale finanziatore dei paesi in via di sviluppo, con più del 50% dei fondi messi a disposizione dai paesi industrializzati; tuttavia questa, ad oggi, costituisce appunto solo una potenzialità, in quanto il dato tiene conto anche dei finanziamenti bilaterali nazionali.[16] Infatti il Fondo europeo per lo sviluppo (FED), da solo, rappresenta solo un quinto di tutto l’aiuto allo sviluppo ed oltretutto è ancora un fondo fuori bilancio, vale a dire finanziato da contributi nazionali e quindi condizionato dalla volontà politica dei governi nazionali. Infine va ricordato che, con riferimento alla politica degli aiuti a favore dell’Africa, nel corso degli ultimi anni i fondi europei sono scesi dal 65% del totale degli aiuti concessi ai paesi terzi al 42% nel 1990 ed al 33,5% nel 1995.[17]
Occorre quindi chiedersi se, nel nuovo contesto mondiale, l’Europa attuale, priva di un governo e di una politica estera e di sicurezza, possa sostenere il nuovo indirizzo per lo sviluppo del continente africano. Il nuovo indirizzo non tiene infatti conto dell’esistenza di un vincolo di risorse e di un vincolo politico, senza il cui superamento è molto difficile che l’Europa riesca a vincere la sfida dello sviluppo africano: anzi il rischio potrebbe essere quello opposto, cioè di un continente lasciato andare alla deriva, che finirebbe fatalmente per produrre effetti negativi (ad esempio la caduta delle esportazioni europee, l’aumento dell’immigrazione di origine africana, ecc.) sulla stessa economia europea.[18]
Per quanto riguarda il vincolo di bilancio, l’importanza delle sfide cui deve far fronte l’Europa è tale da far pensare che non si possano raccogliere fondi pubblici sufficienti per far fronte alla ricostruzione dei Balcani, al sostegno della Russia, del Mediterraneo e dell’Africa subsahariana, oltre che delle altre parti del mondo verso cui l’Europa è impegnata. Di qui il richiamo della Commissione europea alla necessità, come già detto, di attivare i capitali privati e, più in generale, l’intervento delle forze del mercato. Questo richiamo non deve però mettere in secondo piano il fatto che l’Europa deve essere dotata del necessario potere di imposizione fiscale diretto per sostenere la sua politica estera e di cooperazione. In secondo luogo, per quanto si fondi su solide ragioni economiche, esso rischia di non risultare efficace se prima l’Unione europea non dimostra all’opinione pubblica di voler una politica europea a favore dell’Africa, ponendo fine alla politica degli aiuti nazionali. Fino a quando l’Unione europea gestirà solo 1/5 degli aiuti allo sviluppo e il FED sarà finanziato da contributi nazionali, i paesi africani gareggeranno tra di loro per coltivare le relazioni con i singoli paesi europei piuttosto che con l’Unione europea e non si preoccuperanno mai di dare seguito agli impegni presi per la realizzazione dei progetti di unione doganale ed economico-monetaria che si sono succeduti nel corso degli anni; d’altro lato, finché i finanziamenti nazionali non saranno fatti confluire nel bilancio comunitario, l’Europa non potrà esprimere una efficace e credibile politica di aiuti a favore dell’Africa.
Con il riferimento al vincolo politico si intende l’assenza di una politica estera e di sicurezza europea, che non consente una vigorosa politica europea per l’Africa. Fino a che non si rimuove questo ostacolo, è difficile pensare che la politica europea, ipotizzata nelle proposte della nuova Convenzione, abbia qualche probabilità di successo. D’altra parte una politica estera per l’Africa è un problema che non può più essere eluso dall’Europa. Quest’ultima, che lo voglia o meno, con la creazione dell’euro è legata alle due aree del franco CFA nelle quali sono raggruppati gli Stati dell’Africa sub-sahariana occidentale e quelli dell’Africa sub-sahariana centrale, rispetto alle quali è necessario avere una politica europea di sostegno, utilizzando se necessario le riserve europee in eccesso rispetto a quelle che servono per sostenere il corso dell’euro sul mercato dei cambi. Per fare un esempio, si potrebbe ipotizzare che i raggruppamenti di riferimento debbano essere le unioni economiche avviate a partire dalla metà degli anni ‘90, vale a dire la CEDEAO (Communauté Economique des Etats de l’Afrique Occidentale) e la CEMAC (Communauté Economico-monétaire de l’Afrique Centrale), cioè quelle comunità di cui non fanno parte solo le zone del franco CFA, ma che sono più ampie. La ragione è che, con il riferimento alle aggregazioni più estese, nel caso dell’Africa occidentale si comprenderebbe la Nigeria e, nel caso dell’Africa equatoriale, la Repubblica Democratica del Congo: escludere questi due paesi, la cui popolazione è pari a quella delle rispettive zone del franco CFA di riferimento, non solo non consentirebbe di superare i conflitti armati che li vedono coinvolti, ma creerebbe l’occasione per futuri e più violenti scontri. Lo stesso discorso vale per l’Africa orientale e quella meridionale, dove gli interlocutori potrebbero essere il COMESA (Common Market of Eastern and Southern Africa) e la SADC (Southern African Development Community). Ciò non significa che, come sta avvenendo nel caso dell’esperienza europea, se alcuni paesi (ad esempio quelli delle zone del franco CFA, oppure dell’East African Community) volessero procedere più velocemente degli altri sulla via dell’unificazione economico-monetaria essi non debbano essere messi in condizione di farlo: l’importante è che la direzione ultima del processo sia quella dell’unificazione più ampia possibile.
Se la creazione di zone di libero scambio tra i poli di aggregazione regionale e l’Unione europea può rappresentare una svolta importante nei rapporti con i paesi africani, perché abbia successo, nel senso che queste sappiano attirare investimenti privati sul continente africano, occorre che, come è stato ricordato sopra, sia assicurata la stabilità politica del continente. L’importanza che viene data al ruolo dei capitali privati pone infatti problemi difficili in quanto il loro intervento non può essere lasciato alle sole forze del mercato: come dimostra l’esempio del Sud-Est asiatico e dell’America latina, se il capitale privato ha svolto un ruolo decisivo nel loro sviluppo, esso è anche responsabile dell’aggravamento della crisi economica e finanziaria che ha travolto queste aree a partire dalla metà del 1997. Per evitare il ripetersi di una situazione analoga è necessaria la presenza di un governo europeo, che non sia solo responsabile di una politica estera e di sicurezza europea, ma anche di una politica economica verso l’Africa che sappia dare il segnale evidente della volontà europea di sostenere lo sviluppo del continente e, in prospettiva, la sua unificazione politica: questo segnale non può che essere il lancio di un «Piano Delors» per l’Africa, vale a dire un programma di ampio respiro rivolto al continente, accompagnato da un chiaro aggancio delle due zone del franco CFA all’euro e dalla prospettiva dell’allargamento della zona di influenza dell’euro al bacino del Mediterraneo e del Medio Oriente.
Solo all’interno di queste scelte possono trovare attuazione le politiche di sostegno ai processi di unificazione regionale attualmente in corso. Un piano di questo tipo, che si accompagni alla nuova Convenzione di Lomé, assicurerebbe, accanto al flusso di aiuti pubblici, il necessario flusso di capitali privati e la correttezza del loro impiego. Da quest’ultimo punto di vista un ruolo decisivo potrebbe essere svolto dall’Assemblea parlamentare paritetica, la quale potrebbe diventare il garante della stabilità del continente africano, dell’avvio dei di democratizzazione e della correttezza dell’utilizzo dei fondi che vengono impiegati. Con l’Unione europea dotata di poteri effettivi, potrebbe infatti evolvere il ruolo, ora esclusivamente consultivo, dell’Assemblea paritetica, che potrebbe diventare la sede dove verrebbero discusse e concordate le politiche di sviluppo economico e di cooperazione in materia di sicurezza. L’ipotesi potrebbe essere quella di dar vita ad un’Assemblea dove sono rappresentate le Unioni di Stati, la quale diventi una sorta di Camera delle federazioni regionali dove, oltre all’Unione europea, sarebbero presenti le Unioni regionali africane. In questo quadro istituzionale potrebbe trovare la sua sede anche la politica di collaborazione con i paesi mediterranei dell’Africa settentrionale, che finora hanno dimostrato maggiore interesse all’associazione con l’Unione europea che all’adesione alla Convenzione di Lomé. Questa divergenza di interessi tra i paesi dell’Africa settentrionale e quelli dell’Africa sub-sahariana potrebbe venire composta, se le proposte dell’Unione europea, che hanno l’obiettivo di favorire i processi di integrazione regionale prevedessero la possibilità per i paesi mediterranei di entrare a far parte di un’Assemblea paritetica rinnovata e con funzioni politiche.
Infine, occorre ricordare che per assicurare la stabilità del continente africano non è sufficiente condizionare gli aiuti economici all’avvio dei processi di unificazione regionale, come fecero USA con il Piano Marshall dopo la fine della seconda guerra mondiale. In Africa si tratta di intervenire attivamente per porre fine a guerre civili tuttora in corso. Il documento preparatorio elaborato dalla Commissione europea indica infatti la necessità per l’Europa di «sviluppare una politica europea di prevenzione e di risoluzione dei conflitti».[19] Tuttavia la revisione del Trattato di Maastricht, approvata ad Amsterdam nel del 1997, non ha portato ancora allo sviluppo di una politica estera e di sicurezza europea, vale a dire alla creazione degli strumenti indispensabili a rendere credibile una politica di prevenzione dei conflitti in Africa.[20]
Il Consiglio europeo di Helsinki ha ribadito la stessa esigenza in relazione alla necessità che l’Europa abbia gli strumenti per l’esercizio di responsabilità mondiali e ha deciso di creare una forza militare comune europea. Tuttavia rimane aperto il problema essenziale, ossia la mancanza di un effettivo potere statuale europeo, controllato democraticamente, che è la condizione indispensabile affinché l’Europa contribuisca con efficacia all’eliminazione dei conflitti armati nel continente africano e all’avvio di un processo di democratizzazione degli Stati africani. Ciò costituirebbe il presupposto del decollo e del consolidamento della loro economia e darebbe consistenza ai progetti di unificazione regionale.
 
Domenico Moro


[1] Commission Européenne, Livre Vert sur les relations entre l’Union Européenne et les Pays ACP à l’aube du 21ème siècle (Défi et options pour un nouveau partenariat), Direction Générale du Développement, Bruxelles, novembre 1996.
[2] Nel corso del 1997, la Francia ha annunciato invece un forte ridimensionamento della presenza militare sul continente africano (cfr. Le Monde, 30 luglio 1997).
[3] La quota del mercato di importazione comunitario, per l’insieme dei paesi ACP, è passata dal 6,7% nel 1976 al 2,8% nel 1994 (Commission Européenne, op. cit., p. XV).
[4] United Nations, World Investment Report 1993 (Transnational Corporations and Integrated International Production), New York, United Nations Publication, 1993.
[5] M. D’Alema, Conclusioni di Massimo D’Alema (Festa nazionale de l’Unità), Bologna, settembre 1998, (http://www.democraticidisinistra.it/festnaz/bologna.htm).
[6] Secondo l’indagine annuale delle Nazioni Unite sullo sviluppo umano, che raggruppa gli Stati in tre categorie (alto sviluppo umano, medio sviluppo umano e basso sviluppo umano), sulla base di indici che tengono conto del reddito pro-capite, della speranza di vita, degli investimenti in sicurezza sociale ed istruzione, ecc., su 50 Stati annoverati tra quelli a basso indice di sviluppo umano, ben 45 appartengono al continente africano (v. ONU, 7° Rapporto sullo sviluppo umano, Torino, Rosenberg & Sellier, 1997).
[7] Le Monde, 11 settembre 1999 («Pour2001, l’OUA envisage une ‘Unionafricaine’»).
[8] A. Bhattacharya, P.J. Montiel, S. Sharma, «How Can Sub-Saharan Africa Attract More Private Capital Inflows?», in Finance & Development, n. 2, giugno 1997.
[9] Banca dei Regolamenti Internazionali, Evoluzione dell’attività bancaria internazionale e del mercato finanziario internazionale, Basilea, 1994, e A.D. Ouattara, Mondialisation et développement en Afrique, intervento al seminario su «L’Afrique, la mondialisation et le développement: risques et enjeux», Parigi, ottobre 1998.
[10] GATT, International Trade 91-92, Ginevra, 1993.
[11] United Nations, World Investment Report 1993 (Transnational Corporations and Integrated International Production), cit. Dall’inizio degli anni ‘90 si è avuto un buon aumento degli investimenti diretti esteri, anche se rimangono su livelli assoluti molto bassi rispetto ad altre aree dei paesi in via di sviluppo (A. Bhattacharya, P.J. Montiel, S. Sharma, op. cit.).
[12] UNDP, op. cit., p. 97.
[13] A. Bhattacharya, P.J. Montiel, S. Sharma, op. cit.
[14] Commission Européenne, Orientations en vue de la négociation de nouveaux accords de coopération avec les pays d’Afrique, des Caraibes et du Pacifique, comunicazione al Consiglio e al Parlamento europeo, COM(97)537 final, 29 ottobre 1997, e J.d.D. Pinheiro, Présentation du mandat de négotiation de l’Union européenne pour la future Convention UE/ACP, Comité des Ambassadeurs ACP, Bruxelles, luglio 1998.
[15] Commission Européenne, Livre Vert, cit., p. 10.
[16] Commission Européenne - Directorat Général pour le développement, Understanding European Conununity Aid, settembre 1997,
(http://europa.eu.int/comm/dg08/publicat/odi/fr/Osummary.htm).
[17] A.-M. Mouradian, «Menaces sur la Convention de Lomé (L’Union européenne divisée sur ses rapports avec le Sud)», in Le Monde Diplomatique, giugno 1998, p. 7.
[18] A.-M. Mouradian, op. cit.
[19] Commission Européenne, Livre Vert, cit., p. 45.
[20] Per rendersi conto del grado di impotenza in politica estera dell’attuale europea è sufficiente leggere il testo dell’intervento del Commissario europeo J. de Pinheiro all’International Peace Academy (Six Principles for Confiict prevention, New York, giugno 1997), le cui proposte, tenuto conto della gravità dei problemi africani, sono del tutto inadeguate.
(http://europa.eu.int./comm/dg08/speeches/970624.htm).

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