IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXI, 1979, Numero 1, Pagina 48

 

 

IL FEDERALISMO COME LA LINEA POLITICA
DELL’UNITÀ NAZIONALE DEMOCRATICA
 
MARIO ALBERTINI
 
 
È nella estrema chiarezza del pensiero politico di Spinelli[1] che abbiamo ritrovato la coscienza della lotta democratica. La grande speranza della Resistenza ci mise ben presto di fronte alla crisi democratica del Paese, e questa crisi, con le sue responsabilità non chiare, pose in isolamento molte forze democratiche, costrinse ad una azione incerta le forze che pur seppero accettare schemi realistici d’azione nelle strutture dei vecchi partiti. Questi infatti furono maggiormente consolidati dalle eredità delle ideologie e delle tradizioni che dalla capacità di indicare, con giudizi pertinenti, le direzioni d’azione richieste dalla situazione. Nel prolungarsi della crisi i più sensibili avvertirono la presa totalitaria che sale dal fondo del Paese, dalle sue moltitudini sbandate perché, pur desiderose di libertà, di civiltà politica, non hanno solide istituzioni cui poggiarsi, tradizioni cui ancorare la loro richiesta di libertà.
Nella direzione di lotta del M.F.E. fu possibile a chi, avvertendo la crisi, tentava una diagnosi realistica della situazione, ritrovare la coscienza della lotta democratica perché finalmente, nell’azione europea, non era data soltanto una ideologia, ma una indicazione capace di portare intelligenze, forze, uomini nello schieramento della lotta per la democrazia. Nel punto focale di questa lotta perché nella diagnosi che sostiene la linea politica del M.F.E. c’è la chiara cognizione della situazione politica. Divenirne consapevoli significa infatti sapere e volere con fermezza una lotta per l’Europa, sapere che questa lotta non la diamo soltanto per realizzare una politica che, nel suo corso tradizionale, non potrebbe risolvere la crisi, ma per conquistare delle istituzioni: «…le istituzioni durano normalmente oltre la vita di coloro che le hanno fondate, danno una impronta difficilmente delebile alle generazioni successive e possono riempirsi di molte diverse politiche». Significa, insomma, possedere lo strumento rivoluzionario della lotta politica.
Con quale coscienza? Le forze democratiche di partito, nella ripresa delle loro posizioni di lotta dopo la Liberazione, non potevano essere le forze decisive per la vittoria della democrazia. Il peso immediato della situazione politica le fece naturalmente responsabili della gestione di questo Stato, le costrinse quindi a definirsi, come organi di giudizi politici e di direzioni di lotta, su un terreno contradditorio. È di tutti la nozione che lo Stato attuale è in crisi, ma non è di tutti la coscienza di questa crisi: i partiti, proprio per il peso delle loro responsabilità contingenti, erano e sono portati fuori da questa coscienza. Dovendo gestire lo Stato nazionale democratico erano e sono portati, quotidianamente, a definirsi nei suoi limiti, a pensare le linee di risoluzione della crisi entro il suo quadro.
Ma la crisi è dovuta all’incapacità degli Stati sezionalmente nazionali di reggere il carico delle competenze del potere. Una politica per la crisi deve dunque trarre la sua ispirazione dalla diagnosi europea nel quadro dei problemi dell’ordine internazionale. La soluzione europea comporta, di fatto, non soltanto la lotta per le istituzioni federali europee ma assieme, necessariamente, la lotta per la trasformazione dello Stato nazionale in Stato federato, cioè per uno Stato alleggerito di competenze, sottratto alla pressione della ragion di Stato perché privato dell’esercizio della politica estera, e aperto alle prospettive di ricca vita interna d’una comunità democratica. Entro il quadro dello Stato nazionale la democrazia non può reggere: il quadro della nazionalità come sovranità assoluta ha soltanto sbocco nell’alternativa fascismo-comunismo. Qui stanno le ragioni di fondo della lotta politica in Italia: non abbiamo la minaccia totalitaria per la presenza del fascismo e del comunismo, abbiamo la presenza del fascismo e del comunismo perché è in crisi lo Stato, perché quando è in crisi lo Stato le alternative della lotta politica non sono alternative di governo, sono alternative di Stato. Il comunismo e il fascismo non sono il male (così li vedono coloro che non posseggono solidamente la diagnosi europea), sono obbiettive esigenze d’una società che presenta alternative statali alla democrazia perché essa non ha ancora conquistato il suo Stato, ma soltanto lotta per esso.
In che termini consiste, in Italia, la lotta per la democrazia? I partiti democratici, s’è detto, sono, per il peso della gestione di questo Stato, per l’esercizio delle loro responsabilità, obbiettivamente inseriti nella lotta entro i limiti sezionalmente nazionali. Ma non c’è soltanto, per i partiti democratici, questa difficile situazione obbiettiva, il loro essere responsabili della gestione d’uno Stato ed insieme la necessità, per la loro vittoria, di superarne i confini. C’è una contraddizione più profonda. In una situazione di governo democratico gli strumenti d’esecuzione della politica sono i partiti democratici: ma essi sono tali, nella loro definizione reale e non formale, quando, in uno Stato democratico, lottano per esprimersi al governo, per battersi all’opposizione; quando, in uno Stato democratico, accettano la formula stessa dello Stato come la legge della propria azione. Questi partiti non sono strumenti per la trasformazione della formula statale perché se si dà una lotta di partito per una trasformazione statale si dà una lotta totalitaria. In tale funzione un partito deve di necessità identificarsi con lo Stato, estendere ad esso la propria legge, la propria ideologia, e quindi impedire agli altri gruppi politici l’espressione.
Se questa è la logica dei partiti, se su questa logica essi maturano la propria coscienza e la propria azione, si può dare una chiara diagnosi della crisi della politica italiana. C’è una contraddizione profonda, non certo imputabile ai dirigenti democratici: i partiti avvertono (e come non lo potrebbero?) la crisi della politica italiana come crisi dello Stato democratico, ma non possono, proprio per la loro natura, pensare ed agire in termini perfettamente europei. Praticamente sono responsabili della situazione sezionalmente nazionale, logicamente non sono strumenti d’una lotta per una rivoluzione statale. La lotta per la democrazia è la lotta per l’Europa, ma questa politica per i partiti è inevitabilmente non la politica, ma una politica estera.
Alla luce di queste considerazioni sarebbe facile riesaminare alcuni problemi di fondo della situazione italiana, problemi continuamente affacciati e mai risolti. L’immobilismo, termine nel quale il Paese avverte, e non capisce, la sua crisi. La svolta del 7 giugno,[2] con le sue indicazioni per una lotta democratica nel Paese, i tentativi di La Malfa per uno schieramento capace di fare questa azione, le ammonitrici indicazioni di Compagna per la battaglia democratica nel Sud. L’indicazione perentoria di Saragat sulla necessità d’una forte socialdemocrazia come condizione per lo sviluppo (quindi la permanenza) della democrazia. Le difficoltà dell’unità politica dei cattolici, oggi minata non soltanto dai comunisti, ma persino denunziata da qualche cattolico; le incertezze dell’interclassismo di questo partito, incertezze che pur non avendo, in sede di pensiero democratico, alcuna controindicazione (perché la democrazia non può ammettere, a pena di rovesciarsi nel comunismo, rigidi schemi d’azione classista) ne ha di fatto nel Paese, nello stesso partito. La democrazia italiana deve definirsi ed agire su tutti questi temi mentre è in crisi la formula istituzionale e la coscienza profonda della risoluzione d’ogni linea politica.
I partiti democratici non hanno la propria forza, la propria coscienza, soltanto in sé stessi. Proprio perché democratici essi implicano lo Stato democratico, e questa implicazione non è un fatto logico, è un fatto reale, è una forza, è il fatto che lo Stato ha, per così dire, un proprio reclutamento, una propria coscienza, che questo reclutamento, che questa coscienza, sono in sostanza la forza che consente ai partiti di stare sul terreno democratico. Ma se è in crisi lo Stato dove i partiti possono trarre l’indicazione di coscienza, l’apporto di forze, per la loro battaglia? Non basta dirci, ad esempio, che la democrazia deve vincere la sua battaglia nel Sud, bisogna dirci qual è l’alternativa nella quale questa battaglia può essere data. Una alternativa significa nuovi schieramenti per l’espressione di nuove forze ma nella nostra situazione, se è vero che è in crisi lo Stato, una alternativa non può essere soltanto partitaria, essa deve trarre la sua forza anche da una indicazione statale. Sinché, nelle nostre indicazioni per la lotta democratica, restiamo sul terreno dello schieramento sezionalmente nazionale, non possiamo trovare nuovi equilibri per l’espressione di nuove forze. Possiamo ammonire i partiti, possiamo tracciare le linee d’una azione virtualmente capace di risolvere la situazione, ma non intendiamo perché i partiti, che pur sentono questi ammonimenti, che addirittura talvolta li esprimono nel pensiero dei loro dirigenti più qualificati, non escono dall’immobilismo. L’immobilismo è obbiettivo: è la realtà d’una lotta politica che non ha ancora mobilitato tutte le sue forze. E non lo ha fatto perché, nella crisi dello Stato, la mobilitazione partitaria non può rinnovare profondamente i termini di forza e di coscienza della lotta.
È necessario divenire consapevoli del significato d’una lotta per lo Stato, se la nostra lotta per la democrazia è a questa scadenza. La lotta per uno Stato comporta la lotta per la conquista d’una unità nazionale, perché questo è il sostegno di forza d’uno Stato. Soltanto una proposta politica che abbia questa coscienza e questa capacità, che sappia maturare nel suo seno élites dotate dell’intelligenza dello Stato, che sappia produrre un appello nazionale, può battersi per questa vittoria. E questa proposta politica non può essere prodotta da una semplice coalizione di partiti democratici. Con infiniti cedimenti, con continue incertezze, questa è stata la politica della democrazia italiana dopo la Resistenza; ma questa politica è proprio quella che ci ha portati al 7 giugno, è quella politica che ha visto diminuire e non aumentare il suo patrimonio di intelligenze, il suo reclutamento di quadri, diminuire e non aumentare la capacità del suo appello, la quantità dei suoi voti. E non poteva non essere: una democrazia tutta fatta al governo (la politica illuminista denunziata da La Malfa), un sistema parlamentare privo di reale opposizione democratica, quindi incapace di reinserire nel processo le ineliminabili realtà di scontento e di contrasto, non possono che logorarsi. Non sono posizioni di conquista, sono posizioni di difesa. E, di fatto, i più intelligenti si portarono su questo aspro terreno: una politica di difesa delle istituzioni democratiche. Ma le battaglie difensive si danno soltanto per creare le posizioni capaci di sostenere la controffensiva, o sono battaglie perdute in partenza.
Queste posizioni stanno oggi realizzandosi perché, al livello internazionale, dove nascono e muoiono gli Stati, ha avuto inizio la realtà immediata, cioè politica, della lotta per la Federazione. E siccome questa lotta comporta la trasformazione dello Stato nazionale in Stato federato nel quadro d’un governo federale europeo, può divenire chiara nel Paese la coscienza dell’alternativa statale democratica. Questa alternativa, poiché non è più soltanto una indicazione logica, ma una posizione reale, comporta due conseguenze. La prima è che la linea politica dell’unità nazionale democratica, cioè della lotta per la democrazia, è il federalismo. La seconda è che su questa linea devono definirsi tutte le forze democratiche perché essa rende evidente nei fatti, e non più soltanto nelle teorie, che la situazione politica italiana presenta, come si è detto, una lotta per alternative statali, non governative. La democrazia finalmente conosce l’obbiettivo della sua vittoria, quindi può e deve battersi, forte della sua proposta di libera unità nazionale, lo Stato federato, contro le proposte d’unità nazionale coatta che, nell’alternativa fascista o comunista, reggerebbero uno Stato totalitario.[3]
I partiti, per essere stabili formazioni del potere, esigono che ci sia uno Stato, che esso non sia in discussione. Quando esso è in discussione, quando esso è in crisi, questi devono avere con sé, od assieme a sé, la proposta d’uno Stato nuovo. In Italia i partiti totalitari portano dentro di sé, secondo la loro natura, la proposta d’uno Stato, per questo hanno efficienza politica. I partiti democratici non possono portare dentro di sé la proposta d’uno Stato, essi sono efficienti politicamente soltanto entro uno Stato democratico. Essi non possono produrre un appello nazionale per un nuovo Stato, perché il loro appello è democratico solo a patto di essere consapevole di essere un appello di parte, d’una parte che sa stare al gioco della formula statale democratica, che ne accetta i verdetti di maggioranza e di minoranza. Un appello nazionale democratico è possibile soltanto al M.F.E., proprio perché è un Movimento, è il Movimento definito dalla coscienza della lotta per l’Europa, nella quale è contenuta la lotta per lo Stato federato, cioè per l’alternativa statale democratica. Questo è il senso della presenza del M.F.E. nella lotta politica interna, qui sta la possibilità d’un appello nazionale per lo Stato democratico. Un appello nazionale deve avere validità per tutti, perché uno Stato è tale quando è di tutti: l’appello nazionale democratico esige la compresenza, nella lotta politica, dei partiti, perché l’unità nazionale democratica è libera e non coatta, esige la espressione delle parti nella dialettica d’una libera unità. E qui sta il senso del fatto che il M.F.E., pure avendo questa funzione nella lotta politica interna, non può definirsi, non si è definito, sezionalmente; non ha e non deve avere posizioni particolari di politica interna.
La sua presenza nella politica interna è dovuta al suo essere, nella crisi dello Stato, il luogo di coscienza della proposta di unità nazionale democratica. E questa non è soltanto cosa teorica, cosa per illuminati. Per questa sua natura il M.F.E. può reclutare a livello nazionale, può essere lo strumento d’iniziativa per le operazioni decisive dello schieramento democratico italiano perché esso solo supera i termini tradizionali della lotta politica, affacciando nella realtà, con la sua azione, la proposta d’uno Stato. Spinelli ci ha detto che il porsi attuale della lotta europea in termini di Comunità di difesa ha messo in crisi le destre nazionalistiche, come il porsi domani della lotta europea in termini di Comunità politica, cioè di suffragio per un Parlamento dotato di poteri, determinerà la crisi delle sinistre nazionalistiche. Cosa comportano queste cose? Comportano il profilarsi delle possibilità reali, non soltanto astratte, della soluzione dei problemi di fondo dello schieramento democratico italiano; comportano la piattaforma di nuovi equilibri per l’espressione di nuove forze, quindi la base delle operazioni per dare, ad es., la battaglia per la democrazia nel Sud, la battaglia per l’unità del socialismo democratico. Perché si rinnovano veramente, in questo processo, i termini della lotta politica nei suoi sostegni di fondo: la leva militare, il suffragio universale. Queste grandi operazioni europee condizioneranno tutto lo sviluppo degli atteggiamenti democratici, delle espressioni nazionali.
Luogo di coscienza per l’iniziativa democratica, il M.F.E. ha nel contempo la possibilità d’un vasto appello nazionale. Nella situazione creata dalla lotta per la C.E.D. la responsabilità del M.F.E. è in questi termini. Mentre i partiti democratici, per la funzione obbiettiva della loro responsabilità, sono costretti ad una lotta su due fronti che li snatura, debbono logorarsi nella difesa delle attuali istituzioni democratiche, il M.F.E., affacciatasi nel corso della politica internazionale con il fatto della C.E.D. la realtà immediata della sua lotta, recluta e avanza. I partiti non reclutano, il M.F.E., in poco più d’un anno, ha quasi triplicato la sua forza, ha oramai una piena dimensione nazionale. Il M.F.E. può reclutare, e recluterà sempre più se continua la lotta per la Federazione; il M.F.E. può finalmente imporre, alle forze democratiche, la realtà concreta e non soltanto la validità logica della sua proposta. Soltanto una sua forte presenza può chiarire le posizioni reali della lotta politica internazionale per la Federazione mentre esse divengono posizioni chiave nella politica interna, di fronte alle quali le intelligenze e le forze democratiche devono definirsi. Sinché la C.E.D. non era la realtà d’una lotta, le forze democratiche non si definivano sui temi della lotta per l’Europa. Oggi che gli sviluppi della politica internazionale obbligano le forze partitarie a prendere un atteggiamento nei confronti della C.E.D. la politica e la coscienza europee hanno fatto un balzo in avanti nel Paese. Questo balzo in avanti è una presa di coscienza dei dirigenti democratici; ma è insieme un incremento della coscienza europea nell’opinione pubblica. Per gli uni, e per l’altra, il M.F.E. deve mantenere l’iniziativa: perché i partiti, pressati dalla loro funzione della gestione dello Stato attuale, sono obbligati per questo a definirsi spesso in termini sezionalmente nazionali sui grandi problemi irrisolti della politica italiana; perché l’opinione pubblica, per la presenza massiccia di questi problemi irrisolti, avverte la crisi dello Stato e perde la fiducia nel processo politico della democrazia.
Questa iniziativa politica è prima un fatto di coscienza che un fatto di azione. Dire oggi che il M.F.E., mentre lotta per la Federazione europea, nel contempo realizza la linea politica dell’unità nazionale democratica, ha un sapore di astratto, di irreale. Ma ogni indicazione è astratta prima che la realtà del processo, che è concorso d’uomini, la renda concreta; la nostra fiducia che il M.F.E. realizzerà questa concretezza sta nel fatto che esso recluta, mentre poco reclutano i partiti, che esso quindi dice qualcosa alle forze che sono rimaste in disparte, o sono state messe in disparte, dal processo della politica nel dopoguerra. Sta nel fatto che oggi noi, nella battaglia per la C.E.D., sentiamo molti dirigenti di partiti, molti dirigenti dell’opinione pubblica, fare questa battaglia con le nostre idee, con il nostro linguaggio, idee e linguaggio che ieri erano definiti dagli stessi come «poetici». Il nostro compito, oggi che la lotta per la Federazione europea è entrata nella fase decisiva e quindi impone i suoi allineamenti, entra nelle cose della politica interna e costringe agli attori di questa a definirsi nei suoi confronti, è di dare al nostro appello nazionale la maggior forza organizzativa possibile, di diffondere la statalità del nostro appello politico per realizzare nel processo della coscienza politica la nostra iniziativa. Noi sappiamo che molti accettano, senza intenderla, la C.E.D., sappiamo che i ritardi e le difficoltà di questa lotta, difficoltà e ritardi nei quali il comunismo strappa alla democrazia l’iniziativa, sono oramai dovuti non agli avversari ma a quanti, pur interessati in questa lotta, ancora non ne apprezzano il pieno significato, pensano la politica per l’Europa non come la lotta per la democrazia, per lo Stato democratico, ma come una politica estera. Sappiamo che, se sarà superata con la nostra vittoria la lotta per la C.E.D., le tappe successive della lotta per l’Europa, per il suo obbiettivo che è la conquista e lo sviluppo d’una reale Federazione, imporranno ben altri allineamenti e quindi esigeranno la nostra iniziativa sempre più forte, perché questi allineamenti ci portino alla vittoria definitiva.
È sulla misura di questi allineamenti che noi possiamo pensare il M.F.E. come la guida della democrazia italiana, come la linea politica dell’unità nazionale democratica. Ed è in questa prospettiva che dobbiamo tendere le forze e la coscienza per le battaglie future: noi non potremo affrontarle senza indicare, alle forze partitarie che debbono essere con noi in questa lotta per l’Europa, la linea di politica interna della nostra azione politica. Le forze partitarie dovranno essere portate alla rivoluzione statale, e potranno essere portate a questo traguardo soltanto nella consapevolezza dei significati, nella politica interna, della lotta per l’Europa, perché appunto a quel livello si definiscono, e definiscono le loro responsabilità, i partiti. Questo compito è nostro: se lo sapremo affrontare con coraggio e con tenacia potremo veramente guidare la democrazia alla vittoria perché, in tale prospettiva, anche il nostro reclutamento, nella sua qualità e nella sua quantità, migliorerà decisamente, ci darà la forza per una potente organizzazione. Il nostro reclutamento, in ultima analisi, è costituito da una proposta d’azione a quanti si pongono oggi il problema della democrazia in Italia. E poiché questo è un problema totale, è un problema nel quale la politica estera condiziona quella interna nella revisione dei significati tradizionali, perché tanto l’una quanto l’altra divengono senz’altro la lotta per la democrazia, totale deve essere la nostra proposta.
(giugno 1954)


[1] Cf. in particolare i saggi n. 1, n. 2 (del 1941) e n. 13 (del 1946) del volume: Dagli Stati sovrani agli Stati Uniti d’Europa, Firenze, La Nuova Italia, 1950. In genere gli altri saggi del volume citato, come gli altri scritti, tra i quali molto utile la chiara esposizione della storia e delle prospettive del M.F.E. nel volume: Sei lezioni federaliste, Roma, M.F.E., 1954.
[2] Si tratta delle elezioni del 7 giugno 1953 che indebolirono lo schieramento a favore del Patto atlantico e della Comunità europea di difesa (C.E.D.). Per valutare le tesi sostenute in questo saggio va tenuto presente che negli anni dal 1951 al 1954 si svolse una battaglia, che restò a lungo incerta, per creare un esercito europeo ed una Comunità politica europea basata sul voto diretto degli europei, e che i comunisti, in gran parte assecondati dal socialisti, fecero quanto poterono, senza esitare di fronte alle menzogne più sfacciate e ai compromessi più vergognosi con i peggiori rigurgiti del nazionalismo, per far fallire il tentativo di allargare il quadro della lotta politica dalle nazioni all’Europa con la fondazione della Federazione europea e la trasformazione dell’Italia da Stato a sovranità esclusiva in Stato membro della federazione (nota aggiuntiva).
[3] Quando ho scritto questo saggio il comunismo non presentava ancora l’aspetto delle «vie nazionali» (od europea). Era stalinista, strettamente filosovietico ed aveva carattere monolitico: rappresentava, in ogni paese, la via verso la «dittatura del proletariato», cioè la tendenza verso un regime a partito unico e l’eliminazione violenta di ogni forza incompatibile con questo regime. È vero che con la scelta del partito di massa il comunismo italiano aveva tacitamente abbandonato uno dei canoni fondamentali del leninismo; ed è anche vero che il suo alto livello culturale lo differenziava nettamente da altre esperienze comuniste. Ma è anche vero che con la sua politica effettuale, e con la sua «doppiezza», esso portava ad espressione sul piano politico le tendenze verso una dittatura di «sinistra» esistenti nella società italiana. Che questa tendenza esista ancora (il che implica che in Italia ogni azione politica ha sempre — consapevolmente o non — anche il carattere di una azione per l’unità nazionale democratica o per l’unità nazionale coatta, di destra o di sinistra) lo mostra il fatto che quando il Partito comunista si scosta realmente, e non solo verbalmente, dalle posizioni dittatoriali a quelle democratiche, perde almeno in parte il controllo politico della tendenza sociale verso una dittatura di «sinistra» (che pur separandosi dal P.C.I. si vale, come non potrebbe essere altrimenti, di una terminologia comunistica e di una rozza ideologia marxistica). Questa dinamica politica, che divide ed indebolisce la sinistra (sia come sinistra democratica, sia come sinistra «rivoluzionaria», ma in effetti reazionaria per l’incapacità di superare realmente, nell’azione, la teoria della «rivoluzione» come colpo di mano e dittatura), costituisce ancora il maggior problema italiano, che resta in effetti quello della completa acquisizione della sinistra, tanto in termini politici quanto in termini sociali, alla democrazia. Resta sempre vero, d’altra parte, che questa acquisizione è in realtà un problema europeo: di trasformazione europea dei partiti e di trasformazione europea della società italiana. Ancora una osservazione. Il termine «sezionalismo» (qui usato anche nell’espressione, che i fatti hanno confermato, «Stato sezionalmente nazionale») era allora abbastanza impiegato — forse sulla base dell’uso inglese — per designare i fatti sociali la cui manifestazione politica è corporativa. Vedi, ad esempio, in Altiero Spinelli, Dagli Stati sovrani agli Stati Uniti d’Europa, La Nuova Italia, Firenze, 1950, il saggio «Nazionalismo, sezionalismo e collettivismo» (nota aggiunta).

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