IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XX, 1978, Numero 4, Pagina 189

 

 

RAPPORTO DI MARIO ALBERTINI
AL COMITATO FEDERALE DELL’U.E.F.
DEL 4-5 NOVEMBRE 1978
 
 
I — Noi abbiamo fatto molto, con una azione durata molti anni, per ottenere l’elezione europea. Abbiamo fatto molto, in questi ultimi mesi, per interessare l’opinione pubblica, le forze politiche e sociali e le autorità ai problemi dell’informazione europea e della partecipazione elettorale. Adesso, che ci troviamo ormai a pochi mesi dalla data dell’elezione, dovremmo fare tutto ciò che possiamo per ottenere, con il primo voto europeo, il migliore risultato possibile. Avevo proposto questo problema alla ultima riunione del Comitato federale; l’ho riproposto al B.E. che si è tenuto a Londra alla fine di agosto. Il B.E. l’ha discusso, ed è giunto alla conclusione che per cercare di orientare sia gli elettori sia i partiti, l’U.E.F. dovrebbe scegliere gli slogans più efficaci, e delle forme di azione che possano funzionare come vettori per ottenere la massima diffusione possibile di questi slogans. Naturalmente questi slogans devono esprimere la stessa strategia — la strategia europea che abbiamo adottato al Congresso di Bruxelles — anche se possono essere differenziati per tener conto delle diverse situazioni nazionali. La stessa considerazione vale per le forme dell’azione, che pur assumendo in ogni nazione un carattere particolare, dovrebbe avere qualche cosa di simile, di compatibile, anche allo scopo di poter in qualche modo sommare i risultati per far sì che l’azione condotta in ciascun paese possa rafforzare quella condotta in tutti gli altri paesi. È evidente, del resto, che l’U.E.F. ha sempre il dovere di dimostrare che una propaganda veramente europea, ed una azione articolata ma anch’essa veramente europea, sono perfettamente possibili. Solo così l’U.E.F. può svolgere il suo ruolo di stimolo e di iniziativa, che per la sua stessa natura dovrebbe situare i federalisti in una posizione realistica, ma più avanzata di quella dei partiti e dei governi, cosa che non è per nulla impossibile se si cerca di valutare non solo ciò che si può ottenere a breve termine, ma anche e soprattutto ciò che si può ottenere a medio e a lungo termine. È così che abbiamo vinto la battaglia per l’elezione europea. È così che abbiamo dato un contributo importante al rilancio dell’unione economico-monetaria.
Sulla base delle conclusioni raggiunte dal B.E., la Segreteria generale ha pregato le sezioni nazionali di manifestare la loro opinione circa gli slogans e le forme di azione da adottare. Ciò dovrebbe permetterci di discutere con cognizione di causa questo problema, e di giungere a delle decisioni pratiche che ci consentano, non appena saremo tornati nelle nostre sezioni, di metterci al lavoro e di chiamare al lavoro tutti i nostri amici. La mia relazione ha dunque lo scopo di aprire questo dibattito con alcune osservazioni sui criteri e sulle questioni da tenere presenti nella discussione che stiamo per fare. Vorrei cominciare, per quanto riguarda gli slogans, con una distinzione che non sempre viene osservata. Noi abbiamo un compito permanente, che rimane sempre lo stesso anche se possiamo esprimerlo in modi e con linguaggi diversi a seconda delle circostanze, e che è quello di mostrare che l’unità dell’Europa è una questione di vita o di morte per i nostri paesi — prima per i più deboli, ma a lungo termine per tutti — e che l’unità si raggiunge solo con la federazione. I governi e i partiti cercano di restare sulla via confederale, non solo per una ostilità di principio alla federazione, ma anche, e più spesso, per inerzia, per non affrontare situazioni nuove con metodi nuovi, e noi dobbiamo approfittare di ogni occasione per far constatare che ciò non basta. Questo tipo di propaganda è un nostro compito quotidiano e noi dobbiamo farla anche nei prossimi mesi perché è la base di ogni altra nostra presa di posizione. Ma ciò che si fa tutti i giorni non va né discusso né deciso. Dipende dai nostri statuti, e dai principi del pensiero federalista. Ciò che va invece discusso, esaminato e deciso è un secondo tipo di propaganda, che riguarda ciò che si può fare in ogni circostanza determinata, per far avanzare la costruzione dell’Europa e per dare una soluzione europea ai maggiori problemi del momento.
È una osservazione banale. Ma permette di evitare un errore frequente, quello di scegliere i temi della propaganda, e quindi anche gli slogans, col solo criterio della loro facile accettabilità da parte dell’opinione pubblica, o di questo o quel settore della popolazione. L’accettabilità è ovviamente molto importante, ma deve essere considerata solo in un secondo tempo. Prima si tratta di giudicare la situazione politica generale per cercare di stabilire che cosa può far avanzare l’Europa e che cosa la fa retrocedere, cioè che propaganda bisogna fare; e solo in un secondo tempo di studiare il modo di renderla accettabile al massimo, senza tuttavia rovesciare la questione e perdere di vista gli obiettivi che bisogna raggiungere solo per scegliere degli slogans apparentemente migliori. Va anche detto che se ci si trova di fronte alla necessità di propagandare obiettivi difficili da comprendere o da accettare, l’escluderli solo per questa ragione equivarrebbe ad una diserzione. In casi di questo genere si può, ad esempio, associare l’idea difficile ad una idea familiare, e via dicendo; senza mai dimenticare tuttavia che anche la propaganda è tributaria della verità; e che essa è tanto più efficace quanto più rende trasparente la realtà. Se le cose non stessero così, la democrazia non sarebbe, come è, la forma più alta e più civile di reggimento politico; e va tenuto presente, specie in questo tempo nel quale le comunicazioni di massa hanno degradato l’informazione, che proprio perché si nutre di verità, a differenza dei regimi tirannici, la democrazia diventa debole quando cresce il numero delle persone che pensano che i cittadini non siano saggi quanto basta, e buoni quanto basta, per far tesoro della verità.
Entro certi limiti ciò che vale per la propaganda vale anche per la forma dell’azione. C’è una azione permanente che le nostre sezioni svolgono in modo continuo. Essa corrisponde alla necessità di applicare e far conoscere i nostri principi, e tende pertanto a dare alle nostre sezioni la forma di organo di dibattito politico-culturale e di informazione del pubblico. Ciò si può fare, ovviamente, solo rispettando le particolarità nazionali, regionali e locali; ed è per questo che ci sono differenze nel modo con il quale le nostre sezioni svolgono la loro azione permanente. Ma ciò che serve tutti i giorni per acquisire un numero sempre maggiore di persone ai principi del federalismo e dell’unità europea non basta quando il problema è quello di schierare persone su una posizione contingente e contro un’altra posizione contingente perché non si tratta di dividere le forze tra chi vuole la federazione e chi non la vuole, ma tra chi vuole ciò che, in quel momento, avvicina alla federazione e ciò che allontana dalla stessa. In questi casi bisogna concepire azioni ad hoc, che dipendono dalla natura della situazione politica e dalla capacità di analizzarla, e che possono consistere anche in adattamenti all’azione ordinaria, o in aggiunte a questa, ecc.
Vorrei concludere questa parte della mia relazione osservando che questa distinzione tra propaganda e azione permanente, e propaganda ed azione imposte dalle circostanze, è utile anche rispetto ad una questione molto importante per noi, e dalla quale dipende il nostro reclutamento di forze nuove, in ispecie giovanili. La questione è la seguente: fino a che punto dobbiamo impegnarci sui temi tipici del federalismo, cioè per un verso il rinnovamento della società a partire dal basso, dalle comunità naturali, organiche, e per l’altro l’unità del genere umano (fondamento del disarmo, della giustizia internazionale, dello sviluppo del Terzo mondo, di una politica mondiale delle risorse, ecc.) e fino a che punto dobbiamo invece impegnarci sui temi tipici dell’unità europea, cioè per un verso il rafforzamento e l’allargamento della Comunità (unione economico-monetaria, poteri da togliere agli Stati, ecc.), e per l’altro i problemi immediati che sono tali da allontanare o da avvicinare, a seconda della soluzione che ricevono, l’unità dell’Europa (inflazione, disoccupazione, ecc.)? C’è un campo della nostra azione dove la scelta non è dubbia. Quando si tratta di politica culturale noi dobbiamo far conoscere e dibattere i principi e le prospettive del federalismo. Ma quando si tratta di politica in senso stretto — cioè della situazione di potere, e della sua incessante evoluzione a favore di questa o quella forza, questa o quella soluzione — noi dobbiamo tener presente che fino a quando l’unità europea non sarà definitivamente assicurata, ci troveremo sempre di fronte a fatti che la avvicinano o l’allontanano. Noi dovremo pertanto cercare sempre di schierare il massimo di forze democratiche — senza distinguere tra federalisti e non — sulle posizioni che avvicinano l’unità dell’Europa. In questo settore noi dovremo dunque privilegiare i temi dell’unità europea, così come si pongono in ogni circostanza determinata, se è vero, secondo la tendenza di pensiero che è patrimonio dell’U.E.F., che non ci può essere né vera indipendenza, né completa libertà d’azione interna — anche economica e sociale — fino a che la divisione ci subordina allo strapotere delle grandi potenze. Solo dopo, quando non dovremo più scongiurare la catastrofe che è sempre possibile con la divisione ed avremo recuperato pienamente l’indipendenza con l’unità, potremo, anche nel campo strettamente politico, dividere le forze sulla base dei principi del federalismo.
II — L’esame dei criteri da tener presenti ci dice dunque che non avremo una propaganda efficace se parleremo solo dell’Europa e non anche, e principalmente, di ciò che si può ottenere con la prima elezione europea e con il primo Parlamento europeo eletto direttamente, e se non avremo inoltre una forma di azione adatta a diffondere questa propaganda. La questione da affrontare adesso, per scegliere bene gli slogans, è dunque questa: che cosa si può ottenere? Quali motivazioni, quali energie si possono far entrare in campo?
Noi abbiamo a lungo analizzato due aspetti fondamentali della situazione europea, quello istituzionale e quello dei contenuti, anche grazie al lungo dibattito per elaborare e adottare il Manifesto. In questo dibattito si è fatta luce sia l’idea che col voto europeo l’integrazione è passata dallo stadio del gradualismo funzionale a quello del gradualismo costituzionale, sia l’idea che con il rilancio dell’unione economico-monetaria, a patto che sia chiaramente finalizzata verso la moneta europea e non verso un sistema di parità fisse, si può stabilire un solido aggancio della Comunità ai più gravi problemi economici del momento. Sono, a mio parere, due vedute giuste, che ci collocano effettivamente un po’ più avanti dei partiti e dei governi. Ma ciò non basta. Le difficoltà del dibattito che si è acceso sul Sistema monetario europeo mostrano che se ci si limita ad un esame unilaterale di ciascun problema, anche di quelli più importanti come quello delle istituzioni o quello dell’unione economico-monetaria, non si forma una chiara idea del fatto che l’Europa è un vantaggio per tutti, ed acquista invece peso una ottusa considerazione circa i vantaggi e gli svantaggi a breve termine per ciascun paese, cioè la considerazione che privilegia l’Europa intergovernativa rispetto a qualunque altra forma dì Europa.
Bisogna dunque allargare il campo dell’analisi e chiedersi: come siamo arrivati a questo punto, a questo rischio che prevalgano le divisioni nazionali, alla crisi dell’Italia, alle difficoltà del Regno Unito, alla stasi della Comunità? Come possiamo uscirne? Si può dire, intanto, che come c’è stata una facilità italiana, che ha portato la spesa pubblica nazionale e il costo del lavoro ad un livello che distacca l’Italia dall’Europa, così c’è stata una facilità europea con l’idea che bastasse l’unificazione economica graduale per giungere all’unità economica e persino a quella politica (se avessimo già, secondo la logica dell’unificazione economica graduale, la moneta europea, l’Italia non potrebbe finanziare con l’inflazione i suoi errori e le sue colpe). Si può anche dire che tutto dipende forse dal fatto che con la crisi del sistema monetario internazionale, la fine delle parità fisse e lo sganciamento del dollaro dall’oro, ci è letteralmente cascata addosso una sovranità monetaria nazionale alla quale di fatto avevamo già rinunciato, e che l’abbiamo adoperata ottusamente per disfare l’Europa e innescare il pericolo di un ritorno del protezionismo. Ma il fatto è che non possiamo limitarci all’esame di questo o quel fattore, di questo o quel problema, e dobbiamo invece prendere in considerazione il momento attuale del processo storico, e la posizione dell’Europa e delle sue nazioni in questo vasto e verace contesto. È solo a questo punto che compare il significato attuale dell’unità europea, ed è solo quando questo significato è chiaro che tutte le motivazioni virtuali si manifestano e tutte le energie disponibili entrano in campo.
Bisogna dunque fare questa prova, giudicare il momento storico. Ci vuole forse una specie di ingenuità. Bisogna forse scegliere il tono di uno che spiegasse agli europei, anche a quelli che non credono nell’Europa, ed in ogni caso a quelli che sono insoddisfatti sia dell’Europa, sia del loro paese, la situazione nella quale ci troviamo. Io credo che ciò si potrebbe dire nel modo che segue.
L’Europa occidentale, la parte del mondo nella quale viviamo, non è perfetta ed attraversa attualmente un periodo di gravi difficoltà, ma è comunque la parte del mondo dove c’è più libertà politica, sociale e culturale. È più libera oggi di quanto lo sia mai stata nel corso della sua storia sino alla seconda guerra mondiale; ed è anche pacifica come nessuna altra parte del mondo, anche se un equivoco coro di denigratori che talvolta riesce purtroppo a confondere le idee dei giovani, sostiene pervicacemente il contrario. Ovunque, nel mondo, si assiste al confronto permanente di forza — forza bruta, militare — tra gli Stati, alle guerre, alla minaccia costante del ricorso alla guerra come modo per negoziare e alle dispute per i confini, perfino tra paesi che dicono di ispirarsi al comunismo, perfino tra paesi che hanno conquistato insieme l’indipendenza. Cose di questo genere in Europa sembrano ormai impensabili. La Francia e la Germania sono amiche. All’interno della Comunità, e anche in un raggio più vasto, nessun paese confina con un paese dal quale debba guardarsi, e nei confronti del quale debba difendere la propria indipendenza nazionale con mezzi militari. Si tratta di un bene inestimabile, del quale dovremmo diventare più coscienti per non correre il rischio di perderlo. È su questa base europea di pace e di libertà, senza nemici ai confini, che la Spagna, la Grecia e il Portogallo, ritrovando il loro spirito europeo, hanno ritrovato la libertà. È solo su questa base che si può lavorare davvero per l’avvenire, per una società europea più libera e sempre più giusta. Ed è solo su questa base che le nuove generazioni — come le future — resteranno, come sono già, immuni dai mali del nazionalismo e del militarismo. Ma tutto ciò può essere ancora perduto perché non si fonda ancora su una unità indistruttibile, ma solo sulla marcia verso l’unità, e questa marcia può essere interrotta.
Occorre dunque pensare e parlare con chiarezza. La marcia verso l’unità europea non è qualcosa che si fa nel vuoto. C’è marcia verso l’unità se si danno risposte europee ai maggiori problemi della vita nazionale. C’è invece ricostituzione della divisione se si danno risposte ottusamente nazionali a questi problemi. E ci sono momenti decisivi, nei quali questa scelta diventa estrema, irrevocabile, sia perché non ci sono vie di mezzo né palliativi sia perché le vie divergono nettamente, sia perché se si prende la via nazionale non si può più riprendere la via europea. Nel passato ciò è già accaduto due volte. La prima volta con la ricostruzione, dopo le rovine della guerra. Se non avessimo scelto la liberalizzazione degli scambi — anche grazie alla lucida e generosa iniziativa degli U.S.A. — non si sarebbe posto il problema della integrazione europea. La seconda volta è stato nel 1950, con il problema del ritorno della Germania occidentale nella vita internazionale. Se non avessimo scelto l’integrazione europea — grazie al genio di Monnet e alla grandezza di Adenauer, De Gasperi, Schuman e Spaak, e contro il gran numero di esperti e di funzionari che ripetevano che aprendo le frontiere si sarebbe provocato un disastro — oggi il distacco tra i nostri paesi, non solo in termini economici ma anche politici, sarebbe ormai così grande che non si parlerebbe più da tempo di unità europea.
Orbene, noi siamo per la terza volta che è forse anche l’ultima, di fronte ad un momento simile. La scelta, ormai, dovrebbe essere chiara. L’Europa non è più soltanto il progetto dei suoi pionieri. L’Europa è un’isola di pace e di libertà in un mondo in tumulto, un esempio per il mondo. Con il primo allargamento alla Danimarca, all’Irlanda e al Regno Unito, e con la prospettiva del secondo allargamento alla Grecia, al Portogallo e alla Spagna, la nuova Europa ha già dimostrato, pur essendo ancora incompiuta, di essere già capace di riunire gradualmente tutte le sue nazioni e di saperne presidiare la libertà e lo sviluppo. D’altra parte, con il riconoscimento del diritto di voto europeo dei cittadini, la nuova Europa procede ormai verso una grande innovazione politica, che può essere decisiva anche per il futuro del mondo, cioè verso il primo esperimento di un governo democratico in una società di libere nazioni. C’è ancora, tuttavia, un ostacolo da superare. Non si può unire l’Europa col voto sul terreno della democrazia, se la si divide con le monete nazionali sul terreno della politica economica e monetaria. Eppure ciò è proprio quanto si è cercato di fare negli ultimi anni, dopo la crisi del sistema monetario internazionale e l’illusorio recupero della sovranità monetaria nazionale, con risultati rovinosi in materia di mancato sviluppo, disoccupazione e inflazione nei paesi più deboli. Questa è una delle due vie che abbiamo di fronte, ed è una via nazionale senza ritorno. L’altra è quella, impostata dal Consiglio europeo di Brema, del rilancio dell’unione economico-monetaria. Bisogna dunque prendere questa via senza esitazioni e percorrerla risolutamente fino in fondo, sino alla vera moneta europea e ad una spesa pubblica europea di dimensioni sufficienti per ottenere uno sviluppo economico equilibrato in tutta la Comunità.
Spiegando così la situazione dell’Europa ad un ipotetico ascoltatore incerto o contrario forse la spieghiamo con maggiore chiarezza anche a noi stessi. E dovremmo aggiungere che c’è poco tempo per decidere. È certo che non si può pensare che ci sia un avvenire per l’Europa divisa, e sottoposta allo strapotere delle grandi potenze, né per le sue nazioni, qualora fossero risospinte dalla divisione verso una rivalità ormai di tipo balcanico, gravissima subito per i paesi più deboli, e rovinosa per tutti. Ma è anche certo che il tempo della decisione per l’unità sta consumandosi inesorabilmente. Non si può mantenere a lungo una unione doganale, con il fragile complemento di una unione agricola, senza consolidarla, rafforzarla ed equilibrarla, nell’interesse delle zone più deboli, con una unione economica e monetaria. Bisogna capire che i paesi più deboli non possono restare in Europa se l’Europa non si costituisce, perché solo con l’idea di non distaccarsi da una Europa che esiste essi possono risalire la china, ridurre il tasso di inflazione, ecc. (l’esempio dell’Italia è chiaro: senza l’annuncio del S.M.E. il piano di risanamento del ministro Pandolfi sarebbe già caduto). Ma bisogna anche capire che il tempo della decisione si restringe sempre di più perché i problemi ai quali l’Europa e gli Stati devono rispondere diventano sempre più pressanti. Nel mondo sta per nascere un nuovo equilibrio internazionale, fondato su una nuova divisione del potere, del lavoro e delle risorse. Se l’Europa non dovesse partecipare come una unità a questo processo di ricostruzione dell’ordine internazionale, la sua divisione diventerebbe un dato di fatto sancito dal nuovo equilibrio mondiale, e quindi non superabile per un intero ciclo storico. Si tratterebbe, per l’Europa, di una nuova catastrofe storica, dopo quelle già subite nella prima metà del nostro secolo.
III — L’Europa si trova dunque di fronte ad una scelta tra la via europea e una via nazionale senza ritorno, e la linea di spartiacque è tra il partecipare come una entità economico-monetaria, o come la somma di nove sistemi slegati e divergenti, ai nuovi sviluppi dell’economia mondiale. Scegliere i nostri slogans e le forme di azione senza tenere conto di questo aspetto della realtà sarebbe un non-senso. Dovremmo ascoltare la lezione del passato, e soprattutto una, quella di Jean Monnet. Ci troviamo infatti in una situazione analoga a quella nella quale egli creò la prima Comunità europea proprio per spingere l’Europa sulla via dell’unità e per evitare che la divisione divenisse irrimediabile. Conviene dunque rileggere il Memorandum che egli rivolse il 3 maggio del 1950 a Georges Bidault, allora Presidente del consiglio e a Robert Schuman, allora Ministro degli esteri. C’è un passo cruciale, che spiega quale carattere abbiano situazioni di questo genere, e come si dovrebbe affrontarle: «De quelque coté qu’on se tourne, dans la situation du monde actuel, on ne rencontre que des impasses… D’une pareille situation, il n’est qu’un moyen de sortir: une action concrète et résolue, portant sur un point limité mais décisif, qui entraine sur ce point un changement fondamental et, de proche en proche, modifie les termes mêmes de l’ensemble des problèmes.»
Se ciò è vero, il problema è questo: qual è il punto sul quale si deve agire. E non ci possono essere dubbi: è la moneta. Nel 1950 i problemi erano diversi. Ad esempio, il paese in difficoltà era la Germania occidentale, oggi è l’Italia. Ma anche per l’Italia vale la logica con la quale Monnet pensava allora alla Germania: «Il ne faut pas chercher à régler le problème allemand, qui ne peut pas être réglé avec les données actuelles. Il faut en changer les données en le transformant. Il faut entreprendre une action dynamique qui transforme la situation allemande et oriente l’esprit des allemands, et non pas rechercher un règlement statique sur les données actuelles». Per l’Italia, ora, questa trasformazione è la moneta europea, cioè l’impossibilità di scaricare la debolezza che deriva dallo stato precario dei suoi equilibri politici e sociali (simile a quello di tutti i paesi nello stesso grado di sviluppo: massimo esempio la Germania nel primo dopoguerra) sull’inflazione. E ciò che vale per l’Italia, vale, in prospettiva, per la Spagna, la Grecia e il Portogallo. L’Europa è in gioco. È impossibile tenere insieme le diverse parti dell’Europa se le loro economie divergono, ma ciò è inevitabile se ciascuna ha la propria moneta. Nessuno Stato resterebbe unito con un sistema di questo genere.
Seguendo la lezione di Monnet possiamo dunque dire che se agiamo sul punto della moneta, si modificano i termini dei maggiori problemi: bilancio della Comunità, politiche comuni, convergenza delle politiche nazionali, ecc.; se si cerca invece di agire su ciascuno di questi problemi, senza affrontare quello della moneta, si ottiene troppo poco, come è accaduto durante gli ultimi anni, e non si riesce più a frenare la crescente divergenza delle politiche nazionali. Il nostro compito, in questa prospettiva, sarebbe dunque quello di sviluppare — come avevamo deciso al Congresso — la nostra propaganda e la nostra azione sul punto centrale della moneta europea. A solo titolo di esempio, vorrei dire che cosa ha pensato di fare il M.F.E. in Italia. Il piano è questo: una campagna del Movimento europeo (secondo la risoluzione di Roma) che può essere organizzata da qualunque gruppo, e alla quale possono aderire sia gli individui singolarmente sia qualunque associazione. La Campagna — che mantiene l’idea del milione di aderenti — fa riferimento a ciò che si può ottenere con l’elezione europea e con il primo Parlamento europeo eletto direttamente, e indica letteralmente:
a) la moneta europea, allo scopo di assicurare in modo definitivo l’unità dell’Europa;
b) una spesa pubblica europea non inferiore al 2,5% del prodotto europeo, per rendere possibile e non onerosa la convergenza delle politiche nazionali con una politica europea efficace nei settori agricolo, industriale, regionale e sociale con particolare riferimento all’occupazione.
Lo scopo è in generale quello di orientare l’opinione pubblica, le forze politiche e quelle sociali, e, in particolare, di ottenere un numero di adesioni che consenta di ottenere quella dei candidati, in modo tale da condizionare coloro che risulteranno eletti al Parlamento europeo. Quello del M.F.E., in ogni modo, non è che un esempio. Ciò che conta è che in tutti i paesi, con le modalità adatte a ciascun paese, si ottenga il massimo risultato possibile.

 

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