IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno LIII, 2011, Numero 1, Pagina 7

 

 

Spunti di riflessione riprendendo alcuni scritti
di Francesco Rossolillo*
 
SALVATORE ALOISIO
 
 
Gli scritti di Francesco Rossolillo sono, come la mole dei due volumi editi da Il Mulino[1] mostra, numerosi e, aggiungo, molto diversi tra loro per la loro natura (a corposi saggi si affiancano veloci riflessioni) e per gli argomenti di cui si occupano, che spaziano dalla filosofia politica alla teoria generale dello stato, dal diritto costituzionale alla politologia, con non rari interventi in ambito storico e sociologico. Insomma, una produzione vasta e varia che dà il senso dell’ampia cultura dell’autore.
Di fronte ad un così ampio spettro di argomenti diventa inevitabile la scelta di trattare i temi che, per varie ragioni, si sentono più vicini. Personalmente mi hanno sempre coinvolto, soprattutto, le riflessioni di Rossolillo su tematiche di teoria generale, nelle quali conciliava magistralmente la visione federalista ed il rigore scientifico. Mi riferisco a temi come la nozione di popolo e di sovranità e a questo proposito ricordo in particolare un suo saggio del 1995.[2]
Proverò, dunque, a riprendere alcuni spunti dei suoi scritti sulle tematiche anzi dette, privilegiando, come è ovvio, quelli che mi sembrano di particolare attualità.
1. Il concetto di sovranità.
Come anticipato, un elemento rilevante della riflessione di Rossolillo concerne la complessa nozione di sovranità, a proposito della quale interviene con due corposi saggi.[3]
Si tratta di una nozione dalla quale, affrontando il tema della Federazione europea, non si può prescindere. È così nonostante il progressivo diffondersi dell’idea, che Rossolillo già nel 2001 critica fortemente, di un inesorabile tramonto della sovranità, convinzione che conduce, sostanzialmente, al superamento dello Stato moderno col rischio di una degenerazione anarchica e alla totale assenza del diritto nella regolazione della convivenza civile.[4]
La rilevanza che il concetto di sovranità continua a mantenere per quanto riguarda il processo di unificazione europea e, più in generale, nelle relazioni internazionali ci viene ricordata, qualora ve ne fosse bisogno, con una certa frequenza. In punto di diritto, dal Tribunale costituzionale tedesco, nella sentenza sul Trattato di Lisbona,[5] il quale più volte pone la questione ineludibile dell’attribuzione della sovranità nella costruzione europea, anche se rifacendosi ad una visione molto arcaica della nozione.[6] Sul piano dell’effettività delle relazioni internazionali, il permanere della rilevanza della cosiddetta “sovranità esterna” ci viene quotidianamente ricordato dall’agire delle potenze emergenti, come Cina, India, Brasile ecc., oltre che da quelle esistenti (anche se alle prese con diversi problemi), gli USA innanzitutto, ma anche la Russia. Viceversa la rilevanza della sua assenza è testimoniata dall’inesistente ruolo avuto dagli Stati europei e dall’UE al vertice sull’ambiente tenuto di recente a Copenaghen.[7]
La sovranità, secondo Rossolillo, va intesa come potere di garantire in ultima istanza l’efficacia di un ordinamento giuridico.[8] Egli, inoltre, abbraccia – forse fin troppo fortemente, a mio avviso – l’idea che la sovranità debba essere considerata sempre indivisibile, anche in una Federazione. Questa posizione si stempera però nella condivisibile soluzione teorica, di impronta kelseniana, secondo cui la sovranità ha sede nella Federazione considerata nel suo complesso, che si articola (almeno) in un livello rappresentato dagli Stati membri ed in un livello centrale.[9] Quindi, sfocia in una idea di sovranità che possiamo chiamare “condivisa”. È però la Federazione la sede delle norme (costituzionali) che regolano i rapporti tra centro e Stati membri e delle istituzioni che le interpretano e applicano.[10] È, in fondo, proprio la questione della competenza sulle competenze, posta con forza come limite all’unificazione europea dal Tribunale costituzionale tedesco, il nocciolo del discrimine e della stessa nozione ultima di sovranità.[11]
Da questa impostazione dipende, quindi, una netta differenziazione tra Confederazione e Federazione, che non ammette possibilità intermedie. Forse, ma è una mia interpretazione, questa lettura è compatibile solo con l’esistenza di entità sui generis, provvisorie e in trasformazione continua, come quelle che hanno caratterizzato il processo di unificazione europea, a partire dalla CECA fino alla UE, anche se la possibilità che quest’ultima, nella sua interezza, possa evolvere in senso federale suscita legittimamente non pochi dubbi.
Al di là della competenza sulla competenza, sono individuati con nettezza i fondamenti materiali, gli strumenti indispensabili, dell’esercizio della sovranità: si tratta della politica estera, inevitabilmente accompagnata dal monopolio della forza armata e delle grandi linee di politica economica a cui si deve affiancare il controllo della moneta. Teniamo presente che lo scritto a cui ci riferiamo è quello del 1975, ben prima quindi che in questi settori l’Europa muovesse i primi, timidi passi.[12]
Inoltre, Rossolillo supera l’idea di un contrasto tra la sovranità dello Stato e la sovranità popolare, giungendo alla conclusione che la sovranità vada attribuita sia al popolo che allo Stato, considerati non come due entità distinte ma come polarità dello stesso fenomeno.[13]
In questa lettura Stato e popolo sono, dunque, elementi assolutamente inscindibili. Al di là di ogni interesse teorico, la questione è rilevante per i riflessi relativi alla realizzazione della Federazione europea. Infatti, molte delle obiezioni mosse – sia da politici che in ambito teorico – ai tentativi di progredire verso una Federazione europea si basano sull’affermazione secondo la quale è necessario che prima sia constatata l’esistenza un popolo europeo essendo solo dopo possibile affrontare la fondazione di uno Stato europeo.[14] Viceversa, pare assolutamente corretta l’affermazione secondo cui i due elementi nascono sostanzialmente insieme, in un processo che porta una collettività a ritenere di essere una comunità di destino.[15]
2. Il concetto di popolo.
Fondamentali sono, a questo punto, le osservazioni di Rossolillo sul concetto di popolo.[16]
La concezione tradizionale di popolo nazionale non lascia, infatti, alternative alla dicotomia popolo europeo che assume il potere costituente – popoli europei stipulanti un patto tra di loro. E – aggiungo io – se il parametro (ammesso e non concesso che ce ne sia uno solo) per valutare l’esistenza di un popolo europeo dev’essere il medesimo utilizzato con riferimento ai popoli nazionali, esso non potrà mai nascere (e, dati gli strumenti non di rado utilizzati per formare i popoli nazionali, viene spontaneo aggiungere: meglio così!).[17]
La soluzione che propone Rossolillo è perciò particolarmente interessante e, in gran parte, condivisibile:
I) Un popolo ha una natura processuale, non è qualcosa di metafisico o una realtà di per sé presente in natura. È quindi in continua evoluzione e su tale evoluzione opera anche l’interazione con le realtà istituzionali di riferimento.
II) La Federazione europea non può essere soltanto il risultato di un atto costituente di un popolo europeo nuovo o di un “contratto” tra i popoli nazionali europei. Essa non potrà che essere un atto complesso, che contiene entrambi gli elementi menzionati, quindi con caratteristiche proprie sia di una costituzione che di un trattato.[18]
Questa osservazione comporta, a mio avviso, l’inadeguatezza per la realizzazione di una Federazione europea, sia del metodo convenzionale, seguito da una Conferenza intergovernativa che firma un trattato destinato poi alla stipula a seguito delle ratifiche nazionali (procedura utilizzata per il Trattato che adotta una costituzione per l’Europa, come noto non entrato in vigore per il diniego delle ratifiche francese ed olandese), perché – nonostante una fase istruttoria un po’ più partecipata – si tratta comunque di un normale trattato internazionale (per giunta, nel caso di specie, vincolato all’unanimità delle ratifiche da parte degli Stati membri dell’UE), sia dell’idea di una ratifica mediante lo svolgimento di un referendum su base europea, perché l’adesione di ciascuno Stato nazionale rappresenta l’ultimo atto pienamente sovrano dello Stato e perciò non può che avvenire su base strettamente individuale.
III) Il popolo europeo non può essere valutato come tale sulla base di parametri di tipo nazionale perché – come dice Rossolillo – non potrà trattarsi che di un popolo federale europeo. Un popolo unito in una stessa comunità di destino ma pluralistico vale a dire caratterizzato dalla molteplicità dei lealismi dei suoi cittadini: nei confronti della Federazione, nei confronti degli Stati membri, nei confronti delle altre comunità “minori”.[19] Lealismo plurimo possibile solo in virtù del superamento dell’esclusività tipica del lealismo nazionale.
Alla luce di quanto detto non può non condividersi la conclusione secondo cui trasformazione istituzionale e coscienza del popolo federale europeo non hanno una successione codificata. Si possono solo identificare dei momenti cardine, che sono la legittimazione di un nuovo ordinamento da parte del popolo e lo spostamento del quadro della lotta politica dalle nazioni all’Europa.[20]
3. Il Parlamento europeo.
Elemento di fondamentale rilevanza per la legittimazione popolare di un potere europeo è, ovviamente, ilParlamento europeo (PE).
L’attenzione di Rossolillo a quest’organo è grande ma sparsa, soprattutto per quanto riguarda la fondamentale problematica delle procedura elettorale uniforme, in numerosi contributi (tra cui un libro scritto con L.V. Majocchi[21]).
Nonostante la grande rilevanza correttamente attribuita all’elezione diretta del PE, ai fini dell’unificazione europea, non mancano l’individuazione e la denuncia dei molti limiti della rappresentatività di questa istituzione. Le critiche principali, mosse fin dalla realizzazione del PE elettivo, sono di grande attualità tutt’oggi. Esse riguardano, in particolare, la composizione del PE e – in una certa misura – coincidono con i rilevi mossi, sia pur con enfasi esagerata e con chiaro intento polemico, dal Tribunale costituzionale tedesco.
Un elemento centrale delle riflessioni in esame è costituito dalla costante richiesta dell’adozione di un sistema elettorale uniforme per il PE, peraltro nel semplice rispetto di quanto previsto dai trattati.
Un idoneo sistema elettorale uniforme potrebbe, innanzitutto, premiando elettoralmente le liste dotate di collegamenti sovranazionali (in particolare mediante l’istituzione di un collegio unico europeo) spronare le forze politiche a rafforzare i loro legami europei, attualmente ancora di tipo meramente confederale, favorendo la nascita di veri partiti europei democraticamente costituiti nonché di una competizione politica sovranazionale e del relativo dibattito, contribuendo così alla crescita di quell’opinione pubblica europea attualmente allo stato embrionale.
Un sistema elettorale uniforme potrebbe, inoltre, essere utilizzato per ristabilire un rapporto di maggiore proporzionalità tra il numero dei deputati eletti in ciascun paese ed il numero dei rispettivi elettori, attualmente fortemente squilibrato a vantaggio degli Stati meno popolosi, elemento questo criticato aspramente, come accennato, dal Tribunale costituzionale tedesco.[22]
Quest’assurda sproporzione viene criticata da Rossolillo in scritti risalenti alla prima legislatura del PE elettivo,[23] nei quali essa viene attribuita al compromesso volto a conciliare forzatamente nella stessa camera la rappresentanza dei cittadini e quella degli Stati.
In effetti, in presenza di un eventuale aumento dei poteri del PE, in particolare in termini di legittimazione di un governo europeo, siffatto meccanismo non sarebbe perpetuabile per la difficoltà di conciliarlo col rispetto del principio democratico dell’uguaglianza del voto. La teoria del federalismo ben conosce la soluzione del problema, consistente nella realizzazione di un bicameralismo federale, mediante la trasformazione, rispettivamente, del Consiglio in una seconda camera basata su di una parità, assoluta o sostanziale, nella rappresentanza degli Stati e del PE in un’assemblea rappresentativa dei cittadini, su base sostanzialmente paritaria.
Nell’ambito di riflessioni di teoria generale, inoltre, in uno studio del 1985,[24] pare rilevante l’individuazione di un principio generale secondo cui le camere basse dovrebbero essere elette sulla base di collegi unici, in modo da evitare che i deputati antepongano l’interesse locale a quello complessivo. A questo principio, qui portato a conseguenze estreme, è conforme l’idea, ancora attuale, di avere almeno una parte dei membri del PE eletti sulla base di un collegio unico europeo, in precedenza accennata.
A proposito del bicameralismo federale, il medesimo studio ribadisce l’opportunità di una divisione dei compiti tale per cui solo alla prima camera (proporzionalmente rappresentativa del popolo) sia attribuita la funzione di controllo sull’esecutivo e l’iniziativa legislativa, mentre alla seconda spettano compiti di controllo posti a garanzia dei livelli di governo inferiori.
Si tratta, dunque, di considerazioni ancora fortemente attuali. Il Consiglio, infatti, non è diventato una seconda camera (i blandi tentativi in tal senso contenuti nel progetto di trattato adottato dalla Convenzione sono stati vanificati subito dalla CIG successiva).
Inoltre, la sproporzione nel rapporto tra eletti ed elettori dei diversi Stati membri in seno al PE è peggiorata.[25] Addirittura si è creata una situazione paradossale, per cui con l’adozione, in seguito all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, del meccanismo della maggioranza qualificata in seno al Consiglio calcolata attraverso un doppio voto, nel quale deve essere conseguita la maggioranza del 55% degli Stati membri che insieme rappresentino il 65% della popolazione dell’UE, il Consiglio finisce per avere una procedura decisionale che lo rende tendenzialmente più rappresentativo degli equilibri demografici di quanto non sia il PE! Questa situazione indebolisce la possibilità per il PE di diventare l’organo che legittima un governo europeo, nonostante alcuni piccoli passi in questo senso siano stati introdotti col Trattato di Lisbona nella procedura di nomina della Commissione, la quale è peraltro ancora molto distante dall’essere un governo dell’UE.
4. La Federazione nella Confederazione.
Desidero infine dedicare un cenno ad un tema a mio avviso da tempo di grande rilevanza e divenuto adesso ancor più centrale: quello dei rapporti tra l’UE ed eventuali forme di avanzamento del processo di unificazioni realizzate al di fuori del quadro a 27. Il punto di partenza sono le riflessioni dedicate nel 1986 da Rossolillo alla questione dei rapporti tra una (allora) auspicata UE e la CE.[26]
Risulta evidente (già in quegli anni!) la constatazione dell’impossibilità di realizzare avanzamenti dell’unificazione con tutti i membri. Allo stesso tempo pare impercorribile l’idea di una rottura unilaterale. Si pone dunque l’esigenza di procedere senza tutti i membri ma con il consenso di coloro i quali non intendono aderire: l’Unione con chi ci sta ma con il consenso di chi non ci vuol stare. Già allora era chiara la necessità che il trattato istitutivo di una Unione europea (in quegli anni il termine era usato con riferimento a qualcosa di ben più avanzato dell’UE nata con Maastricht, usurpando un po’ il nome del Progetto Spinelli) contenesse delle norme che ne rendessero possibile la coesistenza con la CE,[27] quadro nel quale gli Stati disposti a far parte dell’Unione sarebbero rimasti insieme a quelli indisponibili.
La predisposizione di uno strumento giuridico in grado di garantire la coesistenza delle due entità avrebbe assicurato (ed assicurerebbe, come vedremo tra breve) non pochi vantaggi. In particolare contribuirebbe ad eliminare ogni alibi, sia negli Stati contrari che in quelli favorevoli ad un avanzamento dell’unificazione, rendendo formalmente ineccepibile quella che chiamerei una rottura negoziata o concordata.
Oggi, tuttavia, sarebbe difficile pensare di riuscire ad inserire tutte le disposizioni di compatibilità tra la Federazione e l’UE dentro all’atto istitutivo della nuova entità o di utilizzare a questo fine qualcosa di simile alle cooperazioni rafforzate, già adesso previste.[28]
A mio avviso, il presupposto per la realizzazione di forme di unità politica di stampo federale non può che essere un accordo politico, prima di tutto, tra gli Stati intenzionati ad avviare un processo di maggiore unità e gli altri. Tale accordo – successivo ad una rottura tra gli Stati intenzionati all’unificazione e quelli contrari, che potrebbe maturare, ad esempio, al momento del voto per la convocazione di una Convenzione con maggiori poteri di quelli previsti dal Trattato o a seguito della presentazione (da parte del PE, magari) di un progetto di revisione dei trattati molto innovativo – potrebbe prevedere l’elezione (o la nomina) di un’Assemblea ad hoc composta solo dai rappresentanti degli Stati disponibili ad accettare il mandato che lo stesso accordo dovrebbe fissare. Allo stesso tempo, però, l’accordo dovrebbe dettare le condizioni di massima dei rapporti tra il soggetto giuridico che potrebbe scaturire dall’assemblea e l’UE esistente, prevedendo altresì la convocazione di una CIG per apportare le modifiche eventualmente necessarie al trattato UE (per esempio nel caso di organi comuni).
In questo caso la base giuridica comunitaria sarebbe molto tenue (l’accordo potrebbe essere preso in seno al Consiglio europeo, sotto forma di dichiarazione dello stesso, come accaduto a Laeken) e il progetto sarebbe sostenuto, sostanzialmente, da un accordo unanime comprendente il mandato per l’Assemblea e la gestione della convivenza tra il risultato dell’Assemblea e l’UE che continuerebbe ad esistere. La distinzione tra Stati pro-approfondimento e contrari si consumerebbe però in anticipo sulla definizione del mandato, e ciò consentirebbe una gestione più costruttiva dell’Assemblea ad hoc tra i soli Stati disponibili, procedura che andrebbe affiancata – preferibilmente – da una CIG diretta a stabilire nel dettaglio i termini di coesistenza tra le due strutture, sulla base dell’accordo di massima sancito dal Consiglio europeo contestualmente alla definizione del mandato per l’assemblea.


* Si tratta della rielaborazione dell’intervento svolto a Ferrara, il 2 marzo 2010, in occasione della presentazione della raccolta degli scritti di F. Rossolillo, promossa dal MFE e dall’Istituto di Storia contemporanea ferraresi, col patrocinio dell’Università e della Provincia di Ferrara.
[1] Francesco Rossolillo, Senso della storia e azione politica, Vol. I, “Il senso della storia”, Vol. II, “La battaglia per la Federazione europea”, Bologna, Il Mulino, 2009. Le pagine delle opere citate faranno riferimento a questi volumi, anche se daremo conto dell’anno e, talvolta, della sede che, in origine, ha ospitato lo scritto in questione.
[2] “La sovranità popolare ed il popolo federale come suo soggetto”, in F. Rossolillo, op. cit., Vol. I, pp. 721 e sgg., apparso su Il Federalista nel 1995.
[3] “Che cos’è la sovranità”, in F. Rossolillo, op. cit., Vol. I, pp. 499 e sgg. e “Appunti sulla sovranità”, ibid., Vol. I, pp. 805 e sgg., entrambi pubblicati su Il Federalista, rispettivamente nel 1975 e nel 2001.
[4] Cfr. “Appunti sulla sovranità”, inF. Rossolillo, op. cit., pp. 807 e sgg.
[5] Il testo della sentenza si può leggere, in lingua originale e in una versione semi-ufficiale in lingua inglese sul sito del Tribunale federale tedesco www.bundesverfassungsgericht.de nonché nella traduzione italiana a cura di J. Luther in
http://www.associazionedeicostituzionalisti.it/giurisprudenza/cortistraniere1/tedesca/KarlsruheLisbona.pdf.
[6] È stato osservato che il Tribunale costituzionale tedesco usa a proposito della sovranità toni propri della prima metà del secolo scorso (M.P. Chiti, “Am Deutschen Volke. Prime note sulla sentenza del Bundesverfassungsgericht del 30 giugno 2009 sul Trattato di Lisbona e la sua attuazione in Germania”, in www.astrid-online.it, p. 10).
[7] In proposito, tra le tante testimonianze, cfr. lo sconsolante resoconto di C. Bastasin, “Dopo Copenhagen / Europa e Usa a nozze sulla CO2” in http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/dossier/Italia/2009/commenti-sole-24-ore/03-gennaio-2010/europa-usa-nozze-co2.shtml.
[8] Cfr. “Che cos’è la sovranità”, in F. Rossolillo, op. cit., p. 503.
[9] Cfr. L. Levi, “La federazione: costituzionalismo e democrazia oltre i confini nazionali”, in A. Hamilton, J. Madison, J. Jay, Il Federalista, Bologna, Il Mulino,1997, il quale richiama, appunto, H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano, Comunità, 1966, V ed., p. 322.
[10] Sul punto, cfr. “Che cos’è la sovranità”, F. Rossolillo, op. cit., pp. 503-504; “Appunti sulla sovranità”, op. cit., pp. 815 e 818.
[11] Il Tribunale costituzionale tedesco, nella menzionata sentenza (§ 233), afferma il divieto di trasferire a livello europeo la c.d. Kompetenz Kompetenz, cioè il potere di decidere sull’estensione della propria competenza.
[12] Cfr. “Che cos’è la sovranità”, in F. Rossolillo, op. cit., p. 506.
[13] Ibidem, p. 508; “Appunti sulla sovranità”, op. cit., p. 813.
[14] Questa tesi ha avuto particolare diffusione nella dottrina tedesca, si vedano in particolare D. Grimm, “Braucht Europa eine Verfassung?”, conferenza tenuta alla Carl Friedrich von Siemens Stiftung, 19 gennaio 1994, trad it.: D. Grimm, “Una Costituzione per l’Europa?”,in G. Zagrebelsky, P.P. Portinaro, J. Luther (a cura di), Il futuro della Costituzione, Torino, Einaudi,1996 e E.-W. Böckenförde, Welchen Weg geht Europa?, München, Siemens Stiftung, 1997. Tra le righe anche la sentenza “Lisbona” del Tribunale federale tedesco va in questo senso, § 251.
[15] “Appunti sulla sovranità”, in F. Rossolillo, op. cit., pp. 814-5.
[16] “La sovranità popolare ed il popolo federale come suo soggetto”, in F. Rossolillo, op. cit., pp. 721 sgg.
[17] Per una severa critica delle tesi che tendono a dare una lettura etnica della nozione di popolo F. Mancini, “Per uno Stato europeo”, in Il Mulino, 1998, pp. 408 e sgg.
[18] Possiamo, incidentalmente, notare come questo passaggio sia tipico delle Federazioni classiche, come gli Stati Uniti d’America o la Confederazione Elvetica, che tuttavia hanno progressivamente assunto molti caratteri di tipo nazionale. A differenza di quanto accaduto in questi casi, viceversa, le caratteristiche degli Stati europei scongiurano la successiva trasformazione del popolo che dà vita alla Federazione in un popolo nazionale, portando dunque al pieno compimento il principio federale teorizzato in relazione alle Federazioni classiche.
[19] Cfr. “La sovranità popolare ed il popolo federale come suo soggetto”, in F. Rossolillo, op. cit., pp. 754-755. In questo contesto Rossolillo parla di una scomparsa dei popoli nazionali a favore di un popolo federale, dunque pluralistico. Come lo stesso autore prevede, l’affermazione suscita perplessità. Personalmente credo che il connotato di popolo, depurato dai connotati di assolutezza propri della concezione nazionalistica, possa essere attribuito ai vari livelli di governo sub federali.
[20] Cfr. “La sovranità popolare ed il popolo federale come suo soggetto”, in F. Rossolillo, op. cit., p. 758.
[21] Il Parlamento europeo. Significato storico di un’elezione, Napoli, Guida, 1979. I capitoli di Rossolillo sono in F. Rossolillo, op. cit., Vol. I, pp. 135 e sgg.
[22] Cfr. in particolare il § 285 della sentenza.
[23] ”Il ruolo del Parlamento europeo nella costruzione dell’unità politica europea”, in F. Rossolillo, op. cit.,Vol. II., pp. 29 sgg.; “Proposte per la soluzione della crisi istituzionale della Comunità”, in Id., op. cit., Vol. II, pp. 33 sgg., pubblicati in Il Federalista rispettivamente nel 1980 e nel 1981.
[24] “Per un nuovo modello di democrazia federale”, in F. Rossolillo, op. cit., Vol. I, pp. 571 sgg., cfr. in particolare pp. 583 e 588.
[25] Per l’aumento del numero dei microstati, fenomeno cresciuto con l’allargamento ad est anche in ragione di spinte disgregazioniste, premianti – peraltro – in seno agli organi dell’UE. Il rapporto tra elettori del paese più piccolo e del paese più grande in relazione all’elezione di un deputato è arrivato da 1 a 12. Il numero minimo di deputati europei riconosciuti ad uno Stato è stato fissato in ben 6, mentre in “Proposte per la soluzione della crisi istituzionale della Comunità”, op. cit., p. 49, elaborate in sede UEF nel 1982, si parlava di una soglia minima di 2.
[26] “Unione europea e Comunità”, in F. Rossolillo, op. cit., Vol. II, pp. 91 sgg., pubblicato in Il Federalista nel 1986.
[27] L’esigenza di garantire la compatibilità tra diversi livelli di integrazione è stata, in quel periodo, oggetto di importanti riflessioni, v. Antonio. Padoa Schioppa, “Unione europea e comunità europea: due assetti istituzionali incompatibili?”, Il Federalista, 30, n. 3 (1988), pp. 210 sgg. e Id. “Nota sulla riforma istituzionale della CEE e sull’Unione politica”, Il Federalista, 33, n. 1 (1991), pp. 63 e sgg., in part. p. 71.
[28] Sulle cooperazioni rafforzate dopo il Trattato di Lisbona v. G. Tiberi, “Uniti nella diversità: l’integrazione differenziata e le cooperazioni rafforzate nell’Unione europea”, in F. Bassanini – G. Tiberi (a cura di) Le nuove istituzioni europee. Commento al Trattato di Lisbona, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 287.

 

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