IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno LIII, 2011, Numero 3, Pagina 204

 

 

EUROPA:
FEDERAZIONE O CATASTROFE*
 
 
La crisi economico-finanziaria cominciata nel 2007 ha rilanciato il processo d’integrazione europea e il progetto federalista anche se in modo non lineare, ma attraverso spinte e controspinte.
In un primo periodo, a partire dal 2008, l’impatto della crisi sulle vicende europee ha riguardato soprattutto il mercato interno e la sua tenuta. Ci sono state minacce di misure protezionistiche a livello nazionale (ad esempio in Francia) e in alcuni settori manifatturieri (l’industria automobilistica) e finanziari (le banche).
In questa fase la Commissione europea ha svolto bene il suo ruolo di guardiano delle regole del gioco del mercato comune — che, non dimentichiamolo, rappresenta ancora oggi il nocciolo duro di tutta l’integrazione realmente esistente — respingendo le tentazioni protezionistiche.
Anche la Banca centrale europea ha svolto, sin dall’agosto del 2007, un ruolo largamente positivo collaborando strettamente con i suoi principali omologhi del mondo industrializzato, cominciando dalla Federal reserve, nel provvedere liquidità a un sistema finanziario e creditizio globale più volte sull’orlo della paralisi. Il mondo e l’Europa in una situazione d’emergenza hanno concretamente tratto profitto in termini di chiarezza d’idee e rapidità decisionale, dall’avere un solo attore in campo monetario, la BCE, invece di diversi e disparati.
A partire dalla fine del 2009 è invece cominciata un’altra fase, quella della crisi del debito sovrano, inaugurata dalla Grecia e poi estesasi a Irlanda e Portogallo. Nel maggio del 2010 sono arrivate le prime risposte, con la creazione del cosiddetto fondo salva Stati finanziato dal bilancio comunitario e dagli Stati membri, più il sostegno del Fondo monetario internazionale.
In questa seconda fase l’euroscetticismo ha prevalso, in particolare nel mondo anglosassone, sulla stampa e tra gli intellettuali — economisti soprattutto — di Stati Uniti e Gran Bretagna. Senza, purtroppo, che dall’Europa continentale e dagli europeisti arrivassero convincenti controargomenti. Si leggeva — sul New York Times come sul Wall Street Journal, sul Financial Times come sull’Economist — che la crisi del debito sovrano dimostrava che l’euro non poteva reggere senza unione politica (tesi effettivamente giusta), e che, poiché l’unione politica non è possibile (affermazione invece infondata), l’euro era condannato a sparire.
Quei giornali si interrogavano sul perché un paese — come la Grecia, ma lo steso valeva anche per l’Italia o altri ancora — avrebbe dovuto continuare a privarsi dello strumento monetario, ossia della possibilità di riguadagnare competitività svalutando. E infatti il modello di risanamento che si indicava alla Grecia e ai paesi più deboli dell’Eurozona era l’Argentina del 2001-2: default del proprio debito pubblico, abbandono della parità col dollaro, svalutazione del peso. Che, ad esempio per la Grecia, significa uscita dall’euro e ritorno a una dracma svalutata.
Dietro questo atteggiamento c’erano probabilmente anche calcoli di convenienza: il debito pubblico è esploso negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, e più i risparmiatori mondiali si rivolgono ai loro titoli piuttosto che a quelli dell’Eurozona o di altri paesi, più bassi sono gli interessi da corrispondere. Fenomeno che vediamo in piena azione perché i rendimenti dei titoli americani e britannici in relazione ai fondamentali delle due economie sono realmente miserrimi e ai minimi storici.
A partire dal luglio del 2011, con l’aumento subitaneo e drammatico del differenziale di interessi tra i titoli italiani e spagnoli da una parte e quelli tedeschi dall’altra, si è entrati in una terza fase. Una fase in cui la crisi si è estesa a due economie molto grandi, come l’Italia e la Spagna, il cui fallimento non solo vorrebbe dire la fine dell’euro, ma anche un rischio serio di meltdown del sistema creditizio globale attraverso il fallimento a catena di banche e istituti finanziari in Europa e fuori che detengono grandi quantità di titoli pubblici dei due paesi.
Di fronte a un rischio di queste proporzioni, l’atteggiamento della stampa anglosassone, in particolare quella economica, è cambiato radicalmente. Il sillogismo cui ho accennato prima è diventato: l’euro non può reggere senza unione politica, ma poiché è meglio per tutti se regge, gli Stati dell’Eurozona facciano pure l’unione politica.
Il mondo della finanza, in particolare quello anglosassone, sembra improvvisamente essere diventato l’alfiere più ardente degli Stati Uniti d’Europa. Un esempio è George Soros, il finanziere magiaro-americano che guadagnò una fortuna nel 1992 puntando sull’uscita di Gran Bretagna e Italia dal Sistema monetario europeo e che oggi si batte, con articoli e appelli pubblici, per l’emissione di eurobonds e per la creazione di un ministero del Tesoro europeo.
Ma non c’è solo Soros. Il 5 settembre scorso il New York Times ha pubblicato un articolo sulla situazione fiscale e finanziaria europea (“Europeans Talk of Sharp Change in Fiscal Affairs”, di Louise Story e Matthew Saltmarsh) in cui si spiegava al lettore che “l’dea di creare una autorità finanziaria centrale… potrebbe alla fine mutare l’Eurozona in qualcosa che assomiglia agli Stati Uniti d’Europa”. E’ la prima volta che la stampa americana parla dell’Europa federale come di un qualcosa che appartiene al regno del possibile e addirittura dell’imminente.
Sempre sul New York Times, il 29 settembre, è intervenuto con un editoriale Gordon Brown, ex cancelliere dello scacchiere e primo ministro britannico, e ha fatto un paragone esplicito tra il governo economico di una federazione compiuta, gli Stati Uniti d’America, e l’Eurozona, suggerendo a quest’ultima di dotarsi degli strumenti a disposizione del governo americano, tra i quali la redistribuzione delle risorse tra gli Stati membri.
Queste idee di Gordon Brown, incidentalmente, vanno d’accordo con una proposta che Emma Bonino e io stiamo portando avanti da qualche tempo, quella della creazione di una Federazione europea leggera, ossia un’unione politica che comprende un Tesoro (e quindi un’Unione che tassa e spende), ma le cui dimensioni complessive in termini di spesa pubblica sarebbero contenute al 5% circa del PIL europeo.
Per dare dei termini di riferimento, oggi gli Stati nazionali spendono in media circa il 50% dei rispettivi PIL; mentre il bilancio comunitario assorbe circa l’1% del PIL europeo ed è fatto, dal lato delle entrate, di meri trasferimenti dagli Stati nazionali e, dal lato delle uscite, di sussidi, per la metà circa destinati all’agricoltura.
Ora, si può tassare e spendere — l’essenza, quindi, di Finanze e Tesoro — solo se in cambio vengono dati ai contribuenti beni pubblici, ossia funzioni di governo. Le funzioni di governo di una “Federazione leggera” dovrebbero essere, a nostro avviso: la difesa, con la creazione di un esercito europeo; la politica estera (compresi gli aiuti allo sviluppo e gli aiuti umanitari); grandi programmi scientifici a livello federale (come lo spazio, ad esempio, in analogia con la NASA); le infrastrutture delle reti transeuropee, finanziate stavolta a livello federale e non più a livello di Stati membri ciascuno per il proprio pezzetto; il controllo delle frontiere (si tenga presente che già oggi l’unione doganale è una competenza esclusiva dell’Unione) e dell’immigrazione in analogia alla Homeland Security statunitense; e, da ultimo, gli aiuti alle regioni in ritardo di sviluppo, che peraltro già esistono e assorbono un terzo abbondante dell’attuale bilancio comunitario.
Emma Bonino e io rivendichiamo il fatto che la nostra non sia un’idea nuova. La visione spinelliana dell’Europa federale era limitata all’incirca alle funzioni di governo che abbiamo appena visto. L’elenco stilato da Eugenio Colorni nella sua prefazione del 1944 al Manifesto di Ventotene comprende: “esercito unico federale, unità monetaria, abolizione delle barriere doganali e delle limitazioni alla emigrazione tra gli Stati appartenenti alla Federazione, rappresentanza diretta dei cittadini ai consessi federali, politica estera unica”.
Il rapporto del 1977 alla Commissione europea del gruppo di studio presieduto da Donald MacDougall sul ruolo della finanza pubblica nell’integrazione europea, aveva concluso raccomandando a uno stadio iniziale una federazione con un bilancio attorno al 5-7% del PIL.
Se l’idea non è nuova, è però importante ribadirla oggi per contrastare l’assordante e pluridecennale campagna montata dagli euroscettici che identifica la Federazione europea con lo spaventoso leviatano, ovvero il cosiddetto “superstato europeo”.
In politica le parole contano tutto o quasi. Dalla Thatcher in poi la stampa britannica ha imposto i termini fondamentali della questione europea, “le parole per dirlo”. Basta una puntatina a Bruxelles per rendersi conto che, di fatto, il quotidiano degli eurocrati e di tutti quelli che gravitano intorno alle istituzioni europee è il Financial Times. Bisogna dunque anche ingaggiare una sorta di battaglia lessicale per smontare certi pregiudizi antifederalisti, il più grosso dei quali è proprio questa fandonia di origine britannica del superstato europeo.
Il 5% da noi proposto è ben poca cosa rispetto al 50% degli Stati nazionali esistenti — sono loro i veri superstati. Inoltre queste risorse sarebbero sostitutive e non aggiuntive, perché accompagnerebbero lo spostamento al centro federale delle relative funzioni di governo. E, infine, così facendo si sfrutterebbero economie di scala e quindi si finirebbe per diminuire la spesa pubblica complessiva in Europa.
Se, ad esempio, un esercito europeo potesse contare sull’1% del PIL dell’UE, con 130 miliardi di euro l’anno sarebbe immediatamente il secondo esercito al mondo in termini di risorse dopo quello degli Stati Uniti e verrebbero risparmiati circa 70 miliardi di euro l’anno. Finalmente, poi, avendo la possibilità di crearle da zero, potremmo avere forze armate adatte alle missioni che interessano davvero l’Europa, invece di mantenere uomini e mezzi presso gli Stati membri pensati per una guerra che per fortuna non c’è stata — quella tra NATO e Patto di Varsavia — e che non ci sarà mai più.
Risparmi di questo ordine di grandezza in termini di spesa pubblica, in una congiuntura come quella corrente, diventano particolarmente significativi. Per tutti questi motivi, congiunturali e non, insistiamo a presentare questa proposta nel modo più fiscalmente conservatore possibile. Ed è sempre per questo motivo che, pur sostenendo caldamente l’idea di emettere eurobonds sostituivi dei titoli pubblici nazionali dell’Eurozona, non vediamo con favore l’idea di emettere eurobonds aggiuntivi al debito sovrano esistente, anche se finalizzati al finanziamento di progetti degni e condivisibili — almeno fintantoché la situazione delle finanza pubblica dell’Eurozona non sia stata sostanzialmente sanata.
Ho toccato finora quasi esclusivamente temi economici, finanziari e fiscali. E la politica? La decisione di fare o non fare gli Stati Uniti d’Europa resta una decisione politica — anche se ha un costo economico, come lasciava intendere il titolo del rapporto del gruppo di studio presieduto da Paolo Cecchini sul “Costo della non Europa”, che studiava i costi della mancanza di un mercato interno, un quarto di secolo fa. Adesso il costo della non Europa si è spostato sul piano finanziario: lo spread rispetto ai Bund tedeschi è il costo della non Europa per tutti i non tedeschi dell’Eurozona.
L’Eurozona nel suo complesso è in condizioni economiche molto migliori, ad esempio, di quelle degli Stati Uniti: migliori conti con l’estero, minore indebitamente pubblico e privato, migliore distribuzione della ricchezza. Persino gli squilibri interni, tra Stato e Stato, tra regione e regione, non sono più forti di quelli che caratterizzano gli USA — come ha spiegato Jean Claude Trichet in un breve paper risalente allo scorso luglio. Ma paghiamo — alcuni di noi stanno pagando a caro prezzo, letteralmente — il costo della mancanza di unità.
Tornando alla politica, c’è un’altra perla di saggezza popolare euroscettica simile al “superstato” che consiste nel dare per scontato che l’opinione pubblica dappertutto in Europa sia violentemente contraria all’unità politica — e in particolar modo in Germania. Eppure proprio in Germania i partiti attualmente più tiepidi verso il processo d’integrazione, cioè democristiani e liberali, non fanno che perdere un’elezione locale e regionale dopo l’altra a favore di socialdemocratici e verdi che invece stanno prendendo posizioni più nettamente europeiste.
In Italia, invece succedono cose strane e persino sbalorditive. Il 16 settembre, il nostro ministro degli Esteri Franco Frattini ha dichiarato in Polonia che “l’Italia è pronta a rinunciare a qualunque sovranità occorra per creare un vero governo centrale europeo”. Eppure questa posizione, a dir poco clamorosa, di un paese fondatore della Comunità non ha attirato l’attenzione di nessun giornale, né in Italia né all’estero e non è stata in alcun modo ripresa dallo stesso governo italiano dal quale proviene.
Per contro il 18 settembre, sul Sole 24 Ore, Giuliano Amato, vice-presidente della Convenzione europea e uomo molto informato di cose europee, ha scritto un articolo in cui attacca chi, a suo dire, si sta spingendo troppo in là sulla strada del federalismo, proponendo invece una strategia di “muddling through”, di navigazione a vista, sulle questioni europee più pressanti all’ordine del giorno.
Questi due esempi solo per ribadire che, sia al governo, sia all’opposizione c’è da noi, non meno che altrove, grande confusione sulla strategia da seguire.
Tornando all’economia, che sembra assai più lucida nel valutare la reale portata per l’Europa della situazione in cui ci troviamo, vorrei ricordare una dichiarazione apparsa oggi sul NYT di Kenneth Rogoff, un economista di Harvard che ha scritto, insieme a Carmen Reinhart, il miglior libro degli ultimi anni sulla crisi finanziaria dal titolo This Time is Different. Rogoff sostiene: “Io non credo che la politica dei piccoli passi sia in alcun modo più credibile. Alla fine di questo percorso c’è bisogno degli Stati Uniti d’Europa. Gli europei pensavano di avere venti anni per arrivarci. E invece hanno venti settimane”.
Migliore conclusione di questa di Rogoff non saprei trovare.


* Intervento di Marco De Andreis al convegno del MFE “Europa: Federazione o Catastrofe”, Milano, 30 Settembre 2011.

 

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