IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXIII, 1981, Numero 1, Pagina 13

 

 

Terzo mondo e sottosviluppo:
il ruolo dell’Europa
 
CLAUDIO GRUA
 
 
1. Che cos’è il sottosviluppo.
La nozione di paesi «sottosviluppati» è relativamente recente, si può dire che è stata «scoperta» dopo la seconda guerra mondiale, con l’avanzare del processo di decolonizzazione, ed è divenuta di dominio pubblico soprattutto grazie agli studi ed alle pubblicazioni dell’ONU.
Per definire quali paesi sono sottosviluppati (più tardi, nella seconda metà degli anni ‘60, si iniziò, per pudore, a chiamarli «paesi in via di sviluppo») vengono proposte varie metodologie, basate sull’analisi di indicatori sociali od economici.
Si usano, ad esempio, il reddito medio pro-capite, il tasso di alfabetizzazione, le calorie disponibili, l’accesso a determinate categorie di beni di consumo e di servizi e simili.
Nessuno di questi indicatori, da solo, appare sufficiente ed il numero di paesi inclusi tra i sottosviluppati varia notevolmente a seconda del tipo di indice usato.
Esistono, tuttavia, due gruppi di paesi che risultano sempre compresi o sempre esclusi qualunque metodologia venga usata, e sono i paesi altamente industrializzati da un lato (USA, Canada, Giappone, Europa occidentale — esclusa l’area mediterranea —, Australia, Nuova Zelanda) e quelli molto poveri dall’altro (Africa equatoriale, penisola indiana e indocinese, Guinea, Haiti).
In mezzo esiste una vasta zona «grigia» comprendente quasi tutti i paesi del Centro e Sud America, il Medio oriente, l’Europa mediterranea, la Turchia, i paesi arabi del Nord Africa, il Sud Africa, la Corea ed altri minori, la cui collocazione è incerta, variando secondo gli indicatori prescelti, e che sono estremamente disomogenei tra di loro.
Il fenomeno più rilevante che contraddistingue i paesi in via di sviluppo, d’ora innanzi PVS, è la fame, sia quella «palese» dovuta ad ipoalimentazione sia quella «occulta» dovuta ad una dieta alimentare squilibrata e povera di sostanze nutritive (vitamine, sali minerali e soprattutto proteine animali).
Nel mondo esistono un miliardo di persone sottonutrite, 500 milioni di bambini le cui carenze alimentari si ripercuoteranno irreversibilmente nella loro crescita, 250.000 bambini ogni anno diventano ciechi per mancanza di vitamina A. Nei paesi meno sviluppati o poveri, complessivamente, la disponibilità di cibo pro-capite è pari al 96% del fabbisogno, secondo le più recenti stime dell’ONU.
Anche per questo motivo l’indicatore usato con maggiore frequenza (ed adottato dalla Banca mondiale) è quello del reddito pro-capite.[1]
La Banca mondiale propone la seguente ripartizione: paesi a basso reddito (quelli che sono sempre inclusi tra i sottosviluppati) con reddito annuo pro-capite, nel 1977, inferiore a 300$; paesi a reddito intermedio (Africa mediterranea e sub sahariana, Medio oriente, Corea, Centro e Sud America, Turchia ecc. con reddito annuo pro-capite, nel 1977 inferiore a 3000$); paesi produttori di petrolio con eccedenza finanziaria (Arabia Saudita, Libia, Kuwait); paesi industrializzati; paesi con economia a pianificazione centrale.
 
1.1. Terzo mondo e sottosviluppo.
I paesi in via di sviluppo sono stati chiamati «Terzo mondo», definizione che fa riferimento al Terzo Stato della Francia pre-rivoluzionaria e che vuole evidenziarne la differenza — ed in parte la estraneità — rispetto agli altri, quelli sviluppati e quelli a pianificazione centrale.
Sebbene tale definizione appaia più appropriata di altre, quale quella proposta da Toynbee di «nazioni proletarie», se non altro in quanto evita di confondere i rapporti tra Stati con quelli all’interno di ogni società, non è esente da limiti molto gravi. Innanzitutto perché, come si è visto, non sono una realtà omogenea — al punto che da alcuni anni si parla di «Quarto mondo» riferendosi ai paesi più poveri — in secondo luogo perché il livello di interdipendenza raggiunto dall’economia mondiale non consente a nessuno di considerarsi estraneo al resto del mondo.
Il problema, comunque, non è terminologico ma di sostanza, pertanto nel corso di questo scritto tali paesi vengono definiti, per comodità, con la sigla PVS (paesi in via di sviluppo).
 
1.2. I problemi dei PVS.
Il fondamentale problema di questi paesi, in particolare dei più poveri tra loro, è rappresentato dalla sottoalimentazione (o dalla fame tout-court) di parte rilevante della popolazione: in altre parole il reddito pro-capite disponibile non è in grado di soddisfare le esigenze più elementari e fondamentali di parti significative della popolazione.
In altri termini ancora esiste uno squilibrio grave tra risorse e popolazione. Questo squilibrio è descrivibile nei seguenti termini:
a) Bassa produttività dell’agricoltura, dovuta a varie cause, spesso sovrapponentesi: frammentazione della proprietà, o latifondi mal sfruttati, uso di sementi non selezionate, impiego di tecniche agricole rudimentali, non disponibilità di acqua o cattiva regolamentazione della medesima, metodi non razionali di allevamento, impoverimento del suolo da monocultura, ed altre ancora. È utile ricordare che la crescita di produttività agricola nei PVS è stata, negli anni 1974-80, inferiore al tasso di incremento della popolazione, per cui il loro deficit alimentare è aumentato. Complessivamente, nei quindici anni 1961-1976 la FAO ha stimato che l’incremento dei prodotti agricoli sia stato del 2,6% all’anno, poco superiore a quello della popolazione (2,4% annuo). Questi dati si riferiscono al complesso dei paesi considerati sottosviluppati, per cui sono sicuramente molto ottimistici se riferiti al gruppo dei paesi più poveri.
b) Scarsa presenza dell’industria, non sempre, inoltre, operante nei settori economicamente più utili per lo sviluppo del paese.
c) Impreparazione sul piano scientifico-tecnologico e gestionale, con conseguente incapacità a sfruttare efficacemente tutte le potenzialità di sviluppo presenti, soprattutto nel campo energetico ed agricolo.
d) Processi di urbanizzazione celere (nel 1950 in tali paesi vi era una sola città con oltre 5 milioni di abitanti; ai tassi attuali, nel 2000 saranno 40 di cui almeno 18 con oltre 10 milioni) con conseguenti problemi organizzativi, sanitari, occupazionali, ambientali e di ordine pubblico immensi.
e) Un ruolo subalterno nel commercio internazionale, legato prevalentemente alla fornitura di materie prime agricole, minerarie ed energetiche, caratterizzato, spesso, da specializzazioni mono-culturali o mono-prodotto.
f) Un boom demografico senza precedenti nella storia, che ha innescato un processo autoalimentantesi di incremento della popolazione per cui, anche se venisse riportato di colpo a tassi europei determinerebbe livelli altissimi di nascite per i prossimi decenni.
 
1.3. Cause del sottosviluppo.
Esiste una vastissima letteratura in merito, e molti fatti sono ormai universalmente riconosciuti; mi limiterò quindi ad esporre schematicamente i punti più rilevanti, sottolineando i fatti su cui mi pare necessario soffermare l’attenzione soprattutto in funzione della loro capacità di indicare le vie per uscire dal sottosviluppo.
 
1.3.1. Cause remote.
Possono essere individuate in due fattori fondamentali: la struttura sociale esistente in questi paesi prima dello sviluppo espansionistico delle potenze europee; l’azione svolta dai colonialisti.
Il primo fattore spiega da un lato perché l’opera di colonizzazione sia stata abbastanza agevole[2] dall’altro perché non tutti i paesi colonizzati siano oggi sottosviluppati (basta pensare al Nord America) né tutti i paesi colonizzatori siano oggi industrialmente evoluti (tipico l’esempio di Spagna e Portogallo).
La facilità della conquista è spiegabile con la debolezza della struttura del potere politico in tali paesi, che era o praticamente assente (Nord America, Australia, Africa equatoriale e del Sud) o lontano dalla popolazione e consunto da lotte intestine (India, Cina).
Quali paesi siano sviluppati oggi e quali no può, inoltre, essere spiegato in parte da un ulteriore fattore relativo alla composizione sociale: i paesi oggi sottosviluppati sono stati caratterizzati da strutture sociali ed economiche immobili, feudali e/o di casta, non hanno mai sviluppato una classe sociale la cui esistenza dipendesse non dal potere del sovrano o dalla feudalità ma solamente dal commercio e dalla produzione di beni per lo scambio.
La colonizzazione è stato un fenomeno storico complesso e non può essere valutato se non in modo dialettico: non si può, cioè, considerarlo come un periodo totalmente ed esclusivamente negativo. Infatti, sebbene in modo violento e traumatico, la colonizzazione ha fatto cadere strutture sociali immobilistiche e modi di produrre arcaici, immettendo questi popoli nel corso della storia ed introducendo tecniche produttive più moderne ed efficaci
Tuttavia il colonialismo è una delle origini del sottosviluppo per almeno quattro motivi: 1) ha fornito al mondo il modello dello stato nazionale accentrato, modello particolarmente inadatto alla situazione socio-economica, alla cultura ed alla storia dei popoli colonizzati, per cui si è rivelato causa di tensioni e di scontri sia tra i neo-nati Stati ex-coloniali sia al loro interno tra i gruppi etnici e culturali diversi raggruppati entro gli stessi confini; 2) ha disgregato, senza proporre nulla di alternativo comprensibile ed utilizzabile dagli autoctoni, la vecchia cultura dei popoli colonizzati, disperdendone il patrimonio di conoscenze, mettendo in crisi la morale (le regole di vita sociale) e la religione, sconvolgendo l’isolamento delle unità produttive, alterando i ritmi ed i modi di vita usuali, creando, cioè, enormi masse di sradicati; 3) ha spezzato l’economia tradizionale riorganizzandola su basi nuove, funzionali alle esigenze del paese colonizzatore; esempi tipici ne sono l’introduzione della monocultura, la distruzione delle manifatture tessili in India, l’alterazione o la distruzione delle reti di canali e delle opere di controllo delle acque; 4) ha determinato una prima rottura dell’equilibrio risorse-popolazione, sia impoverendo l’economia in quella parte che produceva beni destinati al consumo della popolazione indigena, sia intraprendendo vaste campagne contro le malattie endemiche — anche per non caderne vittima in prima persona, oltre che dimostrare di non essere solo dei parassiti — che hanno aumentato il numero di abitanti e la vita media dei medesimi.
 
1.3.2. Cause recenti.
In tempi recenti, negli ultimi decenni cioè, il divario tra popolazione e risorse disponibili ha assunto valori allarmanti, resi ancora più drammatici dal violento «boom» delle nascite. Le cause del «boom» demografico sono molte e complesse (ed in parte diverse nei vari paesi). In sintesi possono essere individuate in: a) declino della mortalità che ha raggiunto cifre molto basse, prova evidente dell’efficacia della medicina moderna anche in condizioni economiche e sanitarie catastrofiche (es. Ceylon, con un calo del 40% del tasso di mortalità in pochi anni); b) aumento della natalità, imputabile a varie cause, tra cui: l’aumento della vita media, la minore mortalità delle puerpere, un minor numero di casi di sterilità, la convenienza economica delle famiglie a sfruttare i bambini quando non esistono leggi sull’avviamento al lavoro e sull’obbligo della scuola,[3] la sopravvivenza dei vecchi schemi di vita arcaico-contadini basati sulla famiglia e sul matrimonio precoce, la crisi di tabù e limiti religiosi tradizionali (non risposabilità delle vedove, proibizione dei rapporti in certi periodi, poliandria, celibato religioso, concubinaggio).
A fronte dell’esplosione demografica si trovano due fattori aggravanti: modelli di vita e di consumo, importati dall’occidente, assolutamente incompatibili con il loro livello di reddito ed ostacolanti la possibilità di accumulazione; ragioni di scambio tra prodotti manufatti e beni primari nettamente sfavorevole a questi ultimi, per cui, almeno fino all’inizio degli anni ‘70, la povertà relativa di tali paesi nei confronti di quelli industrializzati è cresciuta (anche se, in termini assoluti il loro reddito globale è aumentato, ed in alcuni casi in modo notevole).
Complessivamente nei paesi più poveri il reddito pro-capite è aumentato pochissimo e rischia di restare a tali livelli per anni, ed anche di regredire, se l’incremento demografico continua ai ritmi attuali e l’economia mondiale prolunga la sua fase di stasi.
 
2. Come uscire dal sottosviluppo.
Da almeno due decenni il problema di come sia possibile sviluppare economicamente questi paesi è presente nel dibattito economico e politico, sia, ovviamente, al loro interno sia nei paesi ricchi.
Fino ad oggi, concretamente, non sono state prese misure importanti da parte degli Stati industrializzati: la maggior parte delle iniziative si è risolta nella forma di aiuti finanziari (spesso per permettere l’acquisto di armi). Gli investimenti privati industriali e commerciali, hanno cominciato, recentemente, ad affluire, attirati dal basso costo del lavoro e/o dalla vicinanza di fonti di materie prime (carbone e petrolio soprattutto), mentre esiste da sempre un consistente flusso di capitali investito nelle miniere, nello sfruttamento delle falde petrolifere e nelle produzioni di determinati beni agricoli e forestali (banane, cacao, caffè, arachidi, spezie, thè, gomma, legno pregiato, ecc.).
Per affrontare concretamente il problema, però, mi pare necessario dividere l’argomentazione in due parti, a causa delle numerose confusioni e mistificazioni che su tale tema sono state fatte.
 
2.1. Come non uscire dal sottosviluppo.
Vi sono vari atteggiamenti che i governi ed i cittadini dei paesi più ricchi possono assumere — e che possono anche sembrare «nobili», «belli» e «utili» — che servono, nei fatti, solo a far deviare il discorso dai veri mezzi per aiutare lo sviluppo dei paesi poveri per farlo cadere — e rimanere per anni — su punti morti dove sono possibili sofisticatissimi dibattiti accademici o grandi iniziative demagogiche, inconcludenti gli uni ed ipocrite le altre, tutti quanto meno inutili al fine proposto.
Il primo modo, il più diffuso, è quello di disquisire su quale quota del prodotto nazionale lordo dei paesi industrializzati debba essere consacrata agli aiuti pubblici allo sviluppo. Oggi è dello 0,32% in media, l’ONU ha proposto di arrivare allo 0,7%, altri sostengono la necessità di quote superiori all’1%.
Nessuno può negare che tali aiuti siano importanti e rappresentino, soprattutto per i paesi più poveri, una fonte di finanziamento preziosissima — e quasi l’unica (rappresenta per alcuni il 50% dei loro fabbisogni finanziari) — ma questo non deve essere motivo di orgoglio, bensì di amare riflessioni.
Tali. finanziamenti (quando non servono all’acquisto di armi o ad alimentare le manie di lusso e di grandezza dei vari dittatori e re e dei loro fedelissimi) non hanno destinazione specifica e vengono usati, in genere, per acquistare generi alimentari di prima necessità, colmando in parte il divario risorse-popolazione, o a coprire il deficit della bilancia commerciale; praticamente mai ad investimenti produttivi.
Essi assumono, di fatto, l’aspetto di un’elemosina che i ricchi fanno per tacitarsi la coscienza e che non serve a risolvere i problemi dei poveri (esattamente come le elemosine non risolvono, all’interno di una società, il problema della povertà).
Esiste un detto che afferma: dai un pesce ad un povero e lo sfami un giorno, insegnagli a pescare e lo sfami per tutta la vita. Il comportamento dei paesi ricchi è basato sul principio contrario: ti dò un pesce, ma tu non imparare a pescare.[4] Chi accetta il dibattito sulla quota di aiuti discute, in realtà, se dare uno, due o tre pesci, ed elude la questione di fondo: insegnare a pescare.
È significativo che nessuno dei terzo-mondisti protesti quando vengono presi accordi per limitare le importazioni di beni dai PVS, e quando si trovano infinite clausole tecniche e «non tariffarie» per raggiungere lo stesso scopo, in altre parole quando si soffoca la loro possibilità di sviluppo economico autonomo. È vero che queste operazioni vengono coperte con il pretesto della difesa dell’occupazione nei paesi industriali, e che questo è uno scopo «nobile» cui è molto impopolare opporsi. Solo che il loro effetto è quello ottenuto dagli inglesi nel XIX secolo, quando tagliavano il pollice ai tessitori indiani per impedirne l’attività concorrenziale a quella delle industrie inglesi (con l’aggravante, rispetto al XIX secolo, di non ottenere lo sviluppo di industrie nuove nei paesi occidentali, bensì di bloccarlo, mantenendo immobilizzate risorse nei settori obsoleti).
Un secondo modo di non affrontare il problema è quello di dire: «se si eliminassero le spese per gli armamenti ci sarebbero risorse per sviluppare tutto il mondo». Questa posizione è giusta e morale solo se accompagnata da uno sforzo reale e serio per giungere ad una situazione mondiale pacifica in cui il disarmo sia possibile, ovvero se è inserita nel quadro di azioni tendenti con coerenza alla distensione, al superamento dei blocchi e, in prospettiva, alla federazione mondiale. Come viene presentata oggi dai pacifisti e dai terzo-mondisti è una classica «fuga in avanti» che può essere solo velleitaria ma che può diventare pericolosa se si concretizza in azioni politiche per «il disarmo subito, a qualunque costo, anche unilateralmente».
Queste posizioni non considerano che l’equilibrio delle forze è alla base della non-guerra in un mondo in cui esistono ancora molti Stati sovrani ed autonomi, e che: 1) chi non è in grado di assicurare la propria difesa viene difeso, ovvero cade sotto l’egemonia di chi è armato, e questo implica non autonomia nelle scelte politiche anche per quanto riguarda gli aiuti ai PVS; 2) diminuire unilateralmente le difese di un paese importante nei quadro mondiale implica generare una situazione di squilibrio di potere, e quindi, potenzialmente, di guerra: ovvero l’opposto esatto di quello che si vuole e di ciò che serve ai paesi poveri; 3) un discorso di disarmo può essere fatto solo sulla base dell’equilibrio e della gradualità, ed è possibile solo se le forze in campo (politiche e militari) si bilanciano.
 
2.2. Come avviare lo sviluppo.
I paesi in via di sviluppo hanno individuato da tempo la via da seguire, che la stessa Banca mondiale indica, sia pure con un’ottica meno politica ed «impegnata».
Anche il Parlamento europeo si è mosso su questa linea, concordando unanime (con la significativa eccezione del gruppo radicale) con la relazione presentata il 29 agosto 1980 dal comunista Ferrera in cui si chiede di affrontare un programma di aiuti (che non si risolvano in impostazioni puramente assistenziali) miranti a ristrutturare il processo produttivo agricolo.
Per seguire questa via occorre attuare una serie di politiche, ed attivare una serie di mezzi, il cui buon funzionamento è subordinato all’esistenza di alcune condizioni, oggi non esistenti.
 
2.2.1. I mezzi.
Si tratta di adottare nei paesi PVS una serie di politiche che abbiano come obiettivo: a) creazione di infrastrutture e servizi (strade e comunicazione in genere, diffusione dell’elettricità, gas, scuole, politiche di urbanizzazione basata sui centri medi, organizzazione di una pubblica amministrazione efficiente, sanità, ecc.); b) sviluppo dell’apparato industriale, soprattutto nei settori in cui dispongono di materie prime ed a tecnologia stabilizzata, o comunque gestibile e padroneggiabile, possibilmente con forte impiego di mano d’opera; c) aumento della produttività agricola, migliorando la zootecnia, le sementi, le tecniche di coltivazione ed il controllo dell’acqua; d) sfruttamento razionale delle fonti di energia potenziali o sottoutilizzate, problema sempre più rilevante dato il prezzo del petrolio e le crescenti quantità di energia necessarie allo sviluppo economico e sociale; e) politiche sanitarie e di controllo delle nascite che frenino il boom demografico, riequilibrando anche in questo senso il rapporto risorse-popolazione.
 
2.2.2. Condizioni.
Esistono almeno due condizioni fondamentali che permettono il successo alle politiche su esposte, e senza le quali le possibilità di sviluppo sono decisamente limitate se non inesistenti.
La prima è che gli aiuti non vengano dati in modo generico ma finalizzato e non consistano solo in finanziamenti, anzi si potrebbe quasi dire che i finanziamenti sono la parte meno necessaria degli aiuti.
Fondamentali risultano essere la consulenza ed il trasferimento di tecnologie e di conoscenze in tutti i campi (amministrativo, sanitario, scolastico, industriale, agricolo, commerciale) a supporto delle scelte autonome che i PVS devono compiere, in particolare per adattare tali conoscenze alle specifiche realtà dei paesi e per preparare persone del posto al fine di metterle in grado di gestirle e svilupparle in futuro.
I fondi devono servire a finanziare tali trasferimenti e lo sviluppo delle attività da essi generate: solo allora saranno costruttivi e non «elemosine».
La seconda è che vengano riaperti i canali del commercio internazionale, il che implica tre cose: 1) l’abolizione delle forme di protezione doganale ed extra-doganale[5] adottate dai paesi ricchi, per permettere alle industrie dei PVS di svilupparsi: non si deve dimenticare che, essendo il loro mercato interno povero, e quindi limitato, e le dimensioni minime tecniche degli investimenti determinate oggettivamente, quasi qualsiasi produzione nuova in tali paesi determina delle eccedenze che devono venire collocate sul mercato internazionale; 2) la ridefinizione della divisione internazionale del lavoro in termini tali da garantire quote di mercato e settori di attività anche ai PVS, rifiutando il vecchio ruolo che assegnava loro il compito quasi esclusivo di produttori di materie prime; 3) il ritorno alla stabilità dei cambi, senza la quale non è possibile l’esistenza di stabili flussi commerciali e di investimenti industriali in quanto i capitali sono maggiormente remunerativi se usati in modo speculativo (non a caso gli investimenti privati nei PVS sono calati negli ultimi anni).
Per capire l’importanza di questa terza condizione dobbiamo tenere presente che esiste una relazione strettissima tra stabilità politica, economica e monetaria e possibilità di sviluppo.
Non è una relazione automatica, ovvero la stabilità non è condizione sufficiente allo sviluppo, ma ne è la condizione necessaria: senza la quale lo sviluppo non è possibile.
La dimostrazione più evidente è che nel periodo 1950-70 il reddito complessivo di tutti i PVS è aumentato, la loro partecipazione al commercio internazionale è stata importante e crescente a tassi elevati, alcuni di loro hanno cominciato ad esportare beni manufatti (sia pure in misura ridotta), gli investimenti esteri diretti rappresentano un flusso consistente e, almeno in parte, rivolto ad iniziative industriali (anche se sono stati i meno poveri tra i PVS a ricevere la quasi totalità degli investimenti privati).
Con la fine della stabilità politica, le crisi monetarie, la conseguente caduta degli investimenti e della produzione nei paesi occidentali, è riemersa una forte tendenza protezionistica che ha bloccato il volume del commercio internazionale, e sono calati gli investimenti esteri diretti (soprattutto verso i paesi più poveri).
Chi ha pagato più duramente sono stati i paesi poveri, che hanno aumentato la «distanza relativa» dagli stessi PVS che hanno iniziato la fase di decollo economico.
 
3. Il ruolo dell’Europa.
L’Europa può svolgere un ruolo decisivo nello sviluppo dei paesi del «Terzo mondo» sotto tutti i punti di vista, ovvero sia sul piano economico-commerciale, sia su quello della distensione e della stabilità politica e monetaria internazionale che su quello politico-culturale.
Non è pensabile che nessuno di tali ruoli possa venire efficacemente svolto dai singoli stati nazionali europei, e questo per cause molto evidenti, che solo la miopia derivante dall’essere lo Stato nazionale il solo terreno fino ad oggi esistente[6] di lotta politica ha impedito alle forze politiche e sociali di comprendere. Solo con l’elezione diretta del Parlamento europeo si è aperta la strada per spostare la lotta politica dal piano nazionale a quello europeo, offrendo così l’opportunità agli europei di agire in modo comune ed indipendente dalle direttive delle grandi potenze.
Mentre ogni singolo Stato è vincolato dalla propria debolezza economica, dall’incapacità di assicurare la propria difesa e dall’instabilità della moneta, per cui non può svolgere una politica estera autonoma, non riesce a trovare le risorse finanziarie, organizzative e di mercato necessarie per sviluppare le tecnologie più avanzate ed è costantemente sotto la minaccia di speculazioni sul cambio e di uno sfavorevole andamento della bilancia dei pagamenti, la Comunità, in complesso, è la prima potenza commerciale del mondo, dispone di riserve tali da garantire la stabilità ad una eventuale — e possibile, oltreché necessaria — moneta europea, dispone di un potenziale di conoscenze tecnologiche all’avanguardia in molti campi decisivi (per cui qualora gli sforzi non fossero più frazionati in dieci rivoli divergenti, ma coordinati e diretti in modo unitario, il «gap» tecnologico verrebbe superato agevolmente e rapidamente in molti settori).
Se gli europei sapranno unirsi politicamente in uno Stato federale in tempo breve, se sapranno cioè sfruttare la possibilità storica oggi esistente a causa della gravissima crisi dell’equilibrio bipolare e della nascita della democrazia europea, allora potranno presentarsi come partners credibili ai PVS e svolgere fino in fondo il ruolo che possono — e quindi devono — avere, e che gli stessi paesi non sviluppati li sollecitano caldamente a svolgere.[7]
 
3.1. L’aiuto economico.
3.1.1. Il ruolo negli aiuti finalizzati.
L’intervento dell’Europa può essere svolto su due piani complementari, entrambi utili ed efficaci non solo per i PVS ma anche per gli europei. 1) Attraverso il trasferimento di tecnologia, know how ed impianti, di cui in Europa siano ricchi e su cui siamo, in molti campi, all’avanguardia, fornendo contemporaneamente assistenza tecnica e formativa sia per permettere loro di  gestire e sviluppare autonomamente tali tecnologie in futuro sia per adattarle alle loro specifiche esigenze applicative. Questo tipo di politica, oltre a permettere alle imprese europee di penetrare in mercati nuovi con i connessi vantaggi produttivi ed occupazionali, presenterebbe due ulteriori vantaggi: — anche in Europa abbiamo aree sottosviluppate per cui occorre studiare l’adattamento delle tecnologie esistenti e quindi da un lato ci presentiamo con un certo bagaglio di esperienze in questo campo e dall’altro potremmo vantaggiosamente sfruttare in Europa le conoscenze derivanti dal rapporto con i PVS; — l’assistenza tecnica e scolastica richiede personale specializzato in loco e sarebbe un utilissimo banco di prova e di specializzazione per i giovani che accettino tale incarico come servizio civile prestato in alternativa a quello militare o ad altre forme di servizio civile in patria.[8] 2) con una politica che destini, in tutto o in parte, il surplus della bilancia commerciale europea per finanziare gli investimenti nei PVS ed il trasferimento delle conoscenze cui si è accennato prima. Si tratta di un’operazione vantaggiosa per entrambe le parti, in quanto i PVS disporrebbero dei capitali e delle conoscenze loro necessarie per il decollo economico e gli europei avrebbero investito in modo produttivo tale surplus, sviluppando settori per loro vitali ed utilizzando al meglio esperienze e capacità acquisite nel campo del «mercato dello sviluppo» che è, oggi, quello più promettente ed in rapida evoluzione.
Per le imprese europee si aprirebbe un nuovo e vasto mercato le cui caratteristiche sono tali da potenziare l’azione di riconversione produttiva dell’apparato industriale verso produzioni ad alto contenuto di valore aggiunto.
 
3.1.2. Funzione di «stimolo commerciale».
L’Europa può svolgere questa funzione in due modi, uno diretto ed uno indiretto, ma non per questo meno efficace.
Il primo consiste nel liberalizzare il commercio tra aree, abolendo, sia pure progressivamente, le restrizioni adottate ed ampliando la politica di cambi preferenziali con tali paesi.[9]
Questa azione implica un ruolo diretto dell’Europa nella definizione di una nuova divisione internazionale del lavoro che assegni ai PVS un compito non più subalterno ma rilevante come produttori manifatturieri nei comparti dove dispongono di possibilità di vantaggi (da costo del lavoro, da materie prime, ecc.), impegnandosi a sviluppare quelli a maggior valore aggiunto (qualità, tecnologia, meccanizzazione).[10]
Questo è il fattore decisivo, senza il quale è inutile — ed insultante — la politica degli aiuti per il decollo economico dei PVS.
Un dato importante da considerare è che l’Europa sarebbe politicamente più debole delle superpotenze (anche quando nascesse un vero e stabile governo federale europeo) e priva di materie prime, per cui dovrebbe comunque offrire ai PVS delle condizioni più eque di quelle fino ad ora vigenti nel mercato internazionale ed imposte dalle grandi potenze in cambio del loro aiuto.
Il secondo rappresenta l’accoglimento di una richiesta più volte presentata, soprattutto dai paesi produttori di petrolio: quella di formulare le richieste di materie prime in modo aggregato e con previsioni pluriennali, alfine di permettere ai paesi interessati di organizzarsi per fornire i beni richiesti sfruttando nel modo più completo e razionale possibile le proprie risorse. Questo fatto è particolarmente grave ed importante per i giacimenti di petrolio e di rame, la cui produzione globale (cioè la quota sfruttabile di materiale esistente nel giacimento) varia in misura notevolissima a seconda che l’estrazione avvenga in modo affrettato o irregolare oppure in modo efficiente e programmato.
 
3.1.3. Una proposta operativa.
La politica degli aiuti e quella commerciale appaiono strettamente collegate ed interdipendenti, di fatto sono aspetti diversi di una stessa politica. Occorre ancora aggiungere un dato di fatto per completare il quadro descrittivo ed una proposta operativa per rendere più efficace tale politica.
Il dato di fatto è che l’aiuto ai PVS non è una svolta morale ma una scelta obbligata, anche se difficile.
Non si tratta, per gli europei, di scegliere tra favorire l’industrializzazione dei paesi poveri o usare altrimenti le risorse: si tratta di una politica senza la quale lo sviluppo economico dell’Europa appare senza speranza.
Come è stato lucidamente evidenziato da Altiero Spinelli,[11] ogni fase espansiva dell’economia è stato frutto dell’attivazione di una domanda fino ad allora rimasta inespressa. È stato così nell’‘800 con le ferrovie, nella prima metà del ‘900 con le economie di guerra, negli ultimi 30 anni con l’innalzamento del tenore di vita delle classi operaie e contadine. Oggi occorre trovare una nuova domanda inespressa ed attivarla, o l’espansione economica dei paesi industrializzati sarà un ricordo del passato. Questa domanda esiste ed è immensa: è quella dei paesi sottosviluppati.
Per attivarla occorre che il reddito di tali paesi superi il livello minimo di sussistenza, e questo può avvenire solo se le loro economie raggiungono la fase del decollo. Per gli europei, oggi, la necessità si unisce alla virtù, l’azione morale di aiutare i propri simili (e pagare i debiti morali e civili contratti all’epoca delle colonie e del commercio degli schiavi) è anche quella che permette la continuazione dello sviluppo economico.
Non per questo, però, si tratta di una politica facile e senza costi. Riconvertire l’economia, consacrare notevoli risorse per lo sviluppo di tali paesi ed aprire il mercato ai loro prodotti significa adottare una politica rigorosa di programmazione economica e di controllo dei consumi interni, politica che, soprattutto nei prossimi anni e presso certi strati imprenditoriali ed operai, sarà poco ben accetta e probabilmente duramente contestata.
Pertanto si renderà necessaria una ampia alleanza tipo quella che si realizza nelle fasi costituzionali o nei periodi di «ricostruzione economica», tra le forze politiche e sociali, con coinvolgimenti e responsabilità precise per ognuna di loro.
Per rendere più efficiente e produttiva, per entrambe le parti, tale politica appare molto utile adottare la soluzione proposta da Spinelli di un «piano Marshall europeo per i PVS».
Adottare una soluzione di questo tipo presenta infatti un duplice vantaggio: 1) gli accordi non sarebbero tra governo e governo, ma tra area e area (non ogni singolo Paese ma, ad es., l’OPEC, l’Organizzazione per l’unità africana, il Patto andino e organizzazioni simili tra PVS), con un controllo maggiore sulla natura e l’entità dei trasferimenti e degli scambi, riducendo i margini per le speculazioni; 2) i trasferimenti sarebbero più rispettosi delle esigenze di entrambi, in particolare di quelle dei PVS, limitando l’aspetto di imposizione di un modello di civiltà, che è comunque in qualche modo inevitabile, poiché la tecnologia non è «neutra» ma figlia e condizionata da una data civiltà, e quindi veicolo di trasferimento della civiltà stessa da cui è originata.
 
3.2. Ruolo di forza equilibratrice.
Il compito dell’Europa nella creazione di un ordine internazionale più giusto e stabile è importantissima e nessun altro può svolgerlo al suo posto.
Solo l’unità europea può dare origine ad un equilibrio mondiale pluripolare, che rappresenta la sola soluzione evolutiva alla crisi del bipolarismo oggi in atto.
In un contesto pluripolare la Cina potrebbe vedere riconosciuta la propria autonomia ed il proprio ruolo mondiale senza essere costretta ad una politica estera schizofrenica per difenderla, i paesi non allineati avrebbero lo spazio per un’effettiva opera di distensione e di cooperazione e le esigenze dei PVS non dovrebbero venire sacrificate alla ferrea logica della contrapposizione tra i blocchi ma troverebbero maggiore considerazione in particolare dalle potenze minori ed emergenti (Europa e Cina).
La creazione della federazione europea appare, inoltre, la condizione per un nuovo periodo di pace e per l’avvio della politica di disarmo graduale, che permetterà di liberare risorse preziose per un diverso assetto economico mondiale.
Altrettanto evidente, e di più immediato effetto, appare il ruolo dell’Europa per stabilire l’equilibrio monetario internazionale ed il ritorno ai cambi fissi.
È ormai universalmente riconosciuto che, se si rifiuta il ritorno all’egemonia del dollaro, con le inevitabili conseguenze politiche che ne derivano, l’unica alternativa realistica è la creazione di aree monetarie di dimensioni continentali. L’unica di tale aree oggi effettivamente realizzabile è quella europea.[12]
La moneta europea, oltre a fornire un decisivo contributo al superamento dell’attuale anarchia monetaria in Europa, permetterebbe di giungere ad una situazione con più monete di pagamento accettate sul mercato internazionale, da un lato rifinanziandone gli scambi senza creare inflazione, dall’altro fornendo l’opportunità ai paesi esportatori eccedentari (come l’Arabia Saudita e la Libia) di impiegare tali riserve non solo in dollari (con i problemi di stabilità valutaria che ciò comporta) ma anche in moneta europea, agevolandone il loro riciclaggio in Europa con notevoli benefici per la nostra economia.
 
3.3. La funzione politica-culturale dell’Europa.
Tutti i grandi eventi storici hanno un significato che non si limita al popolo (o ai popoli) che ne è protagonista né all’epoca in cui il fatto succede. Essi assumono un valore di simbolo e di modello per tutti i popoli e per le epoche seguenti. Pensiamo, ad esempio, alla rivoluzione francese o a quella russa ed alla formazione degli Stati nazionali europei, che sono divenuti patrimonio comune della cultura di tutti i popoli del mondo ed hanno fornito i modelli di organizzazione statale cui fanno riferimento tutti i nuovi Stati sorti dal processo di decolonizzazione.
L’unificazione politica in forma federale dell’Europa rappresenta un tornante della storia destinato ad avere un rilievo pari a questi grandi eventi del passato, e come tale a fornire nuovi valori ed un nuovo modello di organizzazione della società che inciderà profondamente sulla cultura e sull’organizzazione politica di tutti gli Stati del mondo.
La federazione europea rappresenterà il primo caso, nella storia conosciuta dall’umanità, di formazione di un governo sul territorio di più Stati sovrani senza che sia conseguenza di una guerra di conquista e di alcun atto di violenza.
Per la prima volta il sistema democratico viene applicato, con successo, all’unificazione tra più popoli realizzando l’ideale della pace, bandendo i rapporti violenti come metodo di risoluzione dei conflitti di interesse tra Stati con tradizioni secolari, responsabili di due guerre mondiali.
È una lezione storica che non può non essere recepita e non fornire un modello cui potranno ispirarsi tutti i paesi che tentano, fino ad oggi senza successo, di trovare forme di azione comune sia economiche che politiche.
Ma l’esempio della federazione europea avrà anche un altro aspetto, non meno importante: non solo indicherà il modo di unificarsi senza ricorrere alla guerra ed alla sopraffazione, ma dimostrerà anche, concretamente, come popoli di cultura e tradizioni diverse possano convivere pacificamente rispettandosi e salvaguardando i rispettivi patrimoni culturali.
Questo esempio appare preziosissimo per quegli Stati in cui vivono più ceppi etnici e che oggi, essendo strutturati nel modello accentrato e mono-nazionale di tipo napoleonico ereditato e copiato dagli Stati europei, sono spesso travagliati da sanguinose guerre civili che forniscono esca e pretesto per l’intervento delle grandi potenze.
 
4. Conclusione.
Siamo ad un momento drammatico di svolta, molto più grave di quanto comunemente si creda non solo per le possibilità di sviluppo dei paesi poveri, ma per la stessa Europa, una fase in cui il momento delle scelte è ormai giunto e non è più possibile tergiversare e rifiutare di vedere la gravità della situazione.
L’Europa può ritrovare la via dello sviluppo economico e civile e dell’autonomia politica, favorendo nel contempo il decollo dei PVS e fornendo al mondo l’esempio di una grande rivoluzione che ha come valore la pace ed il rispetto della storia e della cultura dei popoli.
Se questa occasione viene persa, la sola alternativa è la finlandizzazione del continente europeo, il suo asservimento definitivo ad un ruolo passivo nella storia e nell’economia, con la conseguente fine di molte speranze e possibilità anche per i popoli meno sviluppati.
I PVS lo hanno capito da tempo ed hanno più volte esplicitamente sollecitato gli europei ad unirsi e ad assumersi le proprie responsabilità. Spetta agli europei, adesso, non tradire se stessi e le speranze di questi paesi, e non c’è più molto tempo per decidere: se le forze politiche si disinteressano del Parlamento europeo privilegiando le alchimie politiche nazionali e se lo SME anziché evolvere verso la moneta europea andrà verso il fallimento, allora con ogni probabilità l’occasione storica sarà mancata e bisognerà subirne le conseguenze.


[1] Questa misura risulta distorta per una serie di fattori, per cui va usata con molta cautela e solo per individuare gli ordini di grandezza dei fenomeni. Innanzitutto, infatti, il calcolo del reddito di un paese dipende dall’accuratezza con cui lavorano i suoi servizi statistici, dall’efficienza della pubblica amministrazione e delle reti di comunicazione tra il centro e le zone periferiche. È noto a tutti che i paesi di recente costituzione non dispongono, né potrebbero farlo, di apparati governativi e burocratici efficienti, di mezzi e di metodologie adeguati a raccogliere in modo capillare e sistematico i dati relativi alla vita economica e sociale del paese. Inoltre, in tutti i paesi sottosviluppati, e particolarmente nei più poveri, riveste una importanza fondamentale la produzione agricola per autoconsumo, che per larghi strati di popolazione è la sola fonte di sostentamento e che sfugge alle rilevazioni statistiche. I dati relativi al reddito sono, quindi, certamente sottostimati, anche se non è possibile valutare in quale misura e nemmeno se tale «bias» sia simile nei vari paesi. In secondo luogo il reddito pro-capite è evidentemente, un concetto astratto, una media aritmetica e non la raffigurazione di una realtà. Come media è tanto meno significativa quanto più la distribuzione del reddito è ineguale. Ovvero: è più accettabile, come prima approssimazione, il reddito medio della Svezia di quanto lo sia quello del Brasile o degli Emirati del Golfo. L’esempio tipico è fornito dal Kuwait, che dispone del più alto reddito pro-capite del mondo (quasi una volta e mezzo superiore a quello statunitense), benché gran parte degli abitanti siano poveri, molto più poveri di coloro che sono considerati tali negli USA. Non bisogna trascurare, infine, che il potere d’acquisto della moneta e quindi il costo della vita, ovvero la spesa minima necessaria per acquistare i beni necessari alla sopravvivenza, è profondamente diverso da paese a paese e, all’interno di ogni paese, da area a area. È un dato di esperienza noto a tutti che gli stessi beni hanno prezzi diversi non solo in paesi diversi ma spesso a pochi chilometri di distanza, ad esempio tra una grande città ed un piccolo comune agricolo in un’area periferica della stessa provincia. I dati relativi al reddito pro-capite non indicano, quindi, una graduazione assoluta di possibilità di acquisto, cioè di povertà, ne forniscono solo una stima grezza e molto approssimativa. Per tutte queste ragioni le classificazioni proposte da vari studiosi e dagli organismi internazionali devono essere considerate come prime, grossolane, approssimazioni e non si devono considerare «esatti» o «significativi» i valori assoluti di reddito indicati, al massimo è attendibile l’ordine di grandezza delle cifre esposte ed il raggruppamento in blocchi con caratteristiche comuni.
[2] In effetti le potenze colonizzatrici non hanno quasi mai dovuto usare le truppe regolari, ed ancora più raramente in modo massiccio, per impadronirsi dei paesi. La conquista è stata realizzata quasi sempre da un pugno di avventurieri o da commercianti affiancati da truppe mercenarie (America, India e Indonesia, Cina, gran parte dell’Africa, Australia…). Le difficoltà sono, se mai, sorte in un secondo momento, quando si è trattato di mantenere i possessi acquisiti. Infatti, l’individuazione di un unico nemico, il colonizzatore che sfrutta e opprime e davanti al quale tutti gli indigeni sono ugualmente disprezzati e sudditi, ha costretto le varie tribù, clan, fazioni, ecc. a superare le divisioni fino ad allora esistite per combattere insieme per recuperare l’indipendenza.
[3] La convenienza a sfruttare i bambini come fonte di reddito è tipica della società contadina e delle classi più povere delle città. Questo fenomeno si è verificato in Europa fino a non molti anni fa, e nelle campagne povere sussiste anche oggi. Con l’innalzamento del reddito e della coscienza civile causato dalla rivoluzione industriale, nei paesi sviluppati sono state prese misure per impedire di far lavorare i bambini al di sotto di un certo numero di anni e per farli accedere tutti almeno ai livelli elementari di istruzione. Queste leggi hanno reso costoso il mantenimento dei figli, che restano a carico dei genitori e li impegnano in spese per la scuola per lunghi anni prima di poter lavorare ed incrementare così il reddito complessivo della famiglia, scoraggiando la creazione di famiglie troppo numerose. Nei paesi del terzo mondo, almeno nella grande maggioranza, non è pensabile di imporre obblighi scolastici, o quanto meno non esistono strutture per far sì che tale obbligo possa essere seriamente imposto, e non è possibile impedire lo sfruttamento del lavoro minorile e l’uso dei bambini per piccoli furti, per chiedere l’elemosina ecc., per cui i figli rappresentano per le famiglie una importante fonte di reddito. Senza andar lontano, basta vedere cosa succede a Napoli per capire le difficoltà che si incontrano a controllare le nascite in aree depresse e socialmente disgregate.
[4] Non si tratta di assumere un atteggiamento moralistico o di dare giudizi di valore (come sono cattivi i paesi ricchi!) ma di prendere atto di un conflitto di interessi esistente tra una parte dei cittadini dei paesi industrializzati, quelli che vivono sull’attività delle imprese più obsolete e tecnologicamente arretrate, ed i PVS che vorrebbero dotarsi di industrie manifatturiere. La spinta degli interessi di tali imprenditori e lavoratori dei paesi sviluppati si salda con quella proveniente dai ceti «nostalgici», che vorrebbero tornare al periodo in cui i PVS producevano materie prime, accettavano i prezzi del mercato internazionale e non creavano grossi problemi. È una coalizione molto forte e pericolosa, che riesce ad imporre le proprie scelte, soprattutto nei momenti di crisi economica come quello degli ultimi anni.
[5] Per misure non tariffarie o extra-doganali si intendono tutti i provvedimenti, quali le politiche di ammissione, le norme di imballaggio, di valutazione doganale, le regole sanitarie, gli standards qualitativi ecc., che vengono usualmente impiegati per limitare il flusso di importazioni senza ricorrere all’imposizione di tariffe doganali. A tal fine, molto spesso, tali norme vengono formulate in modo generico e non esplicito e non sono basate su codificazioni e criteri certi e stabili. Una delle richieste dei PVS è, infatti, che le norme che si intendono mantenere perché reputate utili socialmente (ad es. quelle sanitarie e sugli standards di qualità) vengano codificate ed usate secondo criteri espliciti.
[6] Questa affermazione non è più vera dal giugno 1979, data delle prime elezioni a suffragio universale diretto del Parlamento europeo. Dopo questo fondamentale avvenimento esiste un nuovo terreno di lotta politica: quello europeo. Tuttavia nessun partito ha, fino ad oggi, compreso fino in fondo la portata rivoluzionaria di tale avvenimento e l’opinione pubblica, a causa soprattutto del colpevole silenzio dei mezzi di informazione di massa non ha ancora preso coscienza del significato di questa istituzione, per cui non sono state ancora sfruttate a fondo le potenzialità insite in questa nuova dimensione politica.
[7] Cfr. G. Montani, Il Terzo mondo e l’unità europea, Guida, Napoli, 1979.
[8] Su questo argomento il MFE sta riflettendo ormai da tempo ed è giunto alla elaborazione di articolati documenti per un servizio civile europeo, documenti cui si rimanda per un approfondimento del problema.
[9] In questo campo la comunità ha avviato da anni una politica di accordi commerciali (convenzione di Lomè, che è stata rinnovata nel novembre 1979). Il fatto interessante che emerge dall’analisi di tali accordi è l’ambiguità dell’atteggiamento della Comunità. Da un lato, infatti, si nota una maggiore disponibilità allo scambio ed una volontà di basarlo su basi eque, ad es. stabilendo meccanismi di stabilizzazione dei proventi delle loro esportazioni e di prestito a lungo termine, soprattutto nei confronti di certi gruppi di paesi, dall’altro l’incapacità a formulare una politica commerciale autonoma ed a proporsi come partners alternativi alle grandi potenze, che si traduce nel non adeguamento del Fondo europeo per lo sviluppo e nella indeterminatezza sulla politica di aiuti e di commercializzazione dei manufatti. Soprattutto, tali accordi non rientrano nel quadro globale della politica della Comunità, per cui restano ampi spazi aperti alle tendenze protezionistiche dei paesi della Comunità. Manca, cioè, l’impegno europeo verso una nuova divisione internazionale del lavoro.
[10] Sviluppare le produzioni a maggior contenuto di valore aggiunto non significa, come spesso si dice, concentrare tutti gli sforzi nei settori ad alto contenuto tecnologico (aerospazio, nucleare, elettronico). Significa, soprattutto, organizzare e sfruttare il più capillarmente possibile le ricadute tecnologiche su tutti i settori dell’economia, determinandone l’evoluzione tecnologica, organizzativa e produttiva. Nei paesi industriali avanzati l’occupazione nel futuro non sarà assorbita, se non in misura ridotta dall’espansione dell’elettronica e di settori avanzati, ma da tre serie di fattori: 1) il terziario evoluto, ovvero i servizi qualificati alle unità produttive (scuole, ricerca e sviluppo, consulenze manageriali e di mercato, società di software, credito specializzato, marketing, ecc.); 2) nuovi settori e produzioni oggi inesistenti o poco rilevanti, il cui sviluppo è legato al diffondersi delle tecnologie informatiche, energetiche e spaziali (accumulatori e componenti per energia solare, geotermica, nucleare, siderurgia dei metalli speciali, lavorazioni plastiche con caratteristiche particolari, ecc.); 3) evoluzione verso nuovi prodotti, o nuovi cicli produttivi o nuovi mezzi di produzione delle industrie oggi più diffuse (trasformazione dell’elettromeccanica in elettronica, applicazione di microprocessori alle macchine utensili, a quelle per ufficio ed agli elettrodomestici, nuove fibre tessili, prefabbricati per l’edilizia e nuove tecnologie per laterizi, ecc.). La politica industriale (ed economica in senso lato) dell’Europa dovrà svilupparsi ed appoggiarsi sulle nuove tecnologie spaziali, energetiche ed elettroniche ma dovrà, soprattutto, organizzare lo sfruttamento sistematico di tutte le opportunità che tali tecnologie aprono in tutti i campi economici. Si tratta di avere delle «punte di lancia» con cui penetrare sui mercati mondiali per aprire la strada alla modernizzazione, allo sviluppo ed alla presenza internazionale dell’intero apparato economico europeo.
[11] Altiero Spinelli, PCI, che fare?, Roma, Editori Riuniti, 1978.
[12] Il primo passo, in questo senso ancora molto limitato e contraddittorio, è la creazione dello SME (Sistema monetario europeo). Non si può non sottolineare che oggi lo SME attraversa un periodo molto difficile, sia a causa della ripresa dell’inflazione in vari paesi sia a causa delle crisi politiche che travagliano, per cause diverse ma contemporanee, i principali paesi che vi aderiscono. Occorre pertanto il rilancio di una forte iniziativa politica volta al rafforzamento delle istituzioni europee, innanzitutto del Parlamento europeo, per far prevalere gli interessi comuni sui motivi contingenti di divisione.

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