IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno LIII, 2011, Numero 2, Pagina 85

 

 

Verso una finanza federale europea
 
ALBERTO MAJOCCHI
 
 
I. Dalla crisi finanziaria alla crisi del debito sovrano.
 
1. Con lo scoppio della bolla immobiliare negli Stati Uniti ha inizio nel 2007 la più grave crisi che l’economia mondiale abbia dovuto affrontare a partire dalla seconda guerra mondiale. L’origine della crisi è di natura finanziaria: le banche statunitensi hanno concesso mutui ipotecari per l’acquisto delle case di proprietà anche a famiglie a basso reddito, con l’obiettivo dichiarato di favorire l’accesso di tutti alla proprietà della casa. In realtà, la garanzia per le banche era costituita dal fatto che la sempre crescente domanda di immobili favoriva un continuo aumento del prezzo delle case e il valore immobiliare della casa rappresentava la garanzia reale per il rimborso del mutuo: se i nuovi proprietari non erano in grado di pagare le rate del mutuo, le banche potevano sempre rivalersi prendendosi la casa e mettendola sul mercato a un prezzo superiore a quello di acquisto e, quindi, all’ammontare del mutuo. La proprietà diffusa della casa favoriva inoltre la concessione di ulteriori prestiti alle famiglie, che potevano così acquistare a credito l’arredamento per la casa, l’automobile e altri beni di consumo. L’uso generalizzato delle carte di credito per gli acquisti correnti, ben al di là delle possibilità economiche delle famiglie, rappresentava un ulteriore tassello per l’espansione della domanda e, quindi, della produzione. Un regno di Bengodi, costruito però su un castello di carta: la continua espansione del credito. A un certo punto la piramide crolla quando scoppia la bolla immobiliare e le banche sono costrette a richiedere il rientro sui crediti concessi. Cominciano per molti istituti le difficoltà finanziarie finché la crisi si manifesta in tutta la sua gravità con il fallimento di Lehman Brothers il 15 settembre 2008.
Ma la crisi finanziaria fa anche emergere con chiarezza la debolezza strutturale dell’economia americana. La domanda interna eccede — ormai da anni — la produzione domestica, e la differenza viene colmata attraverso importazioni nette di beni dall’estero (ossia le importazioni eccedono le esportazioni). A questo deficit esterno si aggiunge il deficit del bilancio federale. E questi squilibri vengono gestiti attraverso importazioni di capitali provenienti dalla Cina, ma anche da altri paesi industrialmente emergenti: per utilizzare l’enorme avanzo di bilancia dei pagamenti e l’accumulo che ne consegue di riserve valutarie, questi capitali vengono infatti investiti su larga scala in Treasury bonds americani. Nello stesso tempo, le importazioni di beni di consumo a prezzi molto inferiori a quelli americani consentono da un lato di garantire un enorme mercato di sbocco per i prodotti dei paesi industrialmente emergenti e, d’altro lato, di sostenere il tenore di vita delle famiglie americane nonostante la contenuta dinamica dei redditi pro-capite, soprattutto per le classi medio-basse. Il sogno di una crescita americana senza limiti, sostenuto dalla bolla immobiliare, dall’espansione creditizia, dal ruolo del dollaro come moneta internazionale e dalla piazza finanziaria di New York che attira capitali dal resto del mondo, si interrompe bruscamente con l’esplosione della crisi finanziaria.
La crisi, nata negli Stati Uniti, diventa ben presto una crisi mondiale. Le banche americane hanno venduto titoli “tossici” (che non hanno nessuna probabilità di essere coperti dai pagamenti di coloro che hanno ricevuto il prestito) impacchettati in altri titoli di natura diversa che vengono rivenduti sui mercati internazionali. Ben presto anche le banche europee sono coinvolte nel dissesto delle banche americane, obbligando gli Stati europei ad intervenire a sostegno del sistema bancario con forti iniezioni di denaro pubblico. Al contempo, le banche, in gravi difficoltà finanziarie, sono costrette a restringere il credito alla clientela, e in particolare al sistema produttivo. Le imprese in difficoltà riducono i livelli di attività produttiva e quindi si contrae il reddito delle famiglie, con un ulteriore impatto negativo sulla domanda di beni di consumo. La crisi si estende al settore reale e coinvolge ormai, anche se in misura diversa, tutte le altre aree industrializzate del mondo.
 
2. Di fronte al rischio di una recessione su scala mondiale gli Stati reagiscono con forza superando la tendenza a limitare sempre più l’intervento pubblico prevalsa dai tempi di Reagan e della Thatcher e finanziano pesantemente l’economia reale, garantendo al contempo — in particolare in Europa — i livelli di occupazione attraverso l’uso esteso degli ammortizzatori sociali. La risposta alla crisi è più forte e immediata negli Stati Uniti rispetto all’Europa, dove soltanto la Banca centrale — che è un organo di natura federale — è in grado di prendere con rapidità le decisioni necessarie per far fronte alla più grave crisi del dopoguerra. La risposta dell’Unione europea e dei paesi dell’area dell’euro è più lenta e più debole, per due ragioni che si rafforzano vicendevolmente: in primo luogo, l’Unione è un’istituzione di natura confederale per quanto riguarda gli interventi di politica economica, che si devono fondare essenzialmente sul coordinamento — lento e inefficace — di decisioni prese a livello nazionale; inoltre, per gli interventi di natura fiscale, le decisioni devono essere assunte all’unanimità, con gli ulteriori ritardi e i compromessi — inevitabili — necessari per raggiungere l’accordo.
La seconda ragione di debolezza è legata al fatto che in un’area economica strettamente interdipendente ogni paese ha convenienza a comportarsi da free rider, ossia ad attendere che gli altri paesi prendano l’iniziativa, dato che gli effetti positivi di interventi in altri paesi si estendono rapidamente a tutta l’area. In definitiva, nessun paese ha interesse ad assumersi gli oneri del finanziamento di un rilancio dell’economia europea, il cui costo ricadrebbe sui suoi cittadini, mentre ne beneficerebbero tutti i paesi dell’area economicamente integrata; d’altra parte, l’intervento dell’Unione è frenato, oltre che dalla debolezza istituzionale, dalle limitate risorse di bilancio di cui può disporre. In definitiva, gli Stati Uniti, che hanno un governo federale e un bilancio di dimensioni consistenti, possono sostenere con forza la ripresa dell’economia; in Europa l’intervento è affidato agli Stati membri, ha dimensioni più contenute anche a causa dei vincoli al disavanzo pubblico imposti dal Trattato di Maastricht e ha l’obiettivo — di grande rilievo, ma del tutto inadeguato rispetto alla rilevanza del fenomeno — di evitare che la crisi si trasformi in una recessione di ampiezza catastrofica.
 
3. Grazie agli interventi messi in atto da diversi paesi, il reddito delle famiglie tiene e gradualmente i processi produttivi riprendono un ritmo più sostenuto. Ricominciano a crescere con tassi elevati soprattutto i paesi di nuova industrializzazione e l’espansione della domanda mondiale sostiene le esportazioni dei paesi forti, in particolare della Germania, che cresce ormai anche grazie ad una accresciuta dinamica del mercato interno. Ma emerge subito che la crisi si è trasferita dal settore privato al settore pubblico.
Il caso più emblematico è rappresentato dall’Irlanda, che per anni è stato presentata come un modello da imitare. Per salvare il sistema bancario in crisi, il governo irlandese è costretto a enormi iniezioni di liquidità a favore del sistema bancario domestico e questa accresciuta spesa pubblica porta il disavanzo irlandese al 32,3% del PIL nel 2010. In Grecia il governo conservatore, con l’obiettivo di portare la dracma nell’euro, ha invece nascosto la polvere sotto il tappeto, facendo risultare un disavanzo inferiore al 3% del PIL conformemente ai vincoli imposti dal Trattato di Maastricht. Ma quando il nuovo governo guidato dal socialista Papandreou arriva al potere, scopre e denuncia pubblicamente l’enorme buco dei conti pubblici (il disavanzo in Grecia ha raggiunto il 10,5% nel 2010 e lo stock di debito il 142,8%). I mercati finanziari reagiscono immediatamente con una perdita di fiducia che rende più difficile il collocamento delle nuove emissioni di titoli greci, e scoppia così la crisi del debito sovrano.
I paesi deboli dell’area euro (i cosiddetti PIGS: Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna, secondo lo spregiativo acronimo anglosassone) sono fortemente penalizzati dal mercato, che ritiene che non siano più in grado di far fronte ai loro impegni. Per emettere titoli pubblici necessari per finanziare i loro disavanzi devono pagare tassi di interesse sempre più elevati, con un impatto fortemente negativo sull’equilibrio della finanza pubblica. Il rischio di default di questi paesi provoca una reazione degli altri paesi dell’area euro che, dopo lunghe ed estenuanti trattative, predispongono la concessione di un prestito alla Grecia di 110 miliardi di euro — e un ulteriore prestito di 109 miliardi viene deciso nella riunione straordinaria dei capi di Stato e di governo dell’area euro del 21 luglio 2011 per evitare che la Grecia debba ricorrere al mercato prima del 2014 — in cambio di un piano di severe misure restrittive in un paese in cui il PIL è diminuito in termini reali del 4,5% nel 2010 dopo una caduta del 2,0% nel 2009. E, dopo aver concesso un prestito di 85 miliardi all’Irlanda (di cui 35 destinati al salvataggio delle banche), un piano di dimensioni leggermente inferiori — pari a 78 miliardi di euro — viene varato per il salvataggio del Portogallo.
Ma le conseguenze politiche si fanno sentire pesantemente. Il governo tedesco perde importanti elezioni regionali, mettendo in evidenza l’avversione dei contribuenti tedeschi per operazioni di salvataggio di paesi considerati colpevoli di aver gestito in modo scorretto la finanza pubblica, dimentichi del fatto che un’enorme quantità di titoli dei paesi che oggi si trovano a dover fronteggiare una grave crisi finanziaria sono stati acquistati dalle banche tedesche (dai dati della Banca dei regolamenti internazionali emerge che le banche tedesche detengono 62 miliardi di dollari di titoli dei paesi periferici dell’area euro, di cui 22,7 miliardi di titoli greci), attirate dagli elevati tassi che si possono lucrare su questi titoli. E nelle recenti elezioni finlandesi, un nuovo partito anti-europeo raggiunge il 19% dei voti.
 
4. Per far fronte alla crisi del debito sovrano Daniel Gros e Thomas Meyer, in una Policy Brief del CEPS, hanno avanzato la proposta di creare un Fondo monetario europeo e questa idea è stata successivamente ripresa dal ministro delle Finanze tedesco Schäuble in un’intervista al Welt. Gros e Meyer partono dalla considerazione che, dato che gli Stati membri dell’area euro si devono attenere al principio di solidarietà reciproca e possono quindi aspettarsi di ricevere aiuti dagli altri paesi in caso di difficoltà finanziarie, essi sono parimenti tenuti a formare un fondo di risorse necessarie per far fronte a possibili richieste di sostegno. Per evitare i rischi di moral hazard legati inevitabilmente a ogni meccanismo assicurativo — in quanto i paesi membri dell’area euro potrebbero essere indotti a condotte finanziarie irresponsabili sapendo di poter contare su un supporto di risorse esterne in caso di necessità — i due autori propongono che le risorse per il Fondo siano fornite unicamente dai paesi che violano le regole fiscali del Trattato di Maastricht. In particolare, i contributi sarebbero calcolati in misura pari all’1% annuo sullo stock di debito in eccesso rispetto al limite del 60% e parimenti all’1% sull’eccesso di disavanzo annuale rispetto al limite del 3%. Così, nel 2009 la Grecia, con un rapporto debito/PIL del 115% e un disavanzo del 13%, avrebbe dovuto versare un contributo al Fondo pari allo 0,65% del PIL (0,55% per l’eccesso di debito e 0,10 per l’eccesso di disavanzo).
L’intervento del Fondo in aiuto di uno Stato in difficoltà si realizzerebbe o attraverso la concessione di un prestito o attraverso una garanzia concessa per una nuova emissione di titoli di debito pubblico. Il tiraggio sul Fondo sarebbe senza condizioni nei limiti dei versamenti effettuati da ciascuno Stato; al di là di questi limiti lo Stato in difficoltà dovrebbe presentare un programma di aggiustamento che sarebbe monitorato congiuntamente dalla Commissione e dall’Eurogruppo. La realizzazione concreta di questo piano sarebbe garantita dagli strumenti di enforcement di cui dispone l’Unione. In primo luogo, potrebbe essere ritirata la garanzia concessa dal Fondo ovvero essere sospese le erogazioni dei Fondi strutturali. In ultima istanza, la BCE potrebbe decidere di non accettare più come collaterale per la concessione di nuova liquidità i titoli del paese inadempiente. In definitiva, il Fondo potrebbe sostenere il paese in difficoltà, che tuttavia perderebbe la propria sovranità per quanto riguarda la gestione della politica economica, che verrebbe sottoposta al controllo del livello europeo che ha concesso gli aiuti.
Un’altra proposta che prevede l’emissione di un bond europeo per far fronte alla crisi del debito sovrano è avanzata da Depla e von Weizsäcker. In una Policy Brief del think tank Bruegel i due autori suggeriscono che, da un lato, gli Stati europei dovrebbero mettere in comune il loro debito pubblico in misura non superiore al 60% del PIL (circa 5.600 miliardi di euro) attraverso l’emissione di un bond europeo (Blue Bond), riducendo così in misura significativa il costo di questa parte del debito. Per la parte del debito che supera il 60%, le emissioni rimarrebbero una responsabilità nazionale (Red Debt), con costi più elevati che costituirebbero un forte incentivo per promuovere una maggiore disciplina fiscale. Lungo linee analoghe si muove la proposta di Juncker e Tremonti di emettere European Bonds attraverso un’Agenzia europea del debito, in una misura che dovrebbe progressivamente raggiungere il 40% del PIL degli Stati membri, assorbendo almeno il 50% delle nuove emissioni degli Stati membri. L’Agenzia potrebbe inoltre scambiare bonds nazionali contro bonds europei con uno sconto rispetto al valore facciale che cresce in misura proporzionale al grado di indebitamento del paese di cui vengono acquistati i bonds. Questo fatto rappresenterebbe un forte incentivo alla riduzione del deficit, così come avverrebbe per il Red Debt nella proposta di Depla e von Weizsäcker. Un’ipotesi simile di conversione del debito nazionale e di finanziamento di un New Deal europeo emettendo obbligazioni denominate in euro è avanzata anche da Amato e Verhofstadt, con l’adesione di Baron Crespo, Rocard, Sampaio e Soares.
 
5. Una proposta più avanzata che mira ad ulteriori sviluppi dell’Agenzia europea del debito è stata poi formulata in Belgio, sia a livello politico dal primo ministro Yves Leterme — e ripresa poi dal Presidente del Gruppo liberal-democratico al Parlamento europeo Guy Verhofstadt —, sia a livello accademico da Paul De Grauwe e Wim Moesen. In un’intervista a Le Monde del 5 marzo 2010 Leterme rileva che “le recenti tensioni sui mercati mostrano i limiti di un’Unione monetaria sprovvista di un governo economico” e propone di “creare o un Tesoro comune della zona euro o un’Agenzia europea del debito. L’Agenzia sarebbe un’istituzione dell’Unione incaricata di emettere il debito governativo della zona euro, sotto l’autorità dei ministri delle Finanze dell’Eurogruppo e della Banca centrale europea. La Banca europea degli investimenti svolgerà il ruolo di segretariato dell’Agenzia”. L’Agenzia prenderebbe a proprio carico il debito in essere, ma ogni Stato continuerebbe a pagare i tassi di mercato a seconda del proprio grado di solvibilità. In questo modo, osservano De Grauwe e Moesen, verrebbe meno il rischio che i paesi deboli si comportino da free riders ponendo a carico dei paesi più forti finanziariamente il peso del loro debito. Le nuove emissioni beneficerebbero invece di un tasso di interesse uniforme e, man mano che il vecchio debito viene a scadenza, il debito governativo della zona euro prenderebbe la forma di un debito unificato, “il che implica che ogni Stato membro garantirebbe in modo implicito il debito di tutti gli altri”.
In una prima fase, dopo aver fissato il livello di debito per ciascuno Stato in seno all’Eurogruppo, l’Agenzia raccoglierà in pari misura risorse sul mercato e le presterà allo Stato in questione il quale, se non rispetterà l’obiettivo di disavanzo, sarà costretto a rivolgersi direttamente al mercato pagando tassi di interesse più elevati in conseguenza del mancato rispetto del Patto. E questa penalizzazione rappresenterà un forte incentivo a rispettare le regole del Patto stesso. In un secondo tempo, si verrà a creare un vero e proprio mercato europeo unificato dei debiti pubblici, con vantaggi significativi in termini di liquidità, soprattutto per i paesi di minori dimensioni o più esposti al rischio di una crisi finanziaria, e altresì in termini di riduzione dei tassi di interesse, che avvantaggeranno anche i paesi più grandi. Infine, a più lungo termine, Leterme prevede che l’Agenzia possa diventare “un organo di finanziamento di grandi progetti di infrastrutture trans-europee e uno strumento per realizzare una politica di bilancio anticiclica”. Si tratta, evidentemente, di una proposta che ha rilievo politico in quanto prefigura, al di là dei vantaggi a breve termine per uscire in modo positivo dalla crisi greca, la creazione di un fondo per il finanziamento di una politica europea di sviluppo e, in prospettiva, di una finanza federale che accompagni le politiche nazionali di stabilizzazione anticiclica.
 
6. Un’analisi dell’origine della crisi del debito sovrano nei paesi dell’area euro è formulata con chiarezza in un recente saggio di De Grauwe, che prende lo spunto da un confronto fra l’economia inglese e quella spagnola. Nel 2011 lo stock di debito pubblico nel Regno Unito è pari al 89%, ossia del 17% più elevato di quello spagnolo (62%). Tuttavia i mercati finanziari hanno preso di mira la Spagna e non il Regno Unito, con una divergenza fra i rispettivi tassi di interesse che all’inizio del 2011 ha raggiunto i 200 basis points (ossia la Spagna deve offrire due punti in più di interesse rispetto al Regno Unito per vendere i propri titoli di Stato).
A giudizio di De Grauwe, la spiegazione di questo diverso comportamento dei mercati è legato al fatto che la Spagna fa parte di un’unione monetaria, mentre il Regno Unito mantiene il controllo della moneta in cui viene emesso il suo debito. “National governments in a monetary union issue debt in a ‘foreign’ currency, i.e. one over which they have no control. As a result, they cannot guarantee to the bondholders that they will always have the necessary liquidity to pay out the bond at maturity. This contrasts with ‘stand alone’ countries that issue sovereign bonds in their own currencies. This feature allows these countries to guarantee that the cash will always be available to pay out the bondholders”.
In effetti, se gli investitori internazionali percepissero un rischio di default per il Regno Unito, venderebbero immediatamente i titoli di Stato inglesi in loro possesso, provocando così una caduta del prezzo di questi titoli e, in parallelo, un aumento del tasso di interesse. Ma chi ha venduto i titoli non vorrà detenere le sterline così ottenute e probabilmente le rivenderà sul mercato delle valute, provocando una riduzione del valore della sterlina. Le sterline rimangono quindi disponibili sul mercato interno e lo stock di moneta è invariato. Parte di questa moneta verrà poi reinvestita in titoli di Stato. Ma, se questo non avvenisse e il governo trovasse difficoltà a vendere i suoi titoli sul mercato a tassi ragionevoli, potrebbe spingere la Banca d’Inghilterra ad acquistare i nuovi titoli, impedendo così che la crisi di liquidità spinga verso un defaultil governo del Regno Unito.
In una situazione in cui i rischi di default si presentassero in Spagna, gli investitori venderebbero i titoli spagnoli in loro possesso, facendone aumentare i tassi di interesse; ma utilizzerebbero probabilmente gli euro ottenuti da queste vendite per acquistare titoli di Stato tedeschi. La crisi potenziale del debito sovrano si trasformerebbe conseguentemente in una crisi di liquidità e il governo spagnolo incontrerebbe sempre maggiori difficoltà a collocare le nuove emissioni a tassi di interesse ragionevoli e, d’altra parte, non potrebbe esigere un intervento da parte della Banca di Spagna e non avrebbe il potere di indurre un intervento di sostegno da parte della BCE, che sola è in grado di controllare il livello di liquidità all’interno dell’Unione monetaria. Un paese che si colloca all’interno di un’unione monetaria risulta quindi fortemente condizionato dai comportamenti dei mercati finanziari.
Considerazioni analoghe vengono avanzate da De Grauwe per quanto riguarda il problema dei differenziali di competitività fra i paesi dell’Unione monetaria. Se i costi del lavoro per unità prodotto crescono nei PIGS in misura più elevata che nel resto dell’Eurozona e i paesi coinvolti non possono più svalutare la moneta, l’unica alternativa è avviare un processo deflazionistico che porti a una riduzione dei salari e dei prezzi per rendere l’economia maggiormente competitiva. Ma una situazione recessiva porta endogenamente a un peggioramento del disavanzo attraverso una contrazione delle entrate indotta dalla riduzione del tasso di crescita del PIL. Il peggioramento del disavanzo provoca un’ulteriore perdita di fiducia da parte dei mercati finanziari, che può rendere più elevato il rischio di default, con conseguenze negative anche sugli altri paesi dell’Unione monetaria a causa dell’elevato livello di integrazione finanziaria che esiste all’interno dell’area.
Le conclusioni di De Grauwe sono importanti, anche per valutare le recenti decisioni del Consiglio Europeo in tema di governance. “Like with all externalities, government action must consist in internalizing them. This is also the case with the externalities created in the Eurozone. Ideally, this internalization can be achieved by a budgetary union. By consolidating (centralizing) national government budgets into one central budget a mechanism of automatic transfers can be organised. Such a mechanism works as an insurance mechanism transferring resources to the country hit by a negative economic shock. In addition, such a consolidation creates a common fiscal authority that can issue debt in a currency under the control of that authority. In so doing, it protects the member states from being forced into default by financial markets”. E conclude: “This solution of the systemic problem of the Eurozone requires a far-reaching degree of political union”. Il problema da risolvere non è di natura tecnica, ma politica e si tratta quindi di individuare il cammino da percorrere per arrivare finalmente a una federazione compiuta. Come rileva giustamente Amartya Sen in un intervento sul Guardian dal titolo significativo (Europe’s democracy itself is at stake), “monetary freedom could be given up when there is political and fiscal integration (as the States in the US have)”. E con ancora maggior chiarezza Joschka Fischer conclude che “at the heart of resolving the crisis lies the certainty that the euro — and with it the EU as a whole — will not survive without greater political unification. If Europeans want to keep the euro, we must forge ahead with political union now; otherwise, like it or not, the euro and the European integration will be undone”.
 
 
II. Il piano di rilancio e la costruzione di una finanza federale.
 
7. A fronte dell’aggravarsi della crisi del debito sovrano e alla lentezza della ripresa dell’economia europea, i paesi membri dell’Unione europea si trovano stretti in una morsa sempre più rigida: da un lato hanno dovuto adottare misure, molte onerose e di efficacia immediata, per far fronte al rischio di fallimento di interi settori, sia finanziari che industriali; d’altro lato, sono stati costretti a far fronte all’esigenza ineludibile di sostenere i lavoratori che hanno perso il posto di lavoro e, in generale, le classi di reddito più basse che soffrono in misura maggiore degli effetti della crisi. Il tutto in una situazione della finanza pubblica che si deteriora endogenamente per la contrazione delle entrate a seguito della caduta del reddito, e che è altresì vincolata dalla necessità di non superare in misura significativa la soglia indicata dal Trattato di Maastricht per evitare di essere fortemente penalizzati dal mercato.
In considerazione delle difficoltà di bilancio che gravano sui paesi dell’area euro e che ne limitano pesantemente la possibilità di mettere in atto un’efficace politica di rilancio, è opinione ormai largamente diffusa che un ruolo decisivo per sostenere la ripresa debba essere giocato dall’Unione europea, riducendo le tensioni sociali che stanno diventando insostenibili in molti paesi e allentando — attraverso gli effetti espansivi automatici sulle entrate fiscali — i vincoli che gravano sui bilanci nazionali. Ma le risorse di bilancio dell’Unione sono limitate e, comunque, i governi sembrano al momento impegnati a discutere le misure di salvataggio senza preoccuparsi di mettere in atto un piano di più ampio respiro. Per cercare di uscire da questa impasse occorre quindi che i federalisti sappiano promuovere al più presto un’iniziativa per avviare — in piena sintonia con iniziative analoghe che stanno prendendo piede all’interno del Parlamento europeo — la realizzazione di un progetto politico che preveda la creazione per tappe di una finanza federale in Europa, lungo le linee seguite in passato per arrivare alla moneta unica. E il punto di partenza per l’elaborazione di questo piano è rappresentato dalla consapevolezza che la crisi attuale segna la fine di una fase del processo di crescita dell’economia europea, e che dalla crisi attuale non si esce con una politica che mira unicamente al sostegno della domanda di beni di consumo.
Per avviare la ripresa in Europa è invece necessario promuovere la realizzazione di un modello di sviluppo sostenibile sul piano economico, sociale e ambientale; in conseguenza, il motore di questa nuova fase di sviluppo è rappresentato dagli investimenti pubblici per la produzione non soltanto di beni materiali — necessari, come le infrastrutture (trasporti, energia, banda larga) — bensì anche immateriali, in particolare investimenti per la ricerca di base e per l’istruzione superiore e mirati al sostegno dell’innovazione tecnologica, al fine di promuovere un incremento della produttività e della competitività dell’industria europea, giunta ormai alla soglia della frontiera tecnologica. Ma questo rilancio degli investimenti pubblici si scontra, in Europa e negli Stati membri, con il vincolo di bilancio: in conseguenza alle restrizioni finanziarie diffuse in tutti i paesi dell’area euro, dal 1980 al 2010 la quota degli investimenti pubblici sul PIL si è invece ridotta da più del 3,5% a meno del 2,5%. Come è stato sostenuto recentemente anche nel rapporto Europe for Growth. For a Radical Change in Financing the EU, presentato dai parlamentari europei Haug, Lamassoure e Verhofstadt, il rilancio dell’economia europea richiede una forte inversione di tendenza, con un ammontare di nuovi investimenti pubblici pari all’1% del PIL europeo, ossia di circa 100 miliardi di euro.
 
8. In questa prospettiva, per uscire dalla crisi finanziaria che frena la crescita degli investimenti e, in conseguenza, del PIL in Europa, con le gravi tensioni sociali che ne conseguono e con la difficoltà di risanare i bilanci pubblici in un’economia stagnante, la prima tappa del piano è rappresentata dalla creazione di un Istituto fiscale europeo, il cui compito principale è di provvedere al salvataggio dei paesi che rischiano di essere travolti dalla crisi del debito sovrano e di preparare il terreno per la successiva evoluzione istituzionale verso una finanza federale e l’istituzione di un Tesoro europeo. L’Istituto fiscale potrebbe giocare il ruolo, nella costruzione di un’Unione fiscale, che è stato affidato all’Istituto monetario europeo nella costruzione dell’Unione monetaria e come premessa per l’avvio della Banca centrale europea.
Un passo importante in questa direzione è stato mosso con la decisione del Consiglio europeo del 24-25 marzo 2011 di procedere alla creazione di un European Stability Mechanism (ESM), anche attraverso una modifica dell’articolo 136 del Trattato che consenta di attivare il meccanismo di sostegno se necessario per garantire la stabilità dell’area euro. Lo ESM avrà una capacità di prestito di 500 miliardi di euro e dovrebbe entrare in funzione a partire dal giugno 2013, sostituendo la European Financial Stability Facility (EFSF), varata dall’Eurozona nel maggio 2010 e in funzione dal 7 giugno successivo. La EFSF è una società che emette obbligazioni e altri titoli di debito sul mercato per finanziare gli Stati dell’area in difficoltà con prestiti garantiti dagli Stati membri e subordinati all’attuazione di un piano di risanamento da parte dei paesi che ricevono gli aiuti. Nella riunione dei capi di Stato e di governo dell’area euro, tenutasi a Bruxelles il 21 luglio 2011, viene rafforzata notevolmente — fino a 440 miliardi di euro — la capacità di prestito della EFSF e, soprattutto, viene garantita la possibilità di acquistare sul mercato secondario titoli di Stato di qualsiasi paese dell’Eurozona (oltre a migliorare sostanzialmente le condizioni a cui vengono concessi i prestiti e ad allungare le scadenze per il rimborso).
Queste decisioni favoriscono una profonda trasformazione della EFSF che, da mero strumento di erogazione di prestiti per evitare il default di paesi che devono far fronte a una crisi del debito sovrano, tende ormai ad assumere i caratteri di prestatore di ultima istanza, potendo intervenire con l’acquisto di titoli pubblici anche sul mercato secondario. Ma un ulteriore passo in avanti viene realizzato, anche sul terreno istituzionale, con l’accordo per la creazione dello ESM, che è un’istituzione intergovernativa, creata con un trattato sottoscritto dai paesi dell’area euro. Sarà governata da un Board of Governors costituito dai ministri delle Finanze e prenderà decisioni a maggioranza qualificata, e soltanto la concessione e le condizioni di un prestito a un paese in difficoltà e la variazione nelle dimensioni e nella composizione degli strumenti a disposizione dell’ESM dovrà essere decisa con mutual agreement, il che implica che la decisione dovrà essere assunta all’unanimità dei paesi che partecipano al voto, e quindi un’astensione non pregiudicherà la presa di una decisione.
Molti limiti permangono in questa istituzione in quanto ogni decisione circa l’erogazione dei fondi è subordinata al consenso unanime dei governi che partecipano alla decisione; inoltre la concessione dei prestiti avviene a tassi penalizzanti (il costo della provvista più 200 basis points) ed è subordinata a una correzione fiscale costosa sul piano sociale, oltre che irrealistica in assenza di una politica europea che garantisca una ripresa dello sviluppo. Ma questa prima fase del processo — nella misura in cui al mercato venga annunciato con chiarezza che rappresenta il preludio alla creazione di una vera e propria finanza federale — dovrebbe essere in grado di garantire la stabilità finanziaria dei paesi deboli e, in conseguenza, ridurre lo spread rispetto ai titoli delle aree più forti, come è avvenuto negli anni ‘90 con la riduzione dei tassi di interesse per i paesi impegnati a predisporre le condizioni per l’ingresso nella moneta unica.
In una seconda fase è necessario avviare l’emissione di Eurobonds per contribuire alla provvista dei mezzi finanziari necessari per sostenere la realizzazione del piano di rilancio dell’economia europea, al fine di favorire un aumento della produttività e della competitività dell’Europa e, al contempo, di promuovere la transizione verso un’economia sostenibile. Al finanziamento degli investimenti capaci di garantire un rendimento sul mercato e, quindi, di coprire — con il reddito generato dagli investimenti — il costo del pagamento degli interessi e del rimborso del capitale, potrebbe provvedere con emissioni di Eurobonds la Banca europea degli investimenti. Ma per finanziare gli investimenti destinati alla produzione di beni pubblici europei (istruzione superiore, ricerca e innovazione, nuove tecnologie, conservazione dell’ambiente, delle risorse naturali e del patrimonio artistico, energie rinnovabili, mobilità soft), che rappresentano la conditio sine qua non per assicurare una crescita sostenibile dell’economia europea nel lungo periodo, occorre, da un lato, provvedere con emissioni di Eurobonds e, al contempo, garantire al bilancio europeo le risorse fiscali necessarie per il servizio e il rimborso del debito.
Per risultare politicamente gestibile, il bilancio europeo dovrà aumentare in misura assai contenuta e non dovrà comunque superare nel medio periodo il 2% del PIL, così come suggerito già nel 1993 dalla commissione di esperti incaricata di studiare il ruolo della politica fiscale nell’Unione economica e monetaria nel rapporto Stable Money - Sound Finances. Community Public Finance in the Perspective of EMU. E’ evidente che, se crescono le esigenze di investimenti da finanziare con il debito europeo, si rafforza parallelamente la necessità di procedere a una riforma nella struttura del bilancio europeo. In primo luogo, occorre naturalmente prevedere il ritorno a un sistema di vere e proprie risorse proprie. Non è infatti una vera risorsa propria la cosiddetta quarta risorsa, che non è altro che un contributo nazionale proporzionale al PIL e che potrebbe essere sostituita da una sovrimposta europea sulle imposte nazionali sul reddito — che non verrebbero toccate dalla riforma — versata direttamente dai cittadini al bilancio europeo in modo tale da garantire una maggiore trasparenza del prelievo e rafforzare al contempo la responsabilità di chi preleva le risorse.
 
9. Una nuova risorsa potrebbe essere assicurata al bilancio europeo con l’approvazione della proposta, avanzata recentemente dalla Commissione, di una direttiva per introdurre una carbon/energy tax dal 2013. In una situazione in cui più chiari appaiono ormai i rischi legati ai cambiamenti climatici e sempre più urgente emerge la necessità di sostituire combustibili fossili con fonti di energia alternativa, un’imposta commisurata anche al contenuto di carbonio delle fonti di energia appare uno strumento adeguato per avviare processi virtuosi di energy-saving e di fuel-switching verso le fonti di energia rinnovabile, riducendo l’impatto negativo sull’ambiente del consumo di energia e favorendo l’introduzione di processi produttivi meno energy-intensive. In questa prospettiva di riforma del bilancio, l’introduzione di una tassazione delle operazioni finanziarie di natura speculativa potrebbe essere valutata nell’ottica di garantire anche uno sviluppo più ordinato del sistema finanziario internazionale. Al contempo, parte del gettito di questa forma di tassazione potrebbe essere destinata al finanziamento della produzione di beni pubblici globali, attraverso un contributo europeo per promuovere la costituzione — in accordo con gli Stati Uniti e gli altri paesi del G20 — di un fondo mondiale per lo sviluppo sostenibile.
Nell’ultima fase, finalizzata alla costruzione di una vera e propria finanza federale, il bilancio, finanziato con risorse propriedell’Unione, sarebbe gestito da un Tesoro europeo di natura federale, responsabile della realizzazione del piano di sviluppo sostenibile e del coordinamento della politica economica dei paesi membri. In questo modo crescerebbe anche l’appetibilità degli strumenti di debito emessi dall’Unione, garantiti da prelievi che affluiscono direttamente alle casse federali. Una volta realizzata questa trasformazione istituzionale, appare quindi del tutto realistico prevedere l’istituzione di un ministro europeo delle Finanze, così come è stato proposto dal presidente della BCE Trichet e, successivamente, dal governatore olandese Wellink e da Jacques Attali.
Il piano finalizzato alla costruzione di una finanza federale e all’istituzione di un Tesoro europeo dovrebbe essere oggetto di una decisione del Consiglio europeo, che fissi da subito le scadenze delle diverse tappe e, soprattutto, la data finale che segnerà l’inizio del funzionamento dell’Unione fiscale. Ma una decisione di questa natura, per quanto rilevante, non è tuttavia sufficiente. Vi è una differenza di fondo fra l’Unione fiscale e l’Unione monetaria. La Banca centrale è un organo costituzionale di cui il Trattato di Maastricht sancisce l’indipendenza, con il compito — importante, ma limitato — di garantire la stabilità dei prezzi con interventi decisi in piena autonomia. Il Tesoro è un organo costituzionale di diversa natura in quanto il principio “No Taxation without Representation” è uno dei fondamenti della democrazia. Il Tesoro può operare con efficacia solo se ha consenso e deve quindi essere soggetto al controllo democratico del parlamento e agire nel quadro di un governo che sia rappresentativo della volontà popolare. In definitiva, la decisione di procedere alla costruzione di un’Unione fiscale, con un Tesoro e una finanza federale, deve essere accompagnata da una contestuale decisione che fissi la data per l’avvio della federazione compiuta, che contempli in prospettiva anche una politica estera e della sicurezza europea.
 
10. Un piano che includa fin dall’inizio l’obiettivo di giungere a una finanza federale avrebbe presumibilmente sul mercato dei titoli lo stesso effetto che l’obiettivo della moneta unica ha avuto sui differenziali di tassi di interesse. Diverse proposte per la creazione di un debito europeo sono state più volte avanzate; ma, come nel caso della moneta unica, queste proposte sono state finora respinte, in particolare dal governo tedesco e inglese. Il governo inglese si è opposto per ragioni di principio perché si rende conto con grande chiarezza che avanzare sul terreno della finanza europea presuppone al contempo che l’Unione evolva verso una struttura di tipo federale. A sua volta, il governo tedesco ha respinto l’idea di un bond comune europeo in quanto dalla sua emissione deriverebbe un costo addizionale per la Germania.
La fondatezza di questa previsione è legata all’idea — discutibile nella misura in cui la creazione di un debito europeo è legata alla costruzione per tappe di un’Unione fiscale di natura federale — che il mercato debba necessariamente incorporare nel prezzo del bond europeo il rischio per la quota di emissioni dei paesi più deboli. Inoltre, il governo tedesco non tiene conto degli effetti negativi che il deterioramento della finanza pubblica, alimentato dall’aumento del costo delle emissioni conseguente all’allargamento dello spread, e il rischio di default di questi paesi determinerebbero comunque sull’economia tedesca e, più in generale, sulle prospettive di sviluppo o, addirittura, di sopravvivenza dell’area euro. Il finanziamento con debito europeo di un piano di rilancio dell’economia è altresì non più eludibile in quanto, data l’interdipendenza fra le economie dell’Unione monetaria, ogni paese ha convenienza a comportarsi da free rider, ossia a non varare misure di sostegno dell’economia a livello nazionale potendo beneficiare degli effetti positivi derivanti da politiche di rilancio portate avanti negli altri paesi.
 
11. Da queste considerazioni si possono trarre due osservazioni conclusive. In primo luogo, anche a seguito della crisi l’Europa è vista sempre più come qualcosa, non solo di estraneo alla vita comune dei cittadini, ma addirittura come qualcosa di ostile, che impone vincoli e sacrifici senza garantire un futuro migliore e più sicuro. E’ quindi tempo di cambiare, mettendo in piedi rapidamente nell’area dell’euro un piano di sviluppo per rilanciare l’economia e l’occupazione europea. Il piano si può finanziare con l’emissione di titoli denominati in euro, garantiti dal bilancio europeo e destinati a raccogliere l’enorme massa di liquidità che circola in Europa. Se cambiano le prospettive di sviluppo e vengono risolti i problemi legati alla crisi dei debiti sovrani può rinascere la fiducia dei cittadini, favorendo così il passaggio verso uno sbocco federale del processo di unificazione europea attraverso la creazione di un Tesoro federale responsabile della gestione del bilancio e del coordinamento della politica economica europea per promuovere uno sviluppo sostenibile. Si verrebbe così a creare, dopo la moneta, il secondo braccio di uno Stato federale, in vista del completamento del processo con l’attribuzione all’Unione di un potere decisionale anche nel settore della politica estera e della sicurezza.
La seconda considerazione riguarda il perimetro entro cui è possibile avviare questo processo. Il punto di partenza è rappresentato certamente dall’area euro, dove si è ormai manifestata una sempre più crescente interdipendenza e dove è possibile prevedere ulteriori sviluppi nella direzione federale. All’interno di questo perimetro — di cui è impossibile definire a priori i contorni, ma che non coincide certamente con il quadro dell’Unione a 27 — si tratta di prevedere quali paesi possano farsi carico del ruolo dell’iniziativa. Storicamente si è sempre partiti da un’iniziativa franco-tedesca, con l’Italia che spinge nella direzione di un esito federale del processo. Il compito dei federalisti, come ai tempi della lotta per la moneta europea, è di impegnarsi per mobilitare le forze politiche e sociali, con l’obiettivo di promuovere una decisione politica da parte dei governi dell’area euro, stimolata dal sostegno del Parlamento europeo, per giungere alla creazione di un Tesoro europeo e di una finanza federale, un passo importante nella direzione della Federazione europea compiuta.
Al momento attuale è difficile prevedere quali saranno gli sviluppi della crisi del debito sovrano, ma essa ha comunque già avuto l’effetto di mostrare l’inadeguatezza dell’attuale costituzione dell’Unione economica e monetaria. Dieci anni di crescita dell’euro sembravano aver spazzato via i dubbi sull’efficienza delle regole di Maastricht e dei vincoli del Patto di stabilità. Ma, prima lo tsunami finanziario che ha colpito l’economia mondiale, poi la crisi greca e gli effetti che si sono manifestati in altri paesi hanno messo in evidenza la debolezza della struttura istituzionale dell’UEM. I governi dell’area euro sono riusciti ad evitare il collasso dell’economia provvedendo innanzitutto al salvataggio del sistema bancario e garantendo un minimo di sostegno al sistema produttivo al fine anche di evitare un crollo degli equilibri sociali. Ma né in seno all’Ecofin, né in seno all’Eurogruppo è stato possibile avviare una strategia seria per garantire in tempi brevi una ripresa significativa dell’economia, con una crescita adeguata della produttività e quindi della competitività del sistema industriale europeo.
La crisi greca ha messo inoltre in evidenza un ulteriore debolezza della struttura di governo dell’economia europea. Mentre la Banca centrale europea, che è un organismo federale e quindi è dotato di capacità decisionale, è intervenuta con immediatezza per promuovere la sostenibilità finanziaria della Grecia, garantendo al sistema la provvista di liquidità utilizzando come collaterale anche i titoli del debito pubblico greco, le decisioni sui meccanismi di sostegno finanziario in seno all’Eurogruppo sono state lente e probabilmente inadeguate. La ragione di questa debolezza discende evidentemente dalla natura confederale dell’Europa nella gestione della politica economica, che favorisce comportamenti da free rider e, con il diritto di veto, garantisce una rendita di posizione in particolare agli Stati più forti.
Come già avvenuto in passato, ogni crisi in Europa presenta un duplice aspetto. Da un lato, rende concretamente possibile la disgregazione dei risultati già raggiunti. Oggi il rischio più concreto è che si manifestino attacchi speculativi nei confronti di altri paesi dell’area euro, con gravi rischi per la sopravvivenza stessa della moneta europea. Ma, al contempo, ogni crisi rende possibili nuovi avanzamenti sul terreno di una maggiore integrazione in seno all’Unione, e in particolare per i paesi dove è più avanzato il grado di integrazione già raggiunto. Dopo la crisi greca, si è infatti aperto un dibattito fra coloro che intendono portare avanti il processo di integrazione, anche con la creazione di nuove istituzioni e l’avvio di nuove politiche, e coloro che invece intendono rafforzare i poteri di decisione a livello nazionale, impedendo di fatto una soluzione europea della crisi.
Negli ultimi tempi il pendolo dell’equilibrio fra il livello nazionale e il livello dell’Unione si è spostato notevolmente in favore di un ritorno del potere di decisione nelle mani dei governi nazionali e dell’organo di più alto livello che li riunisce nell’Unione, ossia nel Consiglio europeo, che molti considerano il depositario naturale del potere decisionale in materia di gestione della politica economica. Ma alcune proposte recentemente avanzate contengono invece passi in avanti significativi verso un governo più efficiente dell’economia europea, maggiormente sganciato dai poteri nazionali. Ma occorre non nascondere il fatto che il punto decisivo è essenzialmente politico: si tratta di trasferire a livello europeo il potere — che è stato finora custodito gelosamente dagli Stati membri — di gestire in autonomia le decisioni fondamentali di politica economica, completando così la costruzione dell’Unione economica e monetaria con la creazione di un Tesoro federale e con la possibilità di garantire un effettivo coordinamento delle politiche nazionali attraverso un potere, limitato ma reale, al livello europeo di governo.
Nella crisi del debito sovrano che ha avuto origine in Grecia si è in primo luogo manifestato un grave comportamento da parte del governo, con la manipolazione dei dati relativi ai saldi di bilancio. Ma essa è anche il frutto di una divergenza sempre più accentuata fra l’andamento reale dell’economia dei paesi deboli e degli altri partner dell’Unione. In questo senso anche un rafforzamento dei vincoli del Patto di stabilità, come proposto recentemente da più parti, appare del tutto inadeguato. Si tratta, invece, di rafforzare la possibilità di avviare una politica di sviluppo a livello europeo attraverso la disponibilità di maggiori fondi per promuovere un aumento della produttività e quindi della competitività del sistema economico dell’area euro. Ma occorre altresì rafforzare i poteri di coordinamento delle politiche economiche nazionali per evitare che andamenti divergenti dei diversi sistemi economici all’interno dell’area, che non possono essere compensati attraverso variazioni del cambio, portino in definitiva all’implosione dell’area euro. Hic Rhodus, hic salta. La crisi greca ha mostrato che i modesti avanzamenti istituzionali ottenuti con il Trattato di Lisbona sono del tutto inadeguati e che si tratta oggi di arrivare alla costruzione di uno Stato federale in Europa, con competenze per ora limitate al settore della gestione dell’economia e della moneta, nel quadro del gruppo di paesi all’interno dell’Unione dove il grado di integrazione è maggiormente avanzato, e in particolare all’interno dell’area euro.

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