IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXXV, 1993, Numero 1 - Pagina 3

 

 

Cittadinanza europea e identità post-nazionale
 
 
Il Trattato di Maastricht ha introdotto nell’ordinamento comunitario la figura della cittadinanza europea. Si tratta di un fatto che a prima vista può apparire soltanto simbolico, ma che in realtà ha una grande portata storica e molteplici e importanti implicazioni politiche e culturali. A partire dalla rivoluzione francese, la cittadinanza indica l’appartenenza di un individuo a un popolo. In quanto tale, essa evoca, da un lato, l’idea della sovranità popolare, e quindi quella del possesso da parte del cittadino dei diritti politici che ne derivano; e identifica, dall’altro, la comunità politica alla quale il cittadino appartiene, e quindi è storicamente associata alla nazionalità.
Questa innovazione del Trattato di Maastricht mette in evidenza due problemi nodali che la Comunità europea non potrà non affrontare. Il primo è costituito dal fatto che i cittadini europei non godono del più elementare dei diritti democratici: quello di scegliere e di controllare, nel quadro europeo, gli uomini che li governano. Il secondo è quello della scissione tra l’idea di cittadinanza e quella di nazionalità.
 
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La forza dell’idea di nazione è la sua capacità di dare ai propri membri un sentimento di identità. Vero è che questo sentimento si fonda su di una mistificazione, perché i legami che costituiscono la nazione sono legami ideologici. Così come è vero che l’idea di nazione si è il più delle volte affermata nella storia con la violenza, soffocando preesistenti identità naturali, come quelle locali e regionali, fondate sulla conoscenza personale e sui ricordi comuni. Ciò non toglie che essa, malgrado la sua artificialità, abbia costituito un forte elemento di coesione tra i cittadini, tanto da dar luogo ad una specifica forma storica della statualità, quella dello Stato nazionale. Ma oggi questa forma di Stato è entrata in crisi, con il principio su cui si fonda, e sta per essere superata in un quadro più vasto, a conclusione di un processo storico che dura da decenni, ma che con la Comunità ha incominciato a darsi un contorno istituzionale sempre più articolato, e del quale Maastricht ha costituito una tappa significativa (quale che sia l’esito delle procedure di ratifica in Gran Bretagna e Danimarca). Oggi si pone quindi in termini espliciti il problema dell’identità post-nazionale.
Si noti che il problema non si pone soltanto in Europa. La nazione è in crisi anche negli Stati Uniti. Il potente fattore di unità costituito dall’idea del melting pot, strettamente legato ad una fase della storia americana nella quale gli immigrati potevano profittare di opportunità di riuscita economica, e quindi di inserimento sociale, praticamente illimitate, rischia di sfaldarsi di fronte alle spinte disgregative determinate dalla tendenza storica al rallentamento dello sviluppo. Si sono create imponenti sacche di povertà, che interessano soprattutto, oltre che una parte importante degli Americani di colore, gli immigrati ispanici ed altre minoranze, in particolare di recente insediamento. Questo ha messo in crisi l’identità americana ed ha scatenato una serie di spinte al recupero di identità originarie, spesso dimenticate e non di rado del tutto fittizie (come nel caso di una pretesa identità africana degli Americani di colore, completamente obliterata da secoli di separazione dal continente d’origine, e che comunque non esisteva come fatto unitario nemmeno al tempo del commercio degli schiavi).
Anche negli Stati Uniti è quindi in corso un processo di scissione dell’idea di nazionalità da quella di cittadinanza. Qui peraltro il fenomeno assume un carattere esclusivamente disgregativo, perché mette in pericolo il consenso di fondo che costituisce il supporto dell’ordine democratico senza sostituire al modello di convivenza che ha fatto la grandezza degli Stati Uniti un modello alternativo. Diverso è il caso dell’Europa. Certo anche in Europa un fattore della crisi della nazione è costituito dalle spinte alla disgregazione degli Stati nazionali, o almeno dei più deboli tra di essi (anche se i gruppi che ne sono i portatori si servono a loro volta dell’idea di nazione per nobilitare pulsioni la cui natura è in realtà soltanto tribale, rendendo in questo modo il contenuto dell’idea di nazione ancora più oscuro e contraddittorio). Ma in Europa il terreno specifico sul quale si pone il problema dell’identità post-nazionale non è quello della disgregazione degli Stati esistenti, bensì quello opposto del loro superamento in una più vasta dimensione europea. In Europa quindi il dibattito su questo tema costituisce un importante momento di maturazione, una manifestazione del processo di adattamento della coscienza collettiva e delle categorie attraverso le quali essa si esprime all’emergere di nuovi modi di convivenza, fondati sul superamento di vecchi steccati, sul dialogo tra le culture e sull’allargamento delle dimensioni della solidarietà.
 
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In questo dibattito è diffusa la consapevolezza che, nell’era del villaggio globale, il mito della nazione ha ormai concluso la sua parabola storica, e che la sua devastante ricomparsa nei paesi ex-comunisti non è che una convulsione della sua agonia. Diffusa è altresì la consapevolezza che esso non potrà essere sostituito da un altro mito. Certo, la Federazione europea nascerà come Stato sovrano in un mondo di Stati sovrani, e questo tenderà a creare nei suoi cittadini un embrionale sentimento «nazionale». Ma sarà un sentimento debole, perché fondato su di un’ideologia superata dalla storia, e per di più del tutto incompatibile con la realtà sociale e culturale di un popolo pluralistico come quello europeo. Né la Federazione europea potrà rinnegare il senso storico profondo della sua fondazione, che sarà proprio il superamento del principio di nazione e della sua incarnazione storica nello Stato nazionale.
D’altro lato il solo fatto del continuo allargamento della sfera di interdipendenza dei rapporti tra gli uomini, che è il fondamento materiale della crisi dello Stato nazionale, non è di per sé sufficiente a creare il sentimento di solidarietà che costituisce il cemento di ogni comunità statale funzionante. Basti ricordare come la forte interdipendenza tra le varie repubbliche jugoslave, e il conseguente interesse di tutti i cittadini jugoslavi a mantenere intatta la compagine federale, non abbia avuto alcuna efficacia nell’impedirne la dissoluzione sotto la spinta di una minoranza demagogica e violenta. La coesione di ogni compagine statale deve quindi essere garantita, al di là della necessaria interdipendenza dei comportamenti e degli interessi materiali, da un sentimento di appartenenza ad una comunità sentita come legittima.
In un mondo post-nazionale si pone quindi il problema di individuare una nuova legittimità, che possa fondare un sentimento di appartenenza ad entità statali la cui unità non è più assicurata dal legame costituito dalla nazione. Il fatto che il superamento della nazione esclusiva farà rivivere solidarietà dimenticate di dimensione locale e regionale non è una risposta al problema, perché queste solidarietà saranno un fattore di arricchimento della vita democratica soltanto se si esprimeranno in un quadro statale transnazionale, mentre saranno un fattore di disordine e di disgregazione se si arrogheranno l’attributo della sovranità. Il problema della nuova legittimità è quindi quello di identificare un legame ideale capace di garantire l’unità del quadro politico globale.
 
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Questo legame, se è vero che ormai il mito della nazione è tramontato e non potrà essere sostituito da un altro mito (e sempre che non si voglia pensare che il tramonto della nazione preluda ad un ritorno alla violenza generalizzata dello stato di natura) non potrà che avere un fondamento razionale. Habermas ha ritenuto di individuarlo in quello che ha chiamato «patriottismo costituzionale», intendendo indicare con questa espressione il sentimento di comune appartenenza che dovrebbe unire i cittadini che riconoscono realizzati nella costituzione materiale del loro Stato (nella misura compatibile con lo stadio di avanzamento della civiltà) i grandi valori della convivenza democratica. Si tratta quindi di un lealismo che non viene richiesto ai cittadini in forza della loro appartenenza ad una comunità la cui legittimità risiede nel fatto di essere sentita come «sacra» o «naturale»: ma che viene liberamente accordato ad un sistema istituzionale che realizza valori razionalmente riconosciuti come dotati di validità universale.
Ma in realtà la formula del patriottismo costituzionale, se non ne vengono messe in luce le implicazioni ultime, non è una risposta soddisfacente al problema dell’identità post-nazionale. Essa denota il legame che dovrebbe esistere, e che talvolta effettivamente esiste, tra i cittadini dello Stato del quale si trovano per nascita a far parte, e che è fondato sulla comune fedeltà, liberamente e razionalmente accordata alle sue istituzioni in virtù del loro carattere democratico. Ma, a differenza della nazione, non fornisce un criterio di legittimazione della dimensione e dei confini dello Stato. E, poiché la dimensione e i confini di uno Stato non sono neutrali rispetto alla democrazia, la formula del patriottismo costituzionale entra in crisi quando tra i primi e la seconda si manifesta una contraddizione, e quindi è la stessa comunità politica ad essere messa in questione.
 
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E’ ciò che accade oggi in Europa, dove la democrazia viene messa in crisi proprio dalla dimensione nazionale. E la formula del patriottismo costituzionale non consente di dare una risposta al problema della nuova dimensione della comunità politica nel quadro della quale i cittadini devono prestare la loro fedeltà allo Stato, e su questa base sentirsi solidali tra di loro. Esiste, è vero, un largo consenso sul fatto che il quadro politico che consentirà, almeno in una prima fase, di superare l’identificazione tra Stato e nazione sarà il quadro europeo. Ma i confini della futura Federazione europea sono strutturalmente indefiniti. La Federazione europea di domani potrebbe comprendere soltanto una parte degli attuali membri della Comunità, o i Dodici, o una compagine più ampia, le cui dimensioni sono imprevedibili, e che potrebbe estendersi a parte della CSI e addirittura ad alcuni paesi dell’Africa settentrionale e del Medio Oriente. L’ipotesi più plausibile è che essa nascerà in un ambito ristretto e tenderà ad allargarsi progressivamente. Ma ciò che è importante rilevare è che, quale che sia l’estensione che essa avrà nell’una o nell’altra fase della sua formazione e del suo sviluppo, i suoi confini non saranno mai né «naturali» né «sacri». Essi saranno sempre arbitrari, cioè risulteranno da eventi storici contingenti e non corrisponderanno mai ad un ambito territoriale definito – per quanto imperfettamente – da un principio di legittimità che abbia una forza paragonabile a quella del principio nazionale, in virtù del quale si considera naturale che il territorio francese appartenga alla Francia, o quello italiano all’Italia.
 
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La Federazione europea nascerà da una negazione, quella della sovranità. Fino a che essa resterà limitata ad una regione del mondo, e quindi sarà a sua volta uno Stato sovrano, essa sarà quindi intrinsecamente illegittima. O meglio, potrà avere una legittimità provvisoria, indispensabile per garantirne la coesione, soltanto se saprà esprimere con la sua presenza attiva nella politica mondiale la sua vocazione a promuovere il processo di unificazione di tutti ipopoli del mondo in una federazione cosmopolitica, quale che sia la strada che la storia sceglierà di percorrere per conseguire questo obiettivo. Del resto, se è vero che l’identità post-nazionale non può avere che un fondamento razionale, la comunità politica alla quale essa si riferisce non può essere che universale, come universali sono le regole della ragione, che non valgono per l’uno o per l’altro popolo, ma per l’intero genere umano. Cosi come la democrazia, che è il fondamento del patriottismo costituzionale, non può che avere una realizzazione imperfetta nell’ambito di uno Stato sovrano, costretto dall’anarchia internazionale ad ubbidire alla logica della potenza e a violare le regole del diritto; e non potrà realizzarsi compiutamente che in un quadro politico mondiale di natura federale. Per questo, se non sarà animato da un’attiva vocazione cosmopolitica, il patriottismo costituzionale non potrà garantire l’unità federale dell’Europa senza corrompersi. A seconda delle circostanze esso tenderà a diventare patriottismo tout court (anche se assai debole, perché il tramonto della nazione è irreversibile) o perderà del tutto la sua forza unificante, lasciando libero il campo alle forze della disgregazione.
 
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La cittadinanza europea è quindi l’anticipazione della cittadinanza mondiale, e in quanto tale pone il problema dell’identità cosmopolitica, quella che unisce gli uomini soltanto in forza del rispetto che si devono reciprocamente portare come esseri dotati di ragione, e che fonda in ultima analisi tutti i grandi valori della convivenza civile. E la sola comunità politica definitivamente legittima sarà la Federazione mondiale. Solo sulla base di questa consapevolezza i federalisti possono proporsi di elaborare strumenti efficaci di analisi e di azione nella loro lotta per l’indispensabile obiettivo storico intermedio della Federazione europea.
 
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